Varcare le porte scaligere dopo quasi 10 anni di assenza è già in se un’esperienza emozionante, pur con le somma di vezzi e malvezzi che lo caratterizzano il teatro milanese ha sempre un suo fascino nonostante la scarsa fruibilità visiva di gran parte dei posti. Emozione sicuramente rafforzata dall’aver assistito ad una delle migliori realizzazioni scaligere degli ultimi anni quale si è rivelata essere la nuova produzione della wagneriana “Die Walkure” che già aveva goduto della diretta televisiva in occasione della prima del 7 dicembre.
La visioni diretta ha confermato le buone impressioni avute dall’ascolto televisivo e ha pienamente confermato la bontà complessiva della produzione e la decisa prevalenza della componente femminile del cast.
Daniel Baremboin conosce questo repertorio alla perfezione e la sua direzione mostrava pienamente la decennale esperienza con la complessità della scrittura wagneriana. Quella di Baremboin è una direzione molto teatrale, concentrata sull’aspetto narrativo, sul passo drammatico della vicenda cui può risultare sacrificata anche la ricerca della bellezza sonora. Scelta che viene ad evidenziare con forza momenti spesso sacrificati da una certa prassi interpretativa ma che acquisiscono una particolare evidenza nella lettura di Baremboin, penso alla scena di Fricka restituita alla sua centralità teatrale prima che musicale. Questo taglio interpretativo non toglie però la possibilità a Baremboin di dar libero sfogo alla più soggiogante bellezza sonora nei momenti deputati, specie nel III atto quando le arcate sonore che accompagnano l’ultimo incontro fra Wotan e Brünnhilde e il successivo addio del Dio sono di uno splendore soggiogante, di un afflato di bellezza davvero divina.
L’intensa lettura orchestrale trovava pienamente riscontro nella componente femminile del cast, forse la migliore oggi ipotizzabile per quest’opera e capace di prestazioni di non comune intensità. Indimenticabile la Brünnhilde di Nina Stemme. Il soprano svedese forse non è a prima vista l’ideale per il ruolo e a tratti risulta costretta a patteggiare con una tessitura di rara complessità – per altro chi non ha avuto problemi in questo ruolo dopo la Nilsson? Ma qualche piccolo difetto vocale, qualche difficoltà nei salti dell’”Hojotoho” iniziale non contano veramente nulla rispetto ad un personaggio tanto riuscito. La Stemme ha voce bella, un timbro caldo e vellutato di estrema femminilità, fin dal principio la sua Brünnhilde appare segnata verso la conquista di una umanità che non appare castigo divino quanto inevitabile compimento di una necessità del personaggio. Una Brünnhilde che lungi dall’essere la gelida guerriera di una certa tradizione è qui una fanciulla piena di slancio, di trepidante affetto fin dal primo incontro con il padre, di un bisogno incomprensibile ma inevitabile di pietas tanto che poche altre volte il breve monologo che chiude il primo quadro del II atto “Schwer wiegt mir der Waffen Wucht” è stato così denso di nobile commozione.
La vicende di Brünnhilde diviene nella lettura della Stemme il naturale sviluppo di questi presupposti: Un “annuncio di morte” di infinita dolcezza in cui la ribellione della Valchiria è già palpito in ogni nota, inevitabile compimento di un bisogno di umanità che l’incontro con il dolore di Siegmund fa emergere definitivamente dai gorghi dell’animo; una scena con Sieglinde del III atto che è un capolavoro di intelligenza interpretativa, un incontro di due solitudine che si fondono nella comune necessità di un amore che viene ad unirle in colui che ancora non è e dove lo slancio di “den Namen nehm er von mir: Siegfrid erfreu sich des Siegs” è già l’esplosione di un amore necessario che il tempo potrà solo differire. Evoluzione che trova il culmine nell’ultimo incontro con Wotan, dove la fanciulla è divenuta una donna conscia del proprio destino e della propria natura, in cui la scoperta di una profonda ed inarrestabile umanità la rende capace di trascendere la stessa natura divina in un inarrestabile crescendo emotivo – senza che questa venga mai a mettere in discussione le ragioni del canto – in cui l’intensità della Stemma e la rapinosa bellezza dell’orchestra di Baremboin si fondono in un’esperienza di assoluta trascendenza. Grande musica e ancor più grande teatro, vera opera d’arte totale.
Altissima statura artistica anche quella della veterana Waltraut Meier come Sieglinde. Ovviamente la lunga carriera si sente e qualche difficoltà di tenuta vocale traspare specie nei lunghi monologhi, inoltre la voce della Meier è di matrice mezzosopranile e qualche durezza nel settore acuto è inevitabile. Ma anche nel suo caso le – per altro limitate – difficoltà vocali non compromettono una prova dove ad emergere è la qualità altissima dell’interprete. Una Sieglinde sofferta, piena di slancio e di passione ma anche capace di leggere la realtà con una sensibilità tutta femminile che sfugge totalmente alle controparti maschili. Statura di interprete che ha contribuito in modo essenziale alla straordinaria riuscita dell’incontro con Brünnhilde del III atto rendendo a mio parere molto bene quella dimensione di specularità fra le due figure intorno all’asse rappresentato dal nascituro Siegfrid. Va inoltre ricordato che nonostante la non più giovanissima età la Meier ha ancora un notevole fascino scenico risultando pienamente credibile nella parte.
Di natura invece prevalentemente vocali i meriti di Ekaterina Gubanova come Fricka. Il giovane mezzo-soprano russo ha fatto sfoggio di una voce non comune per potenza, proiezione e bellezza timbrica, compatta ed omogenea in tutti i registri e giustamente dotata di quella marmorea bellezza che si addice ad una Dea. La splendida voce della Gubanova da un contributo essenziale alla particolare riuscita dell’episodio di Fricka, la cui centralità viene giustamente sottolineata da Baremboin. Va inoltre registrato come il nobile fraseggio della Gubanova riesca a ridare al personaggio la sua più profonda – e spesso fraintesa – natura: quella di una Divinità impegnata quanto Wotan, seppur con diversi metodi, ad allontanare l’inevitabile compiersi del “Destino degli Dei”.
Corretto anche se privo di particolari slanci il gruppo delle Valchirie.
Purtroppo la componente maschile del cast non avvicinava neppur lontanamente i risultati delle colleghe. Il migliore mi è parso il giovane basso-baritono ucraino Andreij Kowaljow nei panni di Wotan. La parte è cantata con correttezza ma la voce è piccola – in alcuni momenti dava quasi la sensazione di accennare piuttosto che di cantare a piena voce, gli acuti poco squillanti, il fraseggio piatto e monocorde. Il risultato è stata una figura in scala minore priva di quella grandiosità che dovrebbe caratterizzare il primo degli Asi: semplicemente schiacciato nel confronto con Fricka del II atto, in difficoltà a reggere il fuoco della Stemme nel III – dove pure qualche buona intenzione interpretativa si è ascoltata. E’ un vero peccato perché lo splendore del magma sonoro che l’orchestra sprigionava nel finale avrebbe richiesto un Wotan di ben altra statura artistica.
Molto modesto Simon O’Neill come Siegmund. Le note le esegue tutte con una certa correttezza e sugli acuti sale anche con una discreta sicurezza – anche se rischia non poco sulla puntatura di “Wälsungen-Blut” – ma la voce è decisamente poco bella, ciocca e di timbro anonimo e grigiastro, priva di quei centri ampi e bruniti che la parte richiederebbe. E’ possibile un Siegmund in chiave più lirica quali furono King e per certi versi Hoffmann ma in ogni caso si richiede uno squillo eroico che O’Neill è lungi dal possedere, la sua resta voce da Loge o da Mime prestata – malamente – a Siegmund. Inoltre il fraseggio è decisamente piatto e la vicinanza con la Meier è addirittura imbarazzante sul piano attoriale.
Più complesso il discorso su John Tomlinson nei panni di Hunding, il basso inglese è stato interprete wagneriano di altissimo livello e qualche sprazzo si vede ancora; per quanto parli piuttosto che cantare la voce ha ancora una sua imponenza e il fraseggio una certa autorevolezza. Certo le difficoltà sul canto sono notevoli, la voce è ormai dura a qualunque modulazione dinamica e spesso sconfina nell’urlo – terribile il grido ferino che segna il rientro in scena nel II atto. Massimo rispetto per quanto è stato e riconoscimento per quello che ancora riesce ad ottenere con l’impegno ma il giudizio non può essere favorevole. Anche nel suo caso nuoce non poco sul piano interpretativo la sistematica vicinanza alla Meier.
La parte visiva era firmata dal belga Guy Cassiers per regia e scene – queste ultime insieme a Enrico Bagnoli – e da Tim van Steenbergen per i costumi. Spettacolo sostanzialmente di scarso interesse il cui principale merito stava nel non disturbare l’ascolto. Scene stilizzate arricchite da proiezioni dal senso spesso sfuggente, in genere abbastanza banali e già ripetutatamente viste nonostante le altisonanti dichiarazioni sulla natura rivoluzionaria dello spettacolo. Alcune scene risultavano sicuramente suggestive alla vista, con soluzioni anche belle su un piano prettamente estetico – il grande gruppo scultore con figure equine illuminate da lampi verdastri nella scena del Walhalla; la foresta trasformata in una selva di giavellotti su cui si proiettavano cangianti effetti di vegetazione; le immagini proiettate sulla sfera ruotante che si trova al centro del Walhalla e che potrebbe rappresentare l’immagine dell’Universo che ruota intorno ad Yggradsil – altre decisamente meno felici – troppo confuso l’intreccio di corpi umani ed equini durante la cavalcata; tristissime le lampadine rosse da terrario che circondano Brünnhilde addormentata – ma in ogni caso apparentemente slegate da un percorso unitario. Praticamente assente qualunque tentativo di regia degno di quel nome risultando il tutto affidato all’istinto dei singoli cantanti con risultati ottimi nel caso della Stemme e delle Meier – e in parte per Tomlinsson – e decisamente più modesti per gli altri, specie Kowaljow che spesso resta immobile in scena e O’Neill privo di qualunque espressività fisica.
Infelici i costumi di Tim van Steenbergen, stilista belga forse di una certa qualità come sarto di moda ma privo di una competenza teatrale. Costumi spesso obbiettivamente brutti – terribile quello di Wotan trasformato in una sorta di mostruoso incrocio fra Pierrot e il Chuwbecca di “Guerra Stellari”, ma anche l’ultimo abito di Brünnhilde eccessivo come scollatura e dallo strascico tanto ingombrante da rendere difficili i movimenti alla Stemme – altri magari esteticamente apprezzabili come abiti da sera – quelli delle Valchirie – ma in ogni caso scarsamente teatrali. Mi pare evidente che il costumista abbia sfruttato l’occasione per far mostra delle proprie creazioni di moda (mi pare che gli abiti siano acquistabili nella Maison dello stesso) piuttosto che concentrarsi sulla creazione di autentici costumi.
In ogni caso pur con le pecche rilevate si è trattato di uno spettacolo nel suo complesso decisamente godibile con punte di elevatissima qualità. Un inizio anno che difficilmente poteva essere migliore.
Io voglio invecchiare come la Meier, la miseria! Quella ha fatto il patto con il diavolo!
Ah, e quando hai citato Chuwbecca ho riso come una matta!!!!
In ultimo, ribadisco: io il vestitone di Brunilde me lo metterei. Con un buon push-up, ovvio.
Condivido che come abito da concerto potrebbe andar bene – certo meglio di certi orrori tipo l’ultimo della Netrebko a Dresda – anche se non amo quete scollature a 360°.
La Meier credo abbia un ritratto in cantina che invecchia per lei.