Ormai è notorio che la brutta moda del teatro di regia sta prendendo piede anche in Italia e sperando di superar presto la fase acuta come si fa con certe malattie non resta che aspettare ed intanto giocarci un po’ su. Anch’io provo quindi a proporre una mia elucubrazione al riguardo, ovviamente alla mia maniera. Come opera scelgo come titolo il “Wozzeck” di Alban Berg che mi sembra particolarmente adatto a questo esperimento anche perché non credo sia mai stato rappresentato rispettando l’originaria ambientazione al 1821 prevista dal dramma di Büchner. Pensando alle allucinate atmosfere berghiane effettivamente il contesto post-napoleonico non appare oggi fra i più convincenti e la vicenda spinge per essere riambientata in uno di quei momenti in cui la follia prendeva il sopravvento e l’Europa sembrava di colpo essersi destata in un incubo infernale. Scartata ovviamente la prima guerra mondiale – troppo banale – e ancor di più la seconda – che Berg non ha potuto conoscere e che quindi mi sembra totalmente impropria – mi è tornata alla mente la seguente frase “L’inferno non aveva più diavoli perché tutti si erano riversati sulla terra”. Quelle parole erano del romanziere tedesco Hans J. G. Grimmelshausen e si riferiscono alla Guerra dei Trent’anni lo spaventoso conflitto che nella prima metà del secolo XVII trasformò veramente l’Europa Centrale in una landa infernale. Inoltre l’ambientazione mi portò rapide alla mente alcune immagini che seppur precedenti potevano tornarmi utili. L’opera si apre nella stanza del Capitano all’interno di una fortezza di una generica città investita dalla guerra. Lungo le pareti ritratti di antenati dal sapore grottesco, quasi mostruoso, armi sparse per la stanza. Wozzeck finisce di radere il Capitano che si riveste da perfetto gentiluomo con baffi arricciati, barbetta alla Richelieu e abito variopinto con ampia gorgiera bianca. Un damerino verosimilmente imbelle ma orgoglioso e sprezzante in virtù della propria nobiltà. Al suo fianco il Dottore di nero vestito con la grande gorgiera di un bianco candito che emerge per aspro contrasto e l’alto cappello apparentemente uscito da un dipinto di Franz Hals. I due incarnano le due facce di un potere apparentemente rispettabile – ma vedremo presto quali abissi si celano dietro questa rispettabilità – ma già da subito capace di schiacciare con la sola presenza il povero soldato Wozzeck che costretto nelle più umili corvée non indossa nemmeno la divisa ma sempre trascinarsi nel misero vestito di tela grezza insozzata di sangue e di fango e nei pesanti zoccoli di legno grezzo. E’ la contrapposizione di due mondi inconciliabili – quello dei dominati e quello dei dominatori – in cui presto compariranno i mostri della follia. Gli incubi prenderanno definitivamente corpo nella scena quarta ambientata nello studio del Dottore. Le astratte paure della scena della foresta qui prendono corpo e la rispettabile apparenza del Dottore mostra il suo lato sinistro. In un mondo dove la scienza ancora non si è costituita come tale il Dottore si muove sul pericolo crinale che separa la medicina dalla magia e dalla stregoneria. Wozzeck scende in un cupo sotterraneo, lungo le pareti scansie lignee reggono animali imbalsamati, frammenti di scheletri, barattoli contenenti organi sotto spirito e incisioni tratte da dipinti di Brueghel e Bosch che con i loro esseri deformi penetreranno in profondità nella fragile mente di Wozzeck. Il povero soldato è fatto sdraiare su un tavolaccio dominato da un uccello impagliato e coperto da un lenzuolo nero su cui è ricamato un pentamero; mentre il Dottore snocciola le sue inquietanti ricette strane luci fluttuano intorno a Wozzeck, vapori dall’aspetto antropomorfo forse lemuri o spettri evocati in qualche rito senza nome. Di contro al mondo demoniaco del Dottore la serenità domestica della sfera legata a Marie appare con ancora maggior rilievo. Una casa povera ma dignitosa, con pochi mobili e qualche pia incisione alle pareti. Marie si muove in questo mondo con l’abito semplice ma ordinato di certe inservienti della pittura olandese del secolo XVII simile a certe lattaie o cameriere che popolano il mondo di Vermeer. La follia di Wozzeck arriverà a toccare anche questo mondo di serenità arrivando a stravolgerlo ma non a distruggerlo e mentre il mondo attorno prenderà forme sempre più mostruose, Marie subirà un processo inverso per trasformarla – maggiore sarà la sua colpa – in qualche cosa di sempre più astratto, luminoso, idealizzato. Travolto dalla sua follia – o dalla stessa follia del mondo – Wozzeck comincia a stravolgere la realtà nella sua mente. Il trucco modifica l’aspetto dei personaggi dandogli connotati sempre più grotteschi e caricaturali. Emblematico il caso del Tamburmaggiore che all’inizio compare come un tronfio soldataccio mentre col prosieguo della vicenda acquisisce i tratti brutalmente deformati della soldataglia che compare nella “Salita al Calvario” di Hieronymus Bosch (1516). La deformazione della realtà creata dalla follia di Wozzeck prende piena consistenza nella scena quarta del secondo atto ambientata nei giardini della taverna. All’inizio è tutto normale, una locanda d’epoca con mobili rudi e massicci, file di boccali lungo le pareti, soldati e borghesi ai tavoli. All’entrata di Wozzeck tutto comincia a mutare, luci innaturali invado la scena e progressivamente i figuranti in abiti secenteschi sono sostituiti da altri il cui aspetto ricordo le droulerie di Bosch e Brughel viste nelle incisioni del Dottore e divenute l’incarnazione visiva degli incubi di Wozzeck. Il povero soldato si trova circondato da mostri fra cui emergono solo due figure umane: Marie di bianco vestito dai biondi capelli disciolti, una sorta di Maddalena avvolta in una luce irreale e il Pazzo la cui immagine risulta modella su quello degli Jurodovij slavi, anch’essi in qualche modo a contatto con il mondo soprannaturale. Da quando questi pronuncia le parole: “ich riech’, ich riech Blut!” le luci creano una chiazza di sangue ai piedi di Wozzeck che non lo lascerà più fino alla fine dell’opera. Le scene dell’uccisione di Marie e della morte di Wozzeck sono rese in modo speculare. Il palcoscenico appare diviso in due in un totale sdoppiamento della realtà: sotto il mondo reale in cui agisce Wozzeck, sopra l’immagine mentale dello stesso che viene proiettata. Così mentre sotto vediamo Wozzeck accoltellare Marie o annegare nel lago risciacquando la daga con cui è stata uccisa la donna sopra vediamo un mondo popolato di creature mostruose. E’ una di esse a guidare la mano assassina di Wozzeck e sono esse a spingerlo nel Lago, o meglio anche il lago scompare sostituito da una maschera mostruosa come quello che compare il “Dulle Griet” di Pieter Bruergel il giovane (1562) nelle cui fauci spalancate sprofondano sia Wozzeck sia Marie. Ma il mondo intero e sprofondato in un incubo ancor più spaventoso di quelli di Wozzeck, l’incubo della guerra. La realtà che vediamo al piano inferiore non è infatti meno angosciante, la scena si svolge in una cupa foresta fra alberi spezzati e bruciati, così come combusti sono i resti di una fattoria. Sparsi a terra cadaveri semiputrefatti di soldati con ancora infisse picche o spade spazzate mentre dalle travi annerite della fattoria si vedono alcuni contadini impiccati. Se la morte a liberato Wozzeck dai suoi incubi non altrettanto è accaduto al mondo esterno. Nell’ultima scena i bambini giocano in una piazzetta di una città assediata, intorno a loro si muovono gruppi di soldati e fuochi si accendono in lontananza. Durante la scena sul fondo compare proiettato il “Trionfo della morte” dello stesso Bruegel il giovane (1562) e sulle ultime parole del figlio di Marie, sul suo ipnotico e allucinato “Hopp, hopp…” cala una tela su cui il dipinto e proiettato in scala monumentale fino ad occupare l’intero palcoscenico. Restano solo la morte e la guerra con i loro mostri, con i loro orrori in cui si disperdano come nel nulla le fragili vite degli umani.
Wozzeck à la Bruegel. Ovvero idee per una regia alternativa.
7 agosto 2011 di Giordano
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