Il teatro puccianiano così attento al mondo femminile – seppur visto con la lente distorta di un sadismo non troppo celatamente misognino – termina con la sfuggente figura di Turandot, la principessa cinese che appare un unicum nel teatro del compositore lucchese e italiano in genere, imparentata piuttosto con certe figure del coevo repertorio tedesco (e forse mai abbastanza si sottolineeranno i legami fra “Turandot” e il coevo repertorio del mitteleuropeo da Strauss a Schreker e Korngold).
Ma la storia dell’algida principessa affonda in passato ben più remoto, precedente di secoli non solo a Puccini ma anche alla favola di Gozzi cui l’opera è liberamente ispirata e in cui si fondono reali fatti storici e leggende di ogni parte dell’Oriente.
Se il nome di Turandot significa semplicemente “Figlia del Turan” – e torneremo in seguito sul nome – è innegabile il richiamo al nome della principessa Purandokht (o Burandokht) figura chiave dei tormentati momenti che segnarono il tracollo dell’Impero Sassanide. La principessa era figlia del Gran Re Khorsau II Parviz e imperatrice per un anno fra il giugno del 629 e quello dell’anno successivo. Salita al potere dopo i torbidi che accompagnarono l’assassinio di Ardashir III, il suo scopo fu quello di stabilizzare le sorti dell’impero, favorì un accordo con i bizantini e cercò di attuare una politica di ricostruzione delle satrapie distrutte dalla guerra e di rilancio della monetazione. La sua volontà di restaurazione del potere imperiale si scontrò inevitabilmente con le contrapposte mire di molti alti nobili del regno smaniosi di accrescere il proprio potere temporale; in una di queste congiure di palazzo Purandokht venne assassinata dal generale Piruz Khorsau.
Il trono passo alla sorella Azarmidokht, il cui regno durò pochi mesi nel corso del 630. La giovane principessa cerca di continuare la politica della sorella ma allo stesso tempo cercò di dimostrarsi particolarmente decisa nel sopprimere possibili avversari, probabilmente il ricordo di queste repressioni contribuì nelle successive leggende alla creazione della figura della sanguinaria principessa. Non sappiamo molto sulla fine di Azarmidokht le cui tracce si perdono nei convulsi fatti degli ultimi anni della dinastia sassanide.
Le due principesse non sono per altro le uniche due figure femminili “irregolari” nella storia del tardo impero sassanide. In questo elenco di donni forte e guerriere che vennero a trovarsi alla guida di quell’ultimo, disperato tentativo di resistenza dell’antica civiltà orientale travolta dalla marea islamica meritano una menzione altre due figure: Apranik, figlia di Piran uno fra i più abili comandanti dell’esercito di Yazdegerd III. La giovane aristocratica servì come ufficiale nelle ultime campagne contro gli arabi – secondo una tradizione che risaliva al periodo partico – e dopo la sconfitta dell’impero fu tra i principali organizzatori della resistenza anti-islamica conducendo personalmente fino alla morte una spietata guerriglia contro gli invasori, il ricordo di Apravik è sopravvissuto facendo di lei il simbolo dell’indipendenza persiana. Una vicenda analoga è quella dell’ircana Azad Deylami che sulle montagne del Caucaso fra le principali protagoniste della resistenza zoroastriana all’invasione tanto da passare alla storia con il nome di Azad “La libera”.
La letteratura sassanide è per noi praticamente perduta ma la sua eco permeò a lungo tutta la cultura arabo-persiana del primo periodo islamico, tanto che questa appare spesso come l’adattamento islamico di opere precedenti ancora riconoscibili in filigrana – si pensi alla cornice e a molti racconti delle stesse “Mille e una notte”. I ricordi della storia persiana e delle sue ultime eroine, l’antica letteratura orientale, gli echi della cultura ellenistica (così presente nei Re dei Re filoelleni che a partire dal V d.C. cercarono di presentarsi come i protettori della classicità in contrapposizione alla cristiana Costantinopoli) torneranno a farsi vivi con la ripresa letteraria a cavallo dell’anno mille.
La prima significativa attestazione del mito di Turandot come lo conosciamo oggi è contenuta nel poema “Haft Peikar” (I sette ritratti) del poeta persiano Nezami (1141-1209). I sette ritratti del titolo sono sette donne delle quali si sarebbe innamorato il re Barham Gum – e si ritorno alla matrice sassanide del racconto – fra le quali è compresa un’anonima e crudele principessa russa in cui già si riconoscono i tratti della futura Turandot.
Al XIII secolo si data una successiva versione – di elaborazione abbaside o egiziana ma sicuramente risalente a modelli persiani- quella presente nella novella “L’imbattibile principessa e il finto vegliardo” in seguito inserita ne “Le mille e una notte” (il racconto è espunto dall’edizione critica di Khawam proprio per la sua anteriorità alla raccolta). Il protagonista del racconto è ancora Bahram – qui ancora principe – intento a conquista la bella e irraggiungibile Datmà disposta a sposare solo chi la sconfiggerà in una giostra equestre con la lancia. Il principe viene sconfitto, segnato in fronte e privato di armi e cavallo – a differenza di Turandot, Datmà non predente la morte per i corteggiatori sconfitti. A quel punto il principe, lungi dal darsi vinto ricorre ad ogni sorta di inganni e travestimenti riuscendo infine a conquistare la principessa. Nel racconto troviamo già alcuni elementi della favola successiva e allo stesso tempo una fusione di elementi eterogenei che uniscono il gusto della novellistica orientale a precedenti di matrice classica (per la figura di Datmà è stato evocato il precedente di Atalanta).
Come l’ignota principessa russa anche Datmà è una straniera, così come straniera sarà la cinese Turandot. E’ evidente come gli autori islamici tendano a vedere questo modello femminile attivo e dominante come estraneo alla propria cultura e quindi respinto fuori dal proprio mondo, allontanando da esso una dimensione “pericolosa” come la storia delle forti principessa persiane aveva reso evidente ai conquistatori islamici.
Al deciso spostamento della vicenda in Cina un contributo determinante viene da un’altra figura storica, questa volta narrata da Marco Polo. Si tratta della principessa mongola Khutulun, guerriera valorosa e splendida cavallerizza. Anch’essa sfidava i suoi pretendenti e nel caso fossero stati sconfitti – in questo caso si tratta di una gara di lotta, sport tradizionale dei mongoli – non solo avrebbe dovuto rinunciare alla sua mano ma avrebbero dovuto cedergli cento cavalli. Anche in questo caso la valorosa principessa non ha nulla di sanguinario ma il ricordo di Khutulun ha avuto un ruolo non secondario nella recezione – e ricostruzione – occidentale del mito.
La “vera” Turandot come oggi l’immaginiamo compare per la prima volta agli inizi del XVIII nella liberissima traduzione – meglio sarebbe dir riscrittura – fatta da François Pétis de la Croix de “Le mille e notte” in cui lo scrittore francese fece confluire un gran numero di racconti e suggestioni dovute alla sua lunga frequentazione del mondo orientale ma totalmente estranee al corpus proprio dell’opera. In una di queste novelle lo scrittore francese introduce il personaggio di Turandot che per la prima volta compare con il nome con cui tutti la conosciamo, la “figlia turca” dell’imperatore cinese Altoum Khan (verosimilmente trasposizione letteraria di Temur Khan, sovrano fra il 1294 e i 1307) dove si riprendono i racconti relativi a Khutulun (in realtà figlia di Kublai Khan e quindi sorella di Temur) sostituendo gli indovinelli alla lotta e inventando l’uccisione dei pretendenti sconfitti. Da questo punto i tratti essenziali del personaggio sono fissati una volta per tutte e tali ritorneranno in tutte le versioni successive.
Così nella favola teatrale di Gozzi (1762) in cui ritornano gli indovinelli e le teste mozzate seppur in un contesto fortemente caratterizzato in senso parodico e grottesco dove l’aristocratica leggenda orientale ancora presente in de la Croix si piega a nuove regole facendo proprie le maschere della commedia dell’arte e diviene pretesto per una satira feroce di principi quali la castità e la saggezza.
L’Ottocento romantico avrebbe forse amato gli originali racconti orientali ma la storia di Turandot ormai conosciuta nel buffonesco travestimento gozziano non poteva che risultargli estranea. Non a caso essa ritorna in auge con quella riscoperta del mondo settecentesco delle maschere che caratterizza la cultura soprattutto mitteleuropea del primo Novecento. In questo contesto culturale nasce l’opera “Turandot” che Ferruccio Busoni presenta a Zurigo nel 1917 nella quale gli elementi tipici della commedia dell’arte derivati da Gozzi convivono con una lussureggiante scrittura orchestrale in cui confluiscono tutte le tendenze del’orientalismo musicale del tempo.
Versione definitiva è ormai per tutti quella pucciniana, estremo e tormentato capolavoro del maestro lucchese andata scena postuma nel 1926 dopo complessa gestazione iniziata fin dal 1920 e rimasta incompiuta con la morte dell’autore nel 1934. Nell’opera di Puccini convergono in qualche modo molte delle tematiche precedenti, se da un lato assistiamo al rifiuto delle maschere e della tradizione della commedia dell’arte per ritornare alla favola e al mito di de la Croix dall’altro è innegabile la conoscenza del modello busoniano troppo spesso poco considerato nell’analisi di quest’opera come più generalmente gli espliciti echi della contemporanea opera tedesca di gusto decadente e orientale.
Se è innegabile che la musica pucciniana abbia dato la definitiva immortalità alla vicenda va però anche notato come il libretto di Simoni e Adami presenti una versione in qualche modo definitiva in cui compaiono tutti gli elementi topici delle varie versioni: la principessa altera, il rifiuto del matrimonio, il principe ignota, la sfida, la morte degli sconfitti (ormai divenuta di rigore seppur non presente nelle versioni più antiche) sfrondati dalle componenti accessorie (le maschere) quasi a fornirne una versione paradigmatica.
Così si conclude – per rinascere ogni giorno come la speranza di uno degli indovinelli della versione pucciniana – il percorso di una delle leggende orientali più diffuse e stratificate e magari qualche volta riascoltando le melodie pucciniane ci sovverrà di questo lungo percorso e il pensiero riscoprirà dietro la glaciale principessa cinese una storia millenaria fine alle ultime eroiche e tragiche figure femminili al tracollo dell’ultima grande civiltà dell’antico Oriente da cui questa nostra storia ha preso il via per attraversare sempre nuova i secoli a venire.
Prima di tutto ..complimenti per la vastità e la competenza della produzione.
Sono venuto a conoscenza da pochissimo dell’esistenza di questa pagina, e da melomane fuso, sono parecchio goloso …..Riguardo alla Turandot, e al femminino pucciniano in genere, mi son fatto una opinione della quale ho cercato invano conferma su vari testi.
Mi piace pensare al suicidio di Liù, come ad una catarsi fanciulla – donna; secondo me ( e penso anche Puccini), la stagione estatica della fanciulla si chiude , il personaggio abbandona lo stato illusorio, per divenire donna compiuta. ( Non secondario, a questo punto, deve essere il peso nell’anima sua , del suicidio della domestica….)
Questo starebbe, in una qualche misura, a riabilitare quella immagine femminile che il Maestro , con lente ” …non troppo celatamente misogina…”, ( concordo), ha riproposto lungo il suo tragitto artistico.
Se riguardiamo le ” eroine” pucciniane cosa troviamo?
Un panorama piuttosto …border-line :.Manon, Butterfly, Minnie,per un verso,
Floria, anche se immaginata verdianamente virtuosa, resta comunque una ” chantosa” di corte, con annessi e connessi, e pure Mimì, sà esattamente quello che vuole , e poi trova , prima dell’epilogo.
Ovvero una foto di gruppo delle frequentazioni , in libera uscita e non , del nostro Puccini, che , in qualche modo , prova a riscattare nella catarsi Liù-Turandot.
Ma non mancheremo di riparlarne…..buon lavoro