Riprendendo il discorso è spostando l’attenzione sulle fonti classiche il quadro non subisce particolari modifiche, mentre ne esce conferma sostanzialmente confermato quanto ricavabile dalle fonti orientali e non si ritrovano testimonianze decisive a favore del sacrificio di infanti.
Una prima analisi, anche superficiale, mostra come la maggioranza degli episodi citati non riguardi sacrifici sistematici ma uccisioni rituali praticate in situazioni specifiche e non comportanti necessariamente un destinatario sovrumano.
A questa categoria appartengono gran parte delle testimonianze, specie quelle fornite da autori più attendibili. Così Filone di Byblos, “C’era l’usanza presso gli antichi, nei casi di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione votassero al sacrificio, per evitare la distruzione di tutti, i più cari dei loro figli”[EVSEBIVS, Paep. Ev., I, 10, 44.], Diodoro Siculo in relazione del sacrificio del figlio da parte di Amilcare durante l’assedio di Agrigento [XIII, 86. ]; Giustino a riguardo del sacrificio da parte di Malco del figlio, gran sacerdote di Melqart [XVIII 7]; Curzio Rufo sulla reintroduzione dei sacrifici umani a Tiro durante l’assedio portato alla città da Alessandro [IV 3.].
. Si tratta di offerte umane immolate in caso di necessità al di fuori di precisi rituali, le vittime non sono necessariamente infanti – e tali non sono ne il figlio giovinetto di Amilcare ne tanto meno quello di Malco, già sacerdote di Melqart al momento dell’immolazione, e soprattutto manca qualunque riferimento al fuoco il cui ruolo sembrerebbe centrale sia nella documentazione biblica sia in quella archeologica. Questi episodi rientrano nella categoria delle offerte straordinaria sacrificate in momenti di speciale gravità documentate in tutto il mondo antico e di cui si può ancora trovare un riflesso nella devotio romana cui il rituale cartaginese può essere molto prossimo, come nell’episodio del suicidio-sacrificio di Amilcare dopo la disfatta di Imera [VII, 169.].
Il richiamo al fuoco compare in un ulteriore passo di Diodoro Siculo [XX, 14.], probabilmente mediato da Timeo, in cui si ricorda come, in occasione dell’assedio di Agatocle del 310 a.C., i cartaginesi reintrodussero la pratica di sacrificare a Kronos i fanciulli più nobili, cui si aggiunsero volontariamente circa tremila adulti. Il sacrificio venne compiuto davanti ad un’enorme statua bronzea dalle mani della quale le vittime scivolavano in un braciere ardente. Il passo di Diodoro introduce – seppur in maniera fantastica – l’elemento del fuoco ma ancora una volta appare estraneo rispetto ai presunti sacrifici del tophet in quanto legato ad una situazione di particolare gravità e riguardante ad un tempo bambini ed adulti.
Il racconto della statua di bronzo ad un tempo destinataria e strumento dei sacrifici era comparso per la prima volta in Clitarco: “I Fenici, e soprattutto i Cartaginesi, quando desiderano che accada loro qualcosa di importante, promettono che, se otterranno ciò che desiderano, sacrificheranno un bambino a Kronos. Infatti presso di loro c’è una statua bronzea del dio con le mani rivolte in alto e distese sopra un braciere, nel quale cade il bambino. Quando le fiamme avvolgono il corpo, le membra si contraggono e la bocca appare ghignante, finché il corpo contratto scivola nel braciere. Perciò questo riso ghignante è detto sardo, perché essi muoiono ridendo”[Sch. Plo. Rep., 337].
Uno scolio all’Odissea permette di far chiarezza su questi punti: “Dicono che Thalos, il guardiano costruito da Efesto e da Zeus a Europa, puniva in modo singolare gli stranieri che sbarcavano a Creta: saltava nel fuocoe, dopo essersi arroventato il petto, li abbracciava, e sogghignava mente essi bruciavano….Timeo dice che i Sardi conducono i vecchi genitori presso un precipizio e li gettano di sotto, e quelli ridono come se morissero felicemente. I Cartaginesi che abitano la Sardegna hanno un’usanza barbara, molto differente da quella dei Greci. Infatti sacrificano a Kronos, in giorni stabiliti, non solo alcuni dei prigionieri, ma anche i vecchi che hanno superato i settant’anni. Ai sacrificati il piangere sembra cosa turpe e vile, mentre il rallegrarsi e ridere sembra coraggioso e bello. Per questo il riso simulato nelle circostanze dolorose e detto sardo”[Sch. Plo. Rep., 337.].
Il brano fornisce un’eziologia al “riso sardo” citato da Clitarco e stabilisce un collegamento fra la presunta statua cartaginese di Kronos e il racconto mitico di Talos. I due racconti mostrano insuperabili discrepanze: il rito che in Clitarco presenta ancora tratti di eccezionalità diviene sistematico nel racconto dello scoliasta ma qui i sacrificati non sono più fanciulli ma vecchi e prigionieri di guerra. Ciò che traspare è una concezione alquanto confusa delle pratiche sacrificali fenicio-puniche, in cui si assommano ricordi storici più o meno modificati (le uccisioni rituali, probabilmente l’eco delle incinerazione infantili), elementi mitici (la statua di bronzo probabilmente modellata sul racconto mitico di Talos tanto più in mancanza di qualunque testimonianza di plastica monumentale in bronzo in contesto fenicio-punico), la presenza di forti elementi di propaganda ideologica anticartaginese riconducibili probabilmente allo stesso Timeo, fonte originaria delle testimonianze in nostro possesso.
La documentazione successiva non fa altro che ripetere, evidenziando in modo sempre maggiore gli elementi tragici e patetici, queste informazioni definendo un quadro assolutamente rigido e schematico non corrispondente affatto ad una pratica cultuale altrettanto rigida ed immutabile. Viene a crearsi una sorta di topos retorico sulla crudeltà dei cartaginesi, ripetuto acriticamente nel corso dei secoli: Plutarco [De super., 13.], Dionigi di Alicarnasso [I 38], Sesto Empirico [Hyp. III, 208, 221.], Porfirio [De abst. II, 56.]. Il tema verrà ripreso in età tardoantica dai polemisti cristiani nei quali il topos classico della crudeltà cartaginese verrà integrato con il richiamo alla polemica biblica contro i culti cananei, così in Lattanzio [Inst. Div., I, 21. ], Tertulliano [Apolg., IX.], Agostino [De. Civ. Dei, VII, 19.].
In contrasto gli storici maggiori (Erodoto, Tucidice, Polibio, Livio), pur parlando dei Cartaginesi, non fanno accenno a sacrifici umani con l’esclusione del caso, molto particolare, della devotio di Amilcare dopo la battaglia di Imera. Silenzio tanto più colmo di significato se si considera la buono conoscenza che essi dovevano avere della realtà cartaginese.