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Archive for ottobre 2010

La Stupenda non c’è più. Un misto di incredulità, sbandamento e profonda tristezza ha coinvolto credo tutti coloro che amano la musica e il canto alla notizia della scomparsa di Joan Sutherland, semplicemente “La Stupenda” per gli infiniti ammiratori sparsi in tutto il mondo. La Sutherland non è stata infatti solo “una cantante lirica”, è stata forse la più strepitosa vocalista mai apparsa sulle scene, in ogni cosa una delle più grandi cantanti di ogni tempo, un autentico mito per generazioni di melomani.

  Nata a Sidney il 7 novembre 1926 comincia gli studi privatamente prima con la madre poi con Aida Summers e nel 1947 debutta nella natia Sidney in un concerto di musiche wagneriane. Nel 1952 si trasferisce a Londra come studentessa del Royal College of Music e l’anno successivo debutta al Covent Garden come Prima Dama nel “Die Zauberflote” mozartiano. Gli anni cinquanta sono un periodo formativo caratterizzato principalmente da ruoli di comprimariato con più rare presenze in parti protagonistiche e con una vocalità ancora da definire fra un’eccezionale potenza ed estensione che parevano indirizzarla verso il repertorio più drammatico e una naturale propensione al canto di coloratura.

  La prima svolta nella vita della giovane cantante avviene nel 1954 a seguito del matrimonio con il giovane connazionale Richard Bonynge, emergente direttore d’orchestra. Bonynge non sarà solo il compagno di una vita ma soprattutto il pigmalione geniale capace di estrarre da questo goffa ragazzona australiana dalla voce enorme ma ancora non definita la più perfetta incarnazione del canto strumentale. Principale merito di Bonynge fu quello di aver definitivamente allontanato la Sutherland da quel repertorio wagneriano cui sembrava destinata per spingerla ad esplorare quel mondo belcantistico che la Callas stava rivelando al mondo: i successivi debutti come Olympia, Alcina, Donna Anna sono i primi passi in questa direzione.

  Nonostante qualche isolata esibizione precedente – “Don Giovanni” a Vancouver nel 1958 – è l’inverno del 1959 ha rivelare al mondo la giovane australiana chiamata da Tullio Serafin e Franco Zeffirelli per una nuova produzione londinese di “Lucia di Lammermoor”. Da quel momento la sua carriera sarà inarrestabile. Nel 1961 debutta alla Scala ne la “Beatrice di Tenda” di Bellini cui seguiranno “Gli ugonotti” di Meeyerber ancora sotto la guida di Gavazzeni e la prima importante ripresa moderna di “Semiramide”.

  Il successo internazionale si accompagna al contratto esclusivo con la Decca per cui inciderà tutta la vita rendendosi protagonista di alcune esecuzioni destinate a cambiare l’idea stessa della vocalità lirica specie nel repertorio barocco (“Alcina” di Haendel), nel belcanto italiano e nell’opera francese del secondo ottocento. Negli stessi anni comincia un’altra collaborazione destinata a segnare in modo indelebile la carriera della Sutherland, quella con il giovane tenore italiano Luciano Pavarotti. Originariamente scelto come partner del soprano australiano per ragioni fisiche – l’imponenza della Sutherland imponeva al suo fianco un tenore dotato di forte presenza – si rivelò invece perfetta sotto il profilo musicale. Due voci squillanti, luminose, purissime, fatte per fondersi fra loro; inoltre la vicinanza con la Sutherland e Bonynge contribuì in modo determinante alla crescita dello stesso Pavarotti indirizzandolo verso un repertorio ideale alla sua vocalità ma che probabilmente sarebbe rimasto marginale per questioni di temperamento.

  In questa sede è impossibile ricostruire in modo dettagliato la carriera della Sutherland da quei gloriosi anni sessanta fino al 1990 quando diede l’addio ufficiale alle scene nella natia Sidney vestendo ancora una volta i panni di Marguerite de Valois in “Les Huguenots” dopo decenni di trionfali esecuzioni  in tutti i maggiori palcoscenici del mondo; un elevato numero di incisioni discografiche spesso ancora insostituibili per la corretta conoscenza di un repertorio amplissimo e spesso non comune.

  Quello che rese unica la Sutherland era la fusione fra un mezzo vocale eccezionale per volume ed estensione ed una tecnica sbalorditiva capace di piegare una vocalità da autentico soprano drammatico ai più arditi virtuosismi vocali facendo di lei l’ultima – e una fra le pochissime – autentica incarnazione del soprano drammatico d’agilità. Una vocalità straordinaria il cui unico limite – una dizione italiana rimasta sempre decisamente raffazzonata – contava ben poco di fronte alla grandezza assoluta del canto specie in repertori come quelli più frequentemente affrontati dalla cantante australiana dove la superurania perfezione musicale è di gran lunga prevalente.

  La Sutherland privata era – stando a chi ha avuto la fortuna di conoscerla – una persona gentile, garbata, simpatica, sostanzialmente timida ma sempre disposta ad impegnarsi per i colleghi come per i giovani artisti. Dal 1978 era “Dama dell’Impero Britannico” per concessione della Regina Elisabetta II. Malata da tempo di cuore aveva visto la sua situazione aggravarsi dopo una caduta nel 2008, quando si era rovinosamente spezzata entrambe le gambe. La scomparsa è giunta in ogni modo inattesa lasciando un vuoto profondo nel cuore di tutti gli appassionati, vuoto parzialmente riempito solo dalla certezza che la sua arte immortale vivrà per sempre.

  Addio Stupenda.

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   Parlare del “Boris Godunov” che ha aperto la stagione 2010/11 del Teatro Regio di Torino impone alcune considerazioni di carattere filologico, che spero non risultino troppo noiose per i lettori. Senza addentrarsi nel ginepraio di contrastanti versione che caratterizzano quest’opera bisogna comunque dire che quello che si è eseguito a Torino è un pastiche che seppur non privo di forza drammatica non risultava particolarmente convincente.

   In linea di massima si è eseguita la versione del 1869 – il cosiddetto Ur-Boris – quindi priva dell’atto polacco ma anche di molti elementi folklorici che magari possono risultare dispersivi dal punto di vista drammaturgico ma contribuiscono a creare quel clima di grande epopea corale che è fra i tratti caratteristici del “Boris Godunov”: la canzone dell’ostessa, quella della nutrice di Ksenija e quella di Fëdor – pagine che per altro danno una maggior consistenza ai pochi personaggi femminili presenti. Rispetto a questa versione non sono poi mancate modifiche scarsamente giustificabili dal punto di vista filologico: in primo luogo si è eseguita la scena della foresta di Kromy (introdotta nel 1872) priva però dell’episodio dei gesuiti inoltre si è invertita la successione delle scene con la foresta anticipata alla morte di Boris, scelta secondo me molto opinabile in quanto il cuore della vicenda è la tragedia infinita del popolo russo che trova la sua più sublime esemplificazione nel lamento dello Jurodovij che termina l’opera in un contesto di totale indeterminatezza. Un parziale tentativo a riguardo si è compiuto recuperando il tema di “Ljéites, ljéites sljozy górkyie” al termine della scena finale, giustapposizione totalmente arbitraria.

  Passando da queste – per altro non marginali – note introduttive allo spettacolo vero e proprio si può cominciare dalla parte visiva. L’impianto scenico di Graziano Gregori appariva fin troppo essenziale: scene vuote, costituite da pareti lignee semoventi e da passerelle praticabili con scarsi elementi aggiuntivi – le icone nel monastero di Chudov, un grande turibolo di dubbio significato nella foresta di Krony – e alcuni elementi di arredo chiamati a definire i singoli ambienti. Splendidi di contro i costumi di Carla Teti, capaci di evocare lo sfarzo della corte moscovita come la miseria del popolo russo.

  All’interno di questo contenitore visivo il regista Andreij Konchalovskij realizza uno spettacolo di notevole forza visiva, spesso di esibita violenza: la visione della camera della tortura quando Boris minaccio Šujskij; le sevizie cui sono sottoposti i boiari dal parte del popolo in rivolta; la sprezzante durezza con cui l’ufficiale di polizia si impone alla folla nel quadro di Novodievici. Scene decisamente forti ma estremamente efficaci nell’evocare un mondo dominato da violenza e sopraffazione di cui tutti – comproso lo zar – sono sostanzialmente vittime.

   Degne di nota alcune soluzioni registiche di pretta matrice pittorica come la processione degli storpi a Novodievici che riportava alla mente una variazione in chiave rinascimentale del celebre “La processione nel distretto di Kursk” di Ilja Repin e ancor più il termine della scena della pendola con Boris che stringe al seno il figlioletto sporco del vino di una coppa rovesciata dallo zar nel suo delirio che assume però il colore del sangue sul bianco vestito dello zarevic che subito richiama alla mente un altro dipinto di Repin, quello in cui Ivan il terribile stringe il corpo insaguinato del figlio, da lui stesso ucciso.

  Altrove la regia cadeva invece in un bozzettismo fin troppo ingenuo: il piccolo Fëdor che accompagna Boris nell’incoronazione e che lo zar abbraccia per evitargli il contatto con gli storpi che chiedono l’elemosina; la scena del copeco e più in generale i movimenti delle masse corali decisamente meno curati.

  La parte musicale era saldamente tenuta in pugno da Gianandrea Noseda, alla prese con un titolo particolarmente congeniale alla sua personalità. Il risultato è una direzione energica, scavra, priva di concessioni edonistiche e quindi ideale per valorizzare i tratti più caratteristici dell’orchestrazione mussorgskijana. La perfetta sintonia fra direttore e orchestra ha permesso di mantenere un’altissima tensione drammatica per tutta l’esecuzione con momenti di particolare efficacia nell’ultimo quadro. Semplicemente straordinaria la prova offerta dal coro del Teatro Regio (direttore Roberto Gabbiani) e del coro di voci bianche sotto la guida di Claudio Fenoglio.

  L’altissimo livello della direzione trovava riscontro in un cast di livello sostanzialmente molto buono. Protagonista di rilievo si è mostrato il basso bulgaro Orlin Anastassov, che ha tratteggiato un zar giovanile, irruento all’occasione ma capace di uomini ripiegamenti. La voce non è imponente ma corre con facilità, gli acuti sono sicuri e timbrati, la linea di canto sempre corretta; qualche scivolamento di troppo nel declamato così come qualche eccesso interpretativo vanno probabilmente visti all’interno di una scelta interpretativa che guarda più che a Ghiaurov – come si potrebbe prevedere per un giovane cantante bulgaro – ad una certa scuola storica russa.

  Vladimir Vannev sostituiva l’indisposto Sergeij Aleksaškin nel ruolo di Pimen. Voce imponente, scultorea anche se di colore non bellissimo e interprete partecipe tratteggia un Pimen insolitamente deciso, in cui gli impeti giovanili sembrano ancor prevalere sulla serenità dell’asceta. Personalmente preferisco una voce di autentico basso per il ruolo – mentre Vaneev ha tratti decisamente baritonali – ma nell’insieme la sua prestazione è stata decisamente aprezzabile seppur priva di quell’alloure mistica che dovrebbe circondare l’anziano cronachista.  

  Degna di nota anche la prova del terzo basso il veterano Vladimir Matorin che come Varlaam sfoggia ancora una voce di tutto rilievo, robusta e timbrata, unita a notevoli doti di interprete. Fra i tenori si sono distinti Peter Broder uno Šujskij meno viscido del solito ma proprio per questo particolarmente efficace in una malvagità non palesemente esibita ed Evgenij Akimov che presta una voce molto bella al dolcissimo canto dello Jurodovij. Molto più deludente Ian Storey nei panni di Grigorij: voce ampia, imponente, persino troppo eroica per un personaggio dominato da fragilità e nevrosi. Sul piano vocale si riscontra un’emissione spesso poco controllata ed evidenti durezze sono apparse nella scena della foresta mentre l’interprete appare decisamente generico per un ruolo tanto complesso.

  Fra le numerose parti di fianco meritano una nota particolare Vasilij Ladjuk, un Andreij Ščelkalov di insolito rilievo e di squillo quasi tenorile e il bravissimo Pavel Zubov, voce bianca nel ruolo di Fëdor. Le parti femminili – molto penalizzate nell’edizione scelta – contavano sulla luminosa Ksenija di Alessandra Marianelli, sull’ostessa di Nadežda Serdjuk e sulla nutrice di Elena Sommer, tutte voci che sarebbe stato piacevole ascoltar maggiormente.

  Gli altri personaggi contribuiscono validamente alla riuscita di uno spettacolo particolarmente riuscito nella compiuta interazione di tutte le sue componenti.

 

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