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Archive for luglio 2012

I presunti ritratti di Amalasunta formano apparentemente il corpo più consistente della ritrattistica ufficiale di età gota, contando tre ritratti in marmo e due dittici eburnei, in realtà come si mostrerà in seguito si tratta di opere di produzione bizantina, sicura per i dittici e molto probabile per i ritratti marmorei, raffiguranti un’augusta dell’inizio del VI secolo, probabilmente Ariadne, moglie di Zenone e poi di Anastasio, mentre gli elementi a favore di una paternità gota sono estremamente labili. 

  Due pannelli eburnei, conservati rispettivamente al Kunsthistorisches Museum di Vienna e al Museo del Bargello di Firenze, in stretta connessione fra loro, forse addirittura parti di un unico dittico, o comunque ad una medesima serie di dittici, raffigurano un’Augusta dell’inizio del VI secolo, circondata dagli attributi del suo potere. 

  Il pannello di Vienna mostra un’imperatrice seduta in trono, sotto un baldacchino. Il baldacchino è organizzato secondo principi architettonici, ai lati colonne scanalate con capitelli a foglie e basi a tamburo e fusti decorati da gioielli reggenti una sottile trabeazione e una cupola con scanalature incise a motivi vegetali, affiancata da due aquile, poggianti su basi vegetali. Due tende, che pendono da un’asta sono avvolte intorno alle colonne. L’impressione è che sia rappresentato un apparato di rappresentanza, probabilmente effimero. Il trono presenta due pilastrini frontali, decorati con pietre lavorate e sormontati da globi; lo schienale curvilineo compare alle spalle dell’imperatrice. Il poggiapiedi, a forma di scatola, è anch’esso decorato a rappresentare pietre preziose. Il cuscino su cui si appoggia l’augusta è di tipo cilindrico ricamato con rosette a forma di stella all’interno di cerchi concentrici , mentre alle estremità sono presenti dischi circolari.

  La figura femminile, tiene nella mano destra un globo sormontato da una croce gemmata, mentre la sinistra è tenuta con il palmo in avanti, piegata all’altezza del gomito. Indossa tunica, dalmatica, clamide e calzature ornate da gioielli. La tunica ha le maniche bordate da file di perle, così come perle sembrano alternarsi ad incastonature stellate nella collana. La clamide è in tessuto ricamato con motivi a rosetta, presenta una bordura in pietre preziose e nel mezzo è un inserto bordato di perle, nel quale era un busto, oggi molto rovinato, si riconoscono la sagomo di un elmo con al di sotto lunghi capelli, potrebbe trattarsi di una personificazione di Roma o Costantinopoli. La corona è formata da una cuffia decorata da gioielli sopra la quale è un diadema con pendilia, attributo esclusivamente imperiale che esclude l’identificazione originariamente proposta con Amalasunta, che mantenendosi fedele alla tradizione paterna non si arrogò mai il diritto di usare simboli esclusivi dell’autorità imperiale di Costantinopoli.

  L’immagine è assolutamente depersonallizata, il ritratto non presenta nessun elemento individualizzante, sembra connettersi ad una epifania del potere imperiale, reso dalla solennità della posa e dalla abbagliante ricchezza delle vesti e degli arredi, sicuramente più confacente ad un’augusta d’Oriente che alla regina dei goti.

   Ulteriore, ma ancor più definitivo elemento è quello stilistico, Breckenridge ha dimostrato come le forme siamo quelle tipiche delle produzioni costantinopolitane dell’inizio del VI secolo, riscontrabili a partire dal dittico di Areobindo del 506 fino a quello di Anastasio del 517, apparentandosi in modo particolarmente stretto con il dittico di Clementino del 513. La produzione costantinopolitana e la datazione confermano l’identificazione del personaggio raffigurato con Ariadne, moglie di Zenone e in seguito (dal 491) di Anastasio, morta nel 515.

   Il pannello è la sezione centrale di un dittico imperiale composto da cinque parti, analogo a quello del Louvre, raffigurante probabilmente Giustiniano, che vedeva al centro l’imperatore a cavallo, coronato e loricato, nel pannello superiore Cristo benedicente, in quello inferiore una Vittoria che offre una corona mentre barbari e fiere offrono omaggio al sovrano, nel pannello di sinistra un personaggio maschile in abiti militari offre una vittoria (il pannello di destra è perduto). Il dittico di Ariadne doveva presentare probabilmente nel pannello superiore la figura di Cristo o la personificazione di Costantinopoli, nei pannelli laterali figure maschili armate, forse i consoli dell’impero, e nel pannello inferiore barbari omaggianti.

Il pannello fiorentino presenta una impostazione analoga a quello di Vienna, il baldacchino presenta identica struttura, salvo l’assenza di decorazione sulla cupola, le aquile reggono con il becco una ghirlanda, probabilmente perduta a Vienna. L’imperatrice, vestita in modo analogo a quello del pannello viennese è raffigurata stante, in posizione rigidamente frontale. Nella mano destra tiene un lungo scettro e nella sinistra il globo sormontato dalla croce gemmata. Per l’interpretazione del pezzo si veda quanto detto a proposito del pannello del Kunsthistorisches Museum.  Amalasunta va invece riconosciuta nel ritratto entro clipeo del dittico di Oreste, dove compare senza corona, soltanto con il pilos, il tradizionale copricapo goto, trapunto di perle

  La tradizione attribuisce ad Amalasunta tre ritratti marmorei, di provenienza romana; in realtà l’identificazione del personaggio, o dei personaggi, rimane a tutt’oggi molto incerta.

– Ritratto dei musei Capitolini (Palazzo dei conservatori inv. 865). Marmo lunense, altezza 33 cm. Rinvenuto nel 1887 nell’area della Subura, mostra un volto giovanile ovale e carnoso, enormi occhi leggermente sporgenti con palpebre spesse e iridi cave. La bocca piccola con gli angoli leggermente sollevati, è separata dal mento da una fossetta. I capelli sono ricoperta da una cuffia ornata da fili di perle, interrotti dalla presenza di grandi gemme rettangolari. Rispetti agli altri presunti ritratti di Amalasunta  questo si caratterizza per la diversa acconciatura nonché per l’aspetto più giovanile del volto e per le forma più rotondeggianti. Il ritratto fu attribuito ad Amalusanta dal Visconti, ipotesi ripresa successivamente da Fuchs, mentre Calza opponeva la florida giovinezza del ritratto dei Conservatori alla figura matura e robusta di quello del Laterano, proponendo di vedere nel primo non il ritratto di Amalasunta, ma quello della figlia Matasunta.

In contrasto con queste posizioni un gruppo di studiosi, a cominciare da Delbrück, propone una matrice bizantina del ritratto, attribuendola ad Ariadne anziché ad Amalasunta. Questa posizione appare oggi prioritaria, Wessel sostiene che il tipo di acconciatura presente nel ritratto dei Capitolini fu indossato solo da Ariadne durante il regno del secondo marito Anastasio (491-517), portando a sostegno della sua teoria un presunto ritratto di Anastasio alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copeghagen che presenta affinità tecniche e formali, in particolare nella plasticità del volto e nel rendimento dello sguardo con la testa dei Capitolini. Gli studi più recenti, più prudentemente, tengono una posizione più incerta fra le due figure, o anche con una dama della corte imperiale, in quanto il carattere stereotipato dell’immagine non permette una identificazione ad personam; questa astrazione meglio si converrebbe ad un immagine imperiale, dove prevale la volontà di rappresentazione del potere, piuttosto che di un ritratto privato dove più a lungo rimangono connotazioni realistiche. Ad un contesto imperiale sembra rimandare la morbida levigatezza delle superfici, tese ed immobili, che si ricollegano a stilemi tipici della ritrattistica dinastica di età teodosiana.

– Ritratto del Laterano (Museo bella basilica di S. Giovanni in Laterano). Proveniente con buone possibilità dall’area del Laterano, la testa venne fissata nel XVI secolo su un busto non pertinente, in oltre venne aggiunto un nimbo, sono ancora visibili i fori di inserzione sul retro, forse in ragione dell’identificazione con Elena, madre di Costantino.  Stilisticamente ed iconograficamente il ritratto si apparenta ad un altro esemplare oggi al Louvre ma di possibile provenienza romana. Raffigura una donna non più giovane, dalla corporatura massiccia e pesante, grandi occhi dal taglio lunato, originariamente messi in risalto da inserti di pasta vitrea o smalto sono il fulcro su cui si concentra lo sguardo dello spettatore. I piani del volto sono trattati per volumi sferoidi, quasi privi di dettaglio, esaltati nella loro solidità geometrica, anche la complessa acconciatura viene definita come un volume unitario, mosso sola dalla corona gemmata.

L’elemento di maggior interesse è dato dall’acconciatura, questa è formata da un copricapo, probabilmente semirigido, destinato a coprire i capelli, secondo uno spirito di modestia e semplicità che dovrebbe caratterizzare la donna cristiana e per il quale si erano battuti i maggiori intellettuali cristiani dell’epoca, con la loro decisa riprovazione per le sontuose acconciature del secolo precedente, caratterizzate da una vistosa pettinatura con i capelli riportati verso l’alto, appoggiati ad un posticcio e trattenuti alla base da un nastro perlinato o da un nastro aureo ornato da pietre preziose; questa acconciatura, nata sul finire del IV secolo continuerà per tutto il successivo è ancora fino agli inizi del VI. 

Alla fine del VI secolo compare un copricapo dalla forma regolare, forse semirigida, appositamente sagomato per accoglie l’acconciatura del periodo precedente e rispondente ai nuovi dettami religiosi, in realtà presto trasformato in una nuova occasione di sfarzo, con le ricche decorazioni in perle e pietre preziose che vengono a decorarlo. Il tipo compare nei dittici eburnei di Ariadne, in un busto di imperatrice oggi a New York e, leggermente modificato, nella “Teodora” del Castello Sforzesco, dove risulta insellata al centro e con due rigonfiamenti laterali, forse dovuta all’usanza di dividere i capelli in due bande laterali, la decorazione è data da due fasce perpendicolari, ornate da un doppio filo di perle, che si riuniscono in un medaglione circolare a tre pendenti sulla fronte e in un nodo erculeo sulla nuca.

L’acconciatura del ritratto del Laterano è una evoluzione di questa tipologia, rimane la forma insellata al centro e i rigonfiamenti laterali, che non sono più bombati ma appuntiti, inoltre la presenza di fili di perle applicate, potrebbe far pensare alla presenza di cuciture o di profilature in materiale diverso da quello della base del copricapo. Il confronti più diretti sia ha, oltre che con la presunta “Amalasunta” del Louvre di cui si parlerà in seguito, con un ritratto bronzeo da Niš, attribuito all’imperatrice Eufemia e datato al 520-530, nonché con i busti clipeati di Ariadne nel dittico eburneo di Clementino, datato con precisione al 513. Acconciature di questo tipo saranno a lungo in uso presso la corte bizantina, si veda la raffigurazione di Irene nella Pala d’Oro di Venezia.

– Ritratto del Louvre, altezza 25,7 cm, marmo bianco, forse lunense, il naso è di restauro. La testa è entrata a far parte delle collezioni del Louvre nel 1911, di possibile provenienza romana. Le vicinanze con la testa del Laterano sono impressionanti, sia iconograficamente che stilisticamente, tanto che si può supporre con ottime basi, nonostante la fortissima astrazione, che i due ritratti raffigurino lo stesso personaggio. Uguali i tratti del volto, l’acconciatura, la resa per geometrie pure dei piani del volto, la maggiore differenza è data dalla presenza di un modellato più sfumato e soffuso rispetto all’esemplare romano.

   L’attribuzione dei due ritratti e stata a lungo dibattuta fra due ipotesi principali, che vedono nel personaggio raffigurato rispettivamente la regina gota Amalasunta o l’augusta bizantina Ariadne, riproponendo il dibattito visto per i dittici. Significativa l’obbiezione proposta da Piltz riguardo al tipo di corona indossato, priva dell’attributo specificatamente imperiale dei pendilia, che invece compare sui dittici eburnei della stessa Ariadne. In effetti il copricapo non appare connotato in senso imperiale, ma neppure reale, limitandosi ad indicare l’elevato rango dell’effigiata, in oltre Wessel attribuisce l’introduzione di questa nuova forma di acconciatura proprio ad Ariadne negli ultimi anni del suo regno. L’assenza dei pendilia nei ritratti marmorei può inoltre essere dovuta a scelte iconografiche, nonché a problemi tecnici di realizzazione, diversi a quelli che caratterizzano i dittici eburnei, si noti come il ritratto bronzeo di Niš, la cui identificazione con Eufemie non è certa, ma che raffigura certamente un’augusta, presenti un copricapo analogo a quelle dei ritratti del Laterano e del Louvre, anch’esso privo di pendilia, assenza che parrebbe quindi caratteristica delle immagini a tutto tondo rispetto a quelle in rilievo.

Stilisticamente i pezzi si inseriscono serenamente nelle coordinate della ritrattistica imperiale del tempo, con alcuni elementi, come il modellato del ritratto del Louvre, propri delle botteghe costantinopolitane. Contro una provenienza dalla capitale gioca non tanto la provenienza romana quanto piuttosto il materiale utilizzato, che sembra essere marmo di Carrara e non un marmo bianco greco od orientale.

  La presenza a Roma e negli altri maggiori centri d’Italia di effigi degli augusti di Costantinopoli sembra molto probabile viste le particolarità del regno goto d’Italia. Il fatto che la dinastia amala esercitasse ufficialmente il proprio potere in Italia per delega dell’Imperatore d’Oriente, e l’attenzione mostrata dai goti a non offendere la suscettibilità di Bisanzio con atteggiamenti che potesse apparire un tentativo di crearsi un imperium in imperio, si veda a proposito la politica monetaria, ben giustificherebbe la presenza delle statue degli augusti d’Oriente, legittimi sovrani d’Italia, sulla quale Teodorico regnava per loro mandato.

Il regno di Anastasio e Ariadne è un momento particolarmente felice nelle relazioni fra la corte imperiale e i goti, sappiamo di una statua di Teodorico eretta da Zenone, primo marito di Ariadne, davanti al colonnato del palazzo imperiale di Costantinopoli, inversamente statue imperiali in Italia sono ancor meno sorprendenti, statue che devono essere sopravvissute anche ai momenti più drammatici della guerra greco-gotica, risparmiate dall’odio montante contro i bizantini, proprio per il buon ricordo che Anastasio e la sua famiglia serbavano nell’immaginario goto, e del quale abbiamo una significativa testimonianza numismatica, quanto il ritratto dell’aborrito Giustiniano viene sostituito con quello del vecchio imperatore Anastasio, che aveva impostato la politica di rapporti fra Bisanzio e l’Italia gota all’insegna della pace e della cooperazione.

            L’identificazione con una augusta bizantina spiega inoltre come i ritratti non siamo caduti vittime della dannatio memoriae praticata dopo la riconquista imperiale sulle immagini della famiglia reale gota, che a portato distruzione di gran parte delle immagini di Teodorico e al voluto sfregio al ritratto di Atalarico.

Ariadne

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  La musica, i suoi esecutori reali o mitici, sembrano avere un ruolo di primo piano nell’immaginario dell’Africa romana sia è in contesto funerario sia  nella decorazione degli ambienti privati testimonia la fortuna di questi temi come ben dimostra il caso di Hadrumetum e dei centri limitrofi.  

  Le raffigurazioni di Apollo citaredo e delle Muse compaiono con notevole frequenza in tutta la regione. L’immagine di Apollo accompagnato dalle muse compare in tre mosaici; anche le immagini isolate di Muse  molto probabilmente erano in origine parte di complessi analoghi.

  Questi mosaici erano collocati in vani di grandi dimensioni, in un caso sicuramente un triclino (a Leptis Minus), negli altri casi si tratta di vani non identificabili, probabilmente oeci. In tutti i casi sembra trattarsi di ambienti caratterizzati da un forte connotazione sociale in quanto destinati ad accogliere gli ospiti del dominus e caratterizzati da una decorazione finalizzata alle esigenze autorapresentative di questi.

  Le immagini del mondo apollineo ed in specie quelle di Muse assumono la valenza di richiamo simbolico alla tradizione culturale classica, cui le élite provinciali sempre più tendono – a partire dal II d.C. – come strumento di promozione sociale. Le raffigurazioni di Muse corrispondono in quest’ottica simbolica alle immagini di intellettuali che frequentemente compaiono in sedi analoghe: Virgilio, Ennio? (Sfax), Menandro (Thuburbo Maius), Senofonte.

   Immagini finalizzate a definire l’immagine del proprietario come uomo colto – forse esso stesso poeta o scrittore, pienamente inserito nelle correnti culturali del proprio tempo. Esse inoltre assolvono ad una sostanziale eroizzazione del dominus all’interno di un sistema culturale che sempre più vedeva negli intellettuali i nuovi modelli eroici di riferimento. La dimensione di rappresentazione socio-culturale non è però sufficiente a spiegare completamente questi mosaici, caratterizzati da più complessi livelli semantici. L’affermarsi di una nuovo concezione dell’intellettuale come theios aner trasporta queste immagini su un diverso piano – magico e religioso – che non può essere trascurato: l’uomo di cultura – poeta o filosofo – diviene una sorta di tramite fra il mondo divino e quello umano. Se risulta difficile pensare ad una piena conoscenza da parte delle élites locali della speculazione filosofica contemporanea risulta molto probabile che ne fossero in qualche modo influenzati; la diffusione di queste concezioni in Africa è attestata per l’età tardo-antica dai polemisti cristiani ma probabilmente risale ai secoli precedenti. L’associazione fra queste immagini e le stagioni) sembra richiamare una posizione privilegiata dell’elemento musicale, incarnato da Apollo ed Erato, collocati nel tondo centrale, ciascuno accompagnato da una lira. Pare potersi ricavare l’idea di una centralità della musica come strumento e metafora dell’ordine universale, forse collegata a idee pitagoriche la cui diffusione nella regione sembra provata da numerose testimonianze, specie in ambito funerario.

  Altra componente che sembra caratterizzare queste immagini è quella apotropaica che sembra accomunare molte delle immagini presenti nelle abitazioni. In tal senso un ruolo primario sembra essere giocato dal potere fascinatore della musica che analogamente a quello della bellezza – immagini di Venere – era creduto capace di ammaliare le forze ostili e di renderle inoffensive.

  Le medesime associazioni: Muse, stagioni, simboli dionisiaci (in questo caso kantharoi) si ritrovano anche nel mosaico di Sousse. Lo schema del presente esemplare presentante un medaglione centrale con l’immagine di Apollo Citaredo accompagnato da Erato e con le altre Muse disposte in circolo intorno a loro sembra voler raffigurare – anche visivamente – l’idea di un Universo ordinato intorno all’elemento armonizzante incarnato da Apollo attorno al quale si dispongono concentricamente le sfere astrali (le Muse) e i fenomeni naturali che agiscono sulla terra (le stagioni) all’interno di un sistema ordinato e coerente. 

Questa polisemanticità si ritrova in tutta la sua ricchezza nell’immagine di Orfeo placante col canto le fiere assommante richiami simbolici e cultuali trascendenti con la semplice connotazione decorativa rappresentata dalla possibilità di raffigurare i ricchi e variopinti cortei di animali tanto cari al gusto africano.

  Il tema compare a Sousse in un esemplare ed in una parodia, il cui la parte del cantore trace è interpretata da una scimmia.

  Il primo mosaico – purtroppo decontestualizzato – si data alla metà del III d.C. momento in cui le tematiche maggiormente caratterizzate da richiami simbolici cominciano a prevalere nella decorazione degli ambienti domestici.

  Le dimensioni (4.50 mX 3.75 m) potrebbero indicare la pertinenza ad un vano di una certa importanza, probabilmente un oecus secondo una tendenza ampiamente diffusa ad utilizzare le immagini del mitico cantore per la decorazione di questi ambienti. Scelta non casuale e rispondente a livelli diversi di rappresentazione. In primo luogo il cantore evocava la tradizione culturale e letteraria di cui era stato oggetto, divenendo un simbolo di quella cultura letteraria classicista cui le élite imperiali – specie quelle provinciali – amano esibire come strumento di autorappresentazione. Detto fenomeno che si accresce procedendo verso la tarda antichità quando alla valenza di promozione sociale insita nell’immagine si affianca il richiamo ad un nuovo modello eroico, quello del theois aner, l’intellettuale divenuto elemento di contatto fra l’umano e il divino per il quale Orfeo – inteso dalla cultura neoplatonica tardoantica come filosofo e mago – diviene modello di assoluto riferimento.

  Secondo alcuni studiosi la figura di Orfeo poteva venir scelta per questi ambienti anche in virtù di un altro orizzonte simbolico. L’immagine della natura selvaggia ammansita dal canto di Orfeo poteva essere letta come metafora della concordia universale, concetto di assoluta centralità nel sistema ideologico romano.

  La collocazione dell’immagine di Orfeo in vani aperti ai visitatori e chiaramente connotati in chiave rappresentativa avrebbe quindi potuto rappresentare ad un tempo la concordia che il dominus fa regnare nelle sue proprietà e la sua adesione al modello ideologico propagandato dall’autorità imperiale. Per quanto questi studi si siano concentrati sulla realtà delle province spagnole sembra possibile ipotizzare l’esistenza di concezioni simili in Africa come per altro è stato proposto in relazione a differenti soggetti.

  Valenze sociali e culturali in parte spiegano la presenza di questo soggetto ma che non bastano ad esaurirne tutta la complessità. Va infatti ricordata la valenza profilattica in quanto il cantore che doma le fiere con il canto garantisce la protezione della casa, domando allo stesso modo le forze negative che minacciano gli abitanti, così come non si possono obliare i significati mistici, salvifici, che sembrano caratterizzare nella regione tutte le raffigurazioni connesse con il mondo musicale.

  Le componenti ausiliarie – presenti in alcuni esemplari – sembrano rafforzare questa componente. In tal senso è particolarmente significativo l’esemplare da Leptis Minus, in cui i medaglioni con busti di Muse e stagioni sono collocati all’interno di una ricca base decorativa composta da nastri incrociati a formare nodi d’Ercole contenenti elementi vegetali e tirsi. I nodi sono simbolo fortemente connotato in tal senso mentre i tirsi introducono un legame con l’elemento dionisiaco.

Questi richiamano in primo tempo le feste dionisiache primaverili (Liberalia) e autunnali – i tirsi sono posti al fianco dei busti di dette stagioni – introducendo la presenza del Dio in un senso che dobbiamo immaginare più ampio. In specie l’associazione muse – stagioni – tyrsoi sembra richiamare l’idea di un ordine naturale armonico garantito dalla presenza di Dioniso – simbolicamente evocato e non direttamente raffigurato come frequentemente pare essere nella regione, specie in ambito funerario – di cui sono immagine sia le stagioni con la loro successione regolare sia l’armonia cosmica rappresentata dalle Muse, secondo una tradizione di derivazione pitagorica di identificare con ciascuna di esse e con la loro totalità l’armonia cosmica intesa come un concerto celeste creato dalla rotazione planetaria e guidato da Apollo Musagete.

   Proviene da un edificio non identificato nelle sue funzioni – ma probabilmente abitativo – il mosaico con parodia del mito di Orfeo datato al IV d.C. in cui l’immagine tradizionale di Orfeo citaredo è sostituita da quello di una scimmia intenta a suonare una pandora con evidente intento parodistico. La scimmia era nota nell’antichità per le sue doti imitative e sono numerose le testimonianze di raffigurazioni parodistiche in cui scimmie compaiono in abiti eroici: Ganimede; Enea ed Ascanio, Orfeo. L’immagine di animali musici con intento parodistico non era sconosciuta, se non restano testimonianze antiche se ne può ricavare un’idea da un affresco siriano di epoca islamica ma quasi sicuramente risalente a prototipi antichi in cui compare una scimmia musicista analoga per schema e impostazione a quella del mosaico di Sousse.

Più complesse sono le ragioni che hanno portato alla deformazione parodistica del mosaico, potrebbe trattarsi parodia letteraria di tradizione ellenistica come nei molti esempi ricordati o di un’immagine connotata in senso apotropaico con funzioni analoghe alle immagini grottesche e deformi che spesso sono collocate nelle sepolture della regione con intenti analoghi. Appare meno probabile vedervi un atto di derisone di un cristiano nei confronti di un dio-eroe molto presente nell’immaginario africano. A quell’orizzonte cronologico – inizi del IV secolo – la figura di Orfeo era ancora patrimonio condiviso da pagani e cristiani, specialmente in Africa dove ancora agli inizi del V secolo compaiono raffigurazioni di Orfeo in contesto sicuramente cristiano. In oltre la garbata ironia del mosaico hadrumetino appare molto distante dalla violenza iconoclasta che caratterizza la reazione cristiana nei confronti di quelle immagini pagane considerate detentrici di particolari poteri e che si esprimeva con la voluta distruzione del volto in quanto lo sguardo era considerato detentore di queste energie ormai considerate come ostili.

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   E’ giunta la notizia della scomparsa del soprano Evelyn Lear, cantante americano ingiustamente poco ricordata in Italia ma sensibile interprete sia del repertorio operistico che di quello cameristico.

  Evelyn Sulman – questo il suo vero nome – era nata nel quartiere di Brooklyn a New York l’8 gennaio 1926 e aveva cominciato gli studi musicali nella città americana prima all’Hunter College e poi alla Juillard School of Music. Giovanissima aveva sposato il medico Walter Lear da cui divorzierà precocemente mantenendone però il cognome.

  Alla Juilliard Scholl sotto la guida di Sergio Kagen abbandona l’originaria vocazione di strumentista – i primi studi sono in pianoforte e corno – per dedicarsi completamente al canto. Negli stessi anni incontra fra i compagni di studio il baritono Thomas Steward che diverrà suo marito fino alla morte avvenuta nel 2006. Grazie ad una borsa di studio si trasferisce a Berlino dove si perfezione sotto la guida di Maria Ivogün e dove debutto in scena nel ruolo del Compositore in “Ariadne auf Naxos” di Strauss facendosi subito notare per la morbidezza del timbro unita ad una non comune avvenenza scenica.

   Decisivo si rivelerà l’incontro con Karl Böhm che a partire dal 1965 la coinvolgerà in una delle operazioni discografiche più importanti del dopoguerra, l’incisione dei due capolavori teatrali di Alban Berg (all’incisione di “Wozzeck” seguirà nel 1968 quella di “Lulu”) destinate a rivelare pienamente l’assoluta bellezza dei due lavori finalmente affrancati dalla prassi di affidarli a cantanti la cui scarsa avvenenza vocale precludeva il repertorio tradizionale ed assegnati ad alcune delle voci più belle di ogni tempo (nel progetto furono coinvolti fra gli altri Dietrich Fischer-Dieskau e Fritz Wunderlich) capaci finalmente di dare la giusta luce a due fra i massimi capolavori musicali del novecento. Le due produzioni berghiane erano state precedute nel 1964 da una storica incisione del “Die Zauberflote” mozartiano affidata sostanzialmente agli stessi interpreti in cuila Learaffrontava il ruolo di Pamina.

  Nel corso della sua lunga carriera – terminata nel 1992 – la Learha interpretato oltre quaranta, ruoli principalmente quelli del repertorio mozartiano e straussiano – gli autentici numi tutelari della cantante americana – ma si cimentò con regolarità anche nell’opera contemporanea. Vanno al riguardo ricordati i numerosi ruoli composti appositamente per le sue caratteristiche vocali tanto negli Stati Uniti: Nina in “Reuben, Reuben” di Marc Blitzstein; Lavinia Manon in “Mourning Becomes Electra” di Marvin David Levy; Irma Arkadina in “The Seagull” di Thomas Pasatieri; quanto in Europa: Alkmene nell’opera omonima di Giselher Klebe; Jeanne in “Die Verlobung in San Domingo” di Werner Egk; Ranyevskaya in “Kirschgarten” di Rudolf Kelterborn.

  Nel 1966 aveva vinto il Grammy Award per la sua interpretazione del “Der Rosenkavalier” straussiano e nel corso degli anni aveva alternato alla carriera di cantante ad alcune saltuarie prove di attrice come in “Buffalo Bill” di Robert Altman del 1976.

 La Leardisponeva di una voce di autentico soprano lirico, dal coloro morbido e pastoso e dall’emissione estremamente omogenea uniti ad una grande musicalità e ad un’innata nobiltà di fraseggio tratti che fecero di lei interprete ideale per i grandi ruoli di Mozart e Strauss ma anche per il repertorio liederistico affrontato nel corso di tutta la sua lunga carriera.  Saltuariamente si è cimentata con buoni risultati nel repertorio Falcon, forse non ideale come tessitura ma sempre risolto con eleganza e musicalità come nel caso della Marina del “Boris Godunov” incisa nel 1962 sotto la direzione di Cluytens. 

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