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Archive for agosto 2012

  Come d’abitudine il ROF ha affiancato una ripresa alle due nuove produzioni. Ripresa di gran lusso trattandosi di un’opera di grande impegno come “Matilde di Shabran” e affidata ad un cast di altissimo livello complessivo.

   Per quanto riguarda la parte visiva si trattava quindi dello spettacolo realizzato nel 2004 da Mario Martone (scene di Sergio Tramonti, costumi di Ursula Patzak). Spettacolo fin troppo minimalista nell’impianto scenico – limitato ad una duplice scala a chiocciola semovente e praticamente privo di autentici arredi – e affidato sostanzialmente alla capacità degli interpreti di dar vita alla scena, fortunatamente l’edizione presentata disponeva di una compagnia pienamente capace di ottenere questo obbiettivo. Più interessanti i costumi che pur nella loro semplicità riescono bene ad evocare un ambiente cavalleresco puramente di fantasia e privo di ogni connotazione storico-temporale e in cui con il prevalente taglio rinascimentale possono serenamente convivere gli spangenhelmen e gli scudi normanni degli armigeri di Corradino e il giubbone secentesco (se non successivo) di Isidoro.

   Sul versante musicale l’esecuzione non deludeva, proponendosi forse come la miglior ripresa del titolo proposta fino ad ora dalla riscoperta pesarese del 1996. Merito principale della riuscita da ascrivere alla direzione di Michele Mariotti che della partitura offre la miglior esecuzione fin ora ascoltata. Con Mariotti la scrittura orchestrale acquista una brillantezza timbrica e coloristica che in quest’opera si era immaginata ma mai ascoltata con tanta nettezza. Come sempre Mariotti riesce ad evidenziare al meglio ogni dettaglio della scrittura orchestrale e a valorizzare ciascun elemento ma allo stesso tempo senza mai perdere di vista la struttura complessiva e soprattutto la dimensione prettamente teatrale della partitura che anzi viene sistematicamente evidenziata nel corso di tutto lo svolgimento dell’opera. Mariotti inoltre dimostra un’innata capacità di accompagnamento, la sua orchestra respira con i cantanti, li sorregge sempre e anche nei momenti più vorticosi in cui l’inarrestabile macchina della ritmica rossiniana potrebbe metterli in difficoltà se non attentamente calibrata.

   L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna si mostra in perfetta sintonia con il proprio direttore stabile dando il proprio significativo contributo alla riuscita complessiva così come il coro guidato da Lorenzo Fratini.

   Un’opera come “Matilde di Shabran” per riuscire richiede non solo un grande direttore ma un cast di autentici virtuosi; il Rossini Opera Festival non solo è riuscito nello scopo ma ha presentato un’autentica compagnia perfettamente affiatata e capace di dare il meglio non solo sul piano vocale ma anche su quello teatrale.

    Il ruolo di Corradino cuor di ferro è ormai una seconda pelle per Juan Diego Florez, protagonista di tutte le recenti riprese dell’opera e confermatosi protagonista eccellente. Nel corso degli anni la voce si è arricchita di armonici e il timbro – pur sempre particolare – si è fatto più caldo e pastoso mentre invariate restano la naturalezza nelle salite agli acuti e sopracuti e la maestria nei passaggi di coloratura nonché la perfetta proiezione della voce che gli permette di riempire anche uno spazio dall’acustica non ideale come l’Adriatic Arena. Qualche eccessiva presa di fiato va vista in conseguenza ad un approccio ipercinetico al personaggio con una continua mobilità scenica – a tratti anche eccessiva e sopra le righe – che ovviamente influiva sulla respirazione ma nell’insieme risultava forse superiore anche al se stesso del 2004 nella maggior maturazione vocale e interpretativa del ruolo.

   Al fianco di Florez brillava Olga Peretyatko. Il soprano russo – ormai beniamina assoluta del pubblico pesarese che la accolta con un convinto applauso già all’apparire in scena – delinea una Matilde ideale, forse la migliore mai ascoltata. Nel corso degli anni la voce ha acquisito maggior morbidezza e femminilità senza nulla perdere in squillo è brillantezza. La tecnica, da autentica belcantista, le permette di superare con facilità i passaggi più impervi – e dispiace non si sia rischiato qualche cosa di più nelle variazioni del rondò anche a scapito del rigore filologico. Se ottima è la cantante l’interprete è poi semplicemente ideale. La naturale avvenenza della Peretyatko è ideale per Matilde ma ancora di più lo sono la grazia e la malizia del fraseggio e la naturale comunicativa dell’accento che crea un’immediata simpatia fra personaggio e pubblico. L’unione di questi elementi interpretativi con la precisione del canto contribuisce a realizzare quella che è – a giudizio dello scrivente – l’interpretazione più compiuta che si sia ascoltata del ruolo.

   Terzo punto di forza – e forse autentico trionfatore della serata – Paolo Bordogna non solo da una nuova idea del personaggio di Isidoro ma finalmente trasforma in un vero personaggio quello che fino ad ora era stata una semplice macchietta. Bordogna non solo canta tutta la parte senza nessun facile cedimento agli artifici troppo spesso utilizzati dai buffi ma soprattutto piega le ragioni del canto alla costruzione di un autentico personaggio in cui sente palpitare lo spirito della letteratura eroicomica rinascimentale da Pulci a Folengo. Bordogna è poi attore eccezionale e riesce a trasformare ogni piccola controscena in una sfaccettatura sempre diversa del personaggio. Assolutamente meritato l’autentico trionfo con cui è stato accolto dal pubblico.

   Il resto del cast pur non arrivando ai vertici del trio Florez – Peretyatko – Bordogna si attestava su un livello qualitativamente alto e contribuiva all’ottima riuscita complessiva dello spettacolo. Nicola Alaimo è un Aliprando di voce imponente e di innata simpatia; Simon Orfila presta a Ginardo un rilevante materiale vocale e si dimostra ottima spalla per Bordogna. Marco Filippo Romano (Raimondo Lopez) e Giorgio Misseri (Egoldo) realizzano al meglio le loro pur piccole parti.

   Qualche parola in più va forse spesa per la parte femminile del cast sulla quale va espresso un giudizio meno netto. Anna Goryachova è stata per molti aspetti un’autentica rivelazione. L’ancor giovane mezzosoprano russo ha infatti esibito un materiale vocale di sicuro interesse e una maturità interpretativa per certi versi in attesa. Resta l’impressione che il ruolo di Edoardo abbia una tessitura un po’ troppo grave per la voce della Goryachova che tende ad acquistare armonici e pienezza con il salire della tessitura. Ci sia augura di poterla riascoltare presto in un ruolo più adatto ad esaltare le sue doti vocali e magari anche ad evidenziare la notevole avvenenza fisica che si è avuto modo di apprezzare vedendola struccata dopo la recita.

   Chiara Chialli è più discutibile nel canto, l’emissione è risultata spesso ingolata e la voce sorda ma è straordinaria nel tratteggiare un personaggio surreale come quello della Contessa d’Arco.

    Successo trionfale e meritatissimo per tutti gli interpreti e degno coronamento di un’edizione del Rossini Opera Festival particolarmente riuscita.

Matilde di Shabran

 

 

Matilde di Shabran

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  “Ciro in Babilonia” restava uno dei due titoli rossiniani mai rappresentati al ROF e quest’anno questa piccola lacuna è stata sanata con una produzione del massimo interesse tanto sul piano musicale quanto su quello visivo.

   “Ciro in Babilonia” non è un capolavoro, ma un titolo del massimo interesse per comprendere i successivi sviluppi del genio rossiniano. Prima autentica opera seria del compositore (dopo l’esperimento poco più che infantile di “Demetrio e Polibio” in cui il peso dei Mombelli non deve essere stato trascurabile) il Ciro mostra in nuce molti degli elementi che diverranno tipici del Rossini serio nonché una serie di temi musicali che verranno ripresi con successo negli anni successivi.

   L’opera deve per altro sopportare lo sconclusionato e illogico libretto di Francesco Aventi che mischia senza troppa fortuna il dramma di matrice pseudo-storica di tradizione metastasiana e settecentesca con l’inserimento di elementi biblici per giustificarne la rappresentazione quaresimale. Elementi che vengono però semplicemente giustapposti senza riuscire ad integrarsi e che rendono la vicenda spesso decisamente confusa.

   Alle prese con un materiale drammaturgico tanto inconsistente bisogna riconoscere al regista Davide Livermore di aver tratto il miglior costrutto possibile (affiancato da Nicolas Bovey per le scene, da Gianluca Falaschi per i costumi e dal gruppo informatico D-Wok autore delle straordinarie proiezioni). L’idea è quella di evocare i fasti del cinema muto e dei kolossal ad un tempo ingenui e spettacolari dei primi due decenni del secolo. Se il tema del teatro nel teatro – sostituito in questo caso dal cinema ma poco cambia – non è certo originale la realizzazione è stata in compenso di altissimo livello.

   Durante l’ouverture si assiste all’arrivo degli spettatori in abito belle-époque all’interno dell’immaginaria sala cinematografica mentre si proiettano i titoli di testa del film. All’apertura del sipario assistiamo all’ideale proiezione. L’interazione del coro-pubblico con i personaggi vuole richiamare la profonda emozione che queste pellicole suscitavano su un pubblico incanto da questa nuova meraviglia tecnologica.

  La scena totalmente vuota è animata da proiezioni che richiamano i kolossal orientaleggianti del tempo – in primis “Cabiria” realizzato a Torino nel 1914 da Giovanni Pastrone (da considerare che non solo lo spettacolo era coprodotto con il “Museo Nazionale del Cinema” della Mole Antonelliana ma che anche il regista è di origini torinesi) – ambientati in un Vicino Oriente antico puramente immaginario e in questo molto simile a quello evocato nell’opera. Molto suggestivi alcuni momenti come il formarsi a vista della cella in cui è segregato Ciro, il grande idolo che domina il finale dell’opera o la mano di Dio che incide motti incomprensibili sulle pareti del palazzo.

   Magnifici i costumi che rileggono in chiave liberty le citazioni archeologiche babilonesi e persiane, tutti in un elegantissimo bianco e nero animato da saltuarie proiezioni di luci colorate che ricreavano con suggestione le velature ad acquerello non rare nella cinematografia del tempo. Curatissimo il trucco capace di evocare pienamente – specie in alcuni primi piani ingranditi dalle proiezioni – gli sguardi fortemente espressivi del cinema muto e curatissima la recitazione, giustamente enfatica e magniloquente com’era il gusto del tempo e come sarebbe bello vedere più spesso anche oggi, almeno in teatro, ma allo stesso tempo non priva di tocchi ironici come l’apparizione di Maciste in vesti di boia nella scena del sacrificio o la biga proiettata in movimento per rappresentare l’allontanarsi della famiglia reale persiana.

   Personalmente sono sempre stato molto critico nei confronti di Davide Livermore che dopo alcune prove iniziali interessanti aveva creato spettacoli che mi avevano sollevato più di una perplessità perché inutilmente caricati di sovrastrutture (“I vespri siciliani” a Torino); eccessivamente trascurati (“Demetrio e Polibio” al ROF) o semplicemente brutti (“Idomeneo” a Torino) ma questa volta gli va dato il merito di aver indovinato uno spettacolo di rara suggestione.

  La parte musicale si integrava alla perfezione nel bellissimo spettacolo. Molto positiva la prova dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna (al pari del coro diretto da Lorenzo Fratini) sotto la guida del direttore americano Will Crutchfield responsabile musicale del festival di Caramoor coproduttore dello spettacolo e grande conoscitore della prassi esecutiva del tempo. Crutchfield opta per una direzione molto attenta, capace di evidenziare al meglio le qualità musicali della partitura e si dimostra ottimo accompagnatore nei confronti dei cantanti. L’unico limite era forse ravvivabile in una carenza di passo teatrale e in un saltuario scadimento della tensione emotiva, va però anche riconosciuto che la sconclusionata vicenda poco aiuta al riguardo.

   Chiamando Ewa Podles per il ruolo di Ciro il ROF recupera in tempo la lacuna di aver quasi totalmente ignorato una delle più grandi virtuose belcantiste del Novecento, praticamente assente in Italia negli anni migliori della sua carriera. La cantante polacca sfoggia ancora mezzi vocali eccezionali e impartisce un’impressionante lezione di canto rossiniano. Se qualche durezza o qualche presa di fiato aggiuntiva sono da mettere in conto queste cose ben poco valgono di fronte ad una voce ancora estesissima e compatta, capace di impressionanti discese al grave ma anche di salire con sufficiente facilità nelle zone più acute; alla fenomenale capacità nel canto di coloratura, specie in quelle colorature di forza che dovrebbero essere tratto caratteristico dei ruoli rossiniani en-travesti e che raramente si ascoltano con tale ampiezza di voce e disinvoltura di esecuzione. Il fraseggio è ampio e virile, giustamente scolpito e qualche eccesso espressivo ben si inseriva nel contesto dello spettacolo mentre va riscontrato che l’attrice è più generica e la personalità scenica non sempre folgorante. La Podles è stata oggetto di un’accoglienza trionfale da parte del pubblico, non solo per il glorioso passato ma per quello che è ancora capace di dare nonostante l’età non più verdissima.

   Degna sposa di tanto Ciro l’Amira di Jessica Pratt. Dotata di voce luminosissima, omogenea su tutta la linea e ottimamente controllata la cantante australiana si mostra non solo virtuosa di classe superando con disinvoltura i passaggi più impervi della scrittura ma anche interprete sensibile, perfettamente calata nel personaggio nonché ragguardevole attrice nel gioco scenico che faceva di lei una diva liberty dai modi enfatici e magniloquenti. Qualche estremo acuto non perfettamente centrato, con conseguenti leggeri indurimenti della voce, vanno attribuiti verosimilmente a qualche residuo di stanchezza non ancora superato dopo il programma monstre presentato nel concerto del giorno precedente.

   Autentica rivelazione – almeno per lo scrivente – il tenore Michael Spyres nel ruolo del perfido Baldassare, forse la più compiuta incarnazione del baritenore rossiniano ascoltata negli ultimi anni. Voce amplissima – in alcuni passaggi capace di rievocare l’insuperato Chris Merritt – e di naturale estensione, dotato di un registro grave solidissimo e di fulminanti salite all’acuto unita ad un’ottima tecnica di canto che gli permetteva di affrontare con sicurezza i passaggi più scopertamente virtuosistici e di concentrarsi sull’accento e sul fraseggio estremamente curati. Culmine della prestazione l’elettrizzante esecuzione della grande scena di follia: “Qual crudel, qual trista sorte” forse il momento musicalmente più riuscito dell’opera insieme alle arie di Amira.

   I numerosi personaggi di fianco completano un quadro assolutamente omogeneo e di alto livello. Mirco Palazzi nei panni del generale babilonese Zambri si conferma interprete di sicura efficacia nel repertorio rossiniano dando interessante rilievo ad un ruolo di suo quasi inesistente; Robert McPherson sfoggia ottima linea di canto e buono squillo tenorile nei panni di Arbace; Carmen Romeu altro prodotto del sempre fertile vivaio dell’Accademia Rossiniana tratteggia un’Argene molto convincente tanto sul piano musicale che su quello espressivo e Raffaele Costantini riesca a dare la giusta autorevolezza al ruolo del profeta Daniello, figura di suo totalmente avulsa dallo sviluppo drammaturgico della vicenda.

   Grande successo per tutti gli interpreti per quella che promette di essere una produzione destinata a lasciare più di una traccia nella storia del Rossini Opera Festival. 

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  “Il signor Bruschino” torna al Rossini Opera Festival senza convincere piuttosto rivelandosi come la sostanziale delusione di un’edizione nel complesso di livello molto alto, fra le migliori proposte dal ROF negli ultimi anni.

   La nuova produzione se già sulla carta appariva lo spettacolo meno intrigante della stagione alla prova dell’ascolto la delusione è stata ancora maggiore. Primo significativo handicap per la riuscita dello spettacolo si è dimostrata la parte visiva affidata al gruppo Teatro Sotterraneo per la regia e agli studenti Dell’Accademia di Belle Arti di Urbino per le scene e i costumi. Se a questi ultimi bisogna riconoscere l’innegabile capacità tecnica nella realizzazione dei singoli elementi, ancor più ammirevole trattandosi di studenti e al’insieme registico che fanno imputate le falle di uno spettacolo privo di ogni personalità o anche solo di una cifra stilistica omogenea.

   L’idea di fondo della regia era quella di un parco divertimenti, chiamato con non troppa originalità Rossiniland dove alcuni artisti rappresentavano “Il signor Bruschino” per i frequentatori del parco. Se l’idea già in se non pare di quelle illuminanti la realizzazione è stata ancor più deludente mancando qualunque unità dell’insieme e riducendosi la regia ad estemporanee trovate e gag comiche di sapore per altro alquanto banale.

Dalle informazioni raccolte il gruppo lavora principalmente nell’ambito del teatro per ragazzi e delle collaborazioni scolastiche ma la comicità espressa risultava fin troppo infantile anche con queste premesse: palloncini rosa a forma di cuore che scoppiano a sorpresa, la lettera di Bruschino a Gaudenzio imbottita di errori grammaticali che il tutore corregge per poi chiosare il tutto con un “4” declamato ad alta voce; le bamboline vodoo con cui Sofia tormenta Bruschino (forse non casualmente affidate ad una cantante di origini cubane tanto per restare nei più triti luoghi comuni) sembrano trovate fin troppo ingenue quando non inutilmente volgari con alcune cadute degne dei peggiori cinepanettoni. Il tutto combinato a continui elementi di disturbo, rumori di scena alquanto fastidiosi, coppiette che amoreggiano sulle panchine, scolaresche urlanti da cui sortiva una confusione abbastanza totale.

   Alquanto brutti anche i costumi che rileggevano in chiave manga e ultra colorata le forme classiche dell’abbigliamento delle farse rossiniane. L’idea in se potrebbe avere anche una sua piacevolezza ma l’effettiva realizzazione lasciava alquanto perplessi con punte di non comune bruttura nelle parrucche bianco-azzurre di Florville e Bruschino figlio che li facevano assomigliare a uomini pesce o nelle incomprensibili croci di Alcantara sulla gonna di Sofia. Se possibile ancor peggio quelli dei figuranti con tutti i peggiori stilemi sui turisti dalla dark lady in pelle nera alla coppia anziana (forse tedesca) in camicia hawaiana e sandali con il calzino.

   Purtroppo la parte musicale non migliorava di molto la situazione rispetto a quella visiva. Apprezzato in altre occasioni e in altri repertori Daniele Rustioni qui non convince realizzando una direzione corretta ma povera di brio, totalmente priva di quell’irresistibile energia vitale che sempre anima la musica rossiniana, specie in opere come queste. Non oltre la sufficienza la prova offerta dall’Orchestra Sinfonica G. Rossini.

   Sul piano vocale da segnalare in primis la prova di Roberto De Candia come Bruschino padre, non solo molto centrata musicalmente ma anche pienamente efficace sul piano interpretativo, De Candia l’unico ad avere dimestichezza con la partitura non ha deluso mostrando una voce di buona sonorità e una coinvolgente teatralità. Discorso in parte analogo per Carlo Lepore come Gaudenzio, anche se nel suo caso l’esser al debutto nel ruolo influiva su una minor familiarità con il personaggio meno caratterizzato e coinvolgente. I mezzi vocali risultavano sempre apprezzabili così come la linea di canto pur con qualche difficoltà in alcuni passaggi. Certo il generale contesto non era l’ideale per emergere.

   Elemento quest’ultimo che si riverberava anche sulle prove dei personaggi di fianco, per i quali si aveva spesso l’impressione di un’esprimersi sotto le proprie possibilità a causa delle inutili pesantezze di direzione e regia, è il caso dell’interessante materiale di Andrea Vincenzo Bonsignore nel ruolo dell’oste Filiberto; di Chiara Amarù (Marianna) molto apprezzata lo scorso anno come Amenofi nel “Mosé in Egitto” e scivolata via in una generica correttezza e di Francisco Brito totalmente affossato dalle scelte registiche nel doppio ruolo di Bruschino figlio e del Commissario.

   La vera delusione dello spettacolo è stata Maria Aleida nel ruolo di Sofia. Molto attesa dopo le prove fornite lo scorso anno a Martina Franca e nel “Viaggio a Reims” dell’Accademia Rossiniana è apparsa decisamente sotto tono. La voce in sala risultava piccola, a tratti inudibile, con una continua sensazione di accennato più che autenticamente cantato che lasciava alquanto perplessi. La quadratura musicale risultava alquanto imprecisa, gli acuti poco proiettati e a volte troppo fissi. Sul piano interpretativo la Aleida appariva come intimidita dal contesto, incapace di trasmettere qualunque sensazione. Ci si augura che si sia trattato solamente di un momento negativo e che la cantante ritrovi presto una più corretta via per non disperdere le qualità che aveva mostrato di avere.

   Totalmente anonimo il Florville di David Alegret, voce esile, quasi inesistente, spesso stimbrata e personalità nulla. Almeno su questo aspetto la coppia dei giovani innamorati era sicuramente omogenea.

   In ogni caso un’occasione mancata per riproporre un autentico capolavoro del teatro comico rossiniano troppo saltuariamente rappresentato sui nostri palcoscenici.

   Lo stesso giorno cui ho assistito alla rappresentazione de “Il signor Bruschino” (il 18 agosto) è stato anche eseguito – nel ciclo dei “Concerti di Belcanto” – un recital del soprano australiano Jessica Pratt assolutamente da segnalare per repertorio proposto e qualità dell’esecuzione. Accompagnata dal pianista Giulio Zappa – presenza ormai abituale nei programmi concertistici del ROF – la cantante ha eseguito un programma densissimo, composto integralmente da cimenti belcantistici tratti da opere del primo Ottocento (Meyerbeer “Il crociato in Egitto”, Rossini “Otello” e “Semiramide”, Vaccaj “La sposa di Messina”, Donizetti “Linda di Chamonix” e Bellini “Beatrice di Tenda”, “I Capuleti e i Montecchi”, “La sonnambula”).

   L’esecuzione è stata splendida. La voce della Pratt è molto bella e sostenuta da una tecnica strepitosa: controllo magistrale del fiato e dell’emissione, facilità quasi imbarazzante nella salita su acuti e sopracuti sempre solidissimi e ricchi di armonici mentre il fraseggio è sempre pertinente con una naturale nobiltà d’accento che trova nel repertorio tardo-neoclassico e proto-romantico il suo naturale terreno d’elezione. Difficile segnalare momenti in un contesto pienamente omogeneo nel suo altissimo livello complessivo, una delle migliori esecuzioni concertistiche ascoltate a Pesaro – e non solo – nel corso degli ultimi anni.

   A completare il quadro la Pratt non si è risparmiata neppure con i bis. Dopo un programma di questo impegno – e trionfalmente accolto dal pubblico – la cantante non ha deluso i propri ammiratori proponendo quasi un secondo concerto aperto da “Je veux vivre” dal “Romeo et Juliette” di Gounod, proseguito con una stratosferica esecuzione di “Glitter and be Gay” dal “Candide” di Leonard Bernstein e chiuso con la cabaletta di Violetta “Sempre libera” da “La traviata” verdiana. Meritatissimo trionfo per un concerto indimenticabile. 

 

 

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