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Archive for settembre 2012

“Prepariamoci, tutto ciò mi puzza di faccende molto più gravi. E soprattutto sento odore della tirannide di Ippia. Ho paura che certi Spartani, convenuti in casa di Clistene, aizzino queste donne nemiche degli Dei a prendersi i nostri soldi, il salario che è la mia vita” protesta il coro dei vecchi nella “Lisistrata” aristofanesca (614-625). Una protesta non casuale e che lungi dal risolversi in una facile battuta testimonia il fondo di cupa incertezza che aleggia sulla commedia.

  Andata in scena alle Dionisie del 411 (dal 7 all’11 aprile secondo il calcolo di Merritt) “Lisistrata” è infatti la testimonianza più eloquente del clima di complotto che si respirava ad Atene in quei giorni. Se da un lato risente del clima di tensione conseguente allo scandalo delle erme del 415 dall’altro – e in modo ancor più significativo – prevede e quasi accompagna il colpo di stato oligarchico già in corso in quei giorni ed esploso del maggio dello stesso anno. Sotto i toni della parodia dell’allarmismo democratico “Tutto questo, cittadini, è una trama per la tirannide. Ma non ce la faranno! Starò in guardia. Porterò la spada in un ramo di mirto, starò in armi, vicino alla statua di Aristogitone” (626-635) e dell’assurda vicenda del colpo di stato delle donne – il non-soggetto per antonomasia insieme agli schiavi della democrazia ateniese – Aristofane nasconde l’allarme per la situazione politica in corso.

   Ritornando al tema del salario questo non è assolutamente casuale né si riduce ad una semplice parodia dell’avidità dei vecchi ma viene a toccare un punto chiave del dibattito politico di quel momento e uno dei punti programmatici fondamentali della congiura oligarchica: l’abrogazione del salario (Μισθός) per le cariche pubbliche. Nei presi precedenti il colpo di stato il tema era già stato fatto circolare dalle eterie (come ricorda Tucidide VIII 63,3) e rappresentava uno degli strumenti più forti di pressione sul demo già colpito dagli omicidi politici e dal sempre più aggressivo atteggiamento dei gruppi oligarchici nelle assemblee.

  L’abolizione del salario significa infliggere il colpo mortale alla democrazia in quanto si tradurrebbe in un’interdizione da qualunque impegno pubblico di tutti coloro che non sono in grado di mantenersi senza dover lavorare. E’ il sogno di chiunque voglia limitare la distribuzione del potere e ridurre – se non totalmente eliminare – la funzione regolatrice della politica nei confronti dell’eccessiva concentrazione di potere delle élites economiche nei confronti delle masse subalterne lasciandole libera di concentrare nelle stesse mani tanto entrambi i poteri. In tal senso non era in errore la retorica democratica che identificava l’oligarchia con la tirannide anche se i due fenomeni nel mondo greco sono completamente distinti.

  Il provvedimento fu tra i primi ad essere attuato dopo il colpo di stato e la reintroduzione del salario rappresentò il pieno ritorno alla democrazia dopo il rapido tracollo dei Quattrocento – travolti dalla reazione democratica della flotta di Samo e dalla loro ingenua fiducia nell’aiuto spartano – e la fase di transizione rappresentata dal governo dei Cinquemila a guida dei moderati teramaniani.

  Il tema dell’eliminazione del salario tornò in auge nel 404 quanto venne semplicemente imposto dal nuovo governo oligarchico – quello dei Trenta – per il quale non era neppur più necessaria la propaganda preliminare dei congiurati del 411 in quanto sufficiente risultava l’appoggio delle armi spartane.

  Qualcuno dei lettori potrebbe chiedersi come mai tornare su una tematica apparentemente così legata alle peculiarità della democrazia ateniese del V secolo a.C. In realtà mi sembra che il tema stia tornando di preoccupante attualità e in forme neppur troppo diverse da quelle che accompagnarono i tentativi di rivoluzione oligarchica sopra ricordati. Basta navigare a caso in rete per incontrare messaggi dal tenore decisamente inquietante, almeno per chi non è totalmente digiuno di nozioni storico politiche.

  Tra le componenti più apertamente demagogiche si incontra sempre più di frequente la richiesta di abrogare qualunque forma di retribuzione per le cariche pubbliche sostituita da un vagheggiato “volontariato politico” presentato come soluzione ai problemi di corruzione ed eccesso di spesa che caratterizzano oggi la politica italiana. La giustificazione moralizzante non è nuova e si ritrova anzi proprio nella ricordata propaganda che accompagno il colpo di stato del 411 nel nome di un ritorno ad un’originaria purezza che la venalità della democrazia periclea aveva compromesso.

   Una sostanziale differenza sembra essere nella natura dei movimenti proponitrici, che oggi cercano di presentarsi in forme iper-democratiche se non apertamente pauperistiche in contrario contro la presenta oligarchia rappresentata dalle classi politiche esistenti. Anche a questo riguardo vanno però notati due elementi che smascherano sostanzialmente il gioco.

   Il primo luogo anche le ideologie oligarchiche antiche non mancavano di tratti progressisti, in alcuni casi assolutamente rivoluzionari rispetto al modello presente.

   L’attacco alla polis democratica è spesso condotto proprio sul terreno dei diritti individuali, acquisendo quella forma che è stata definita da Luciano Canfora “egualitarismo antidemocratico”. Sul piano teorico non possono passare inosservate di Antifonte uno dei maggiori leader dei Quattrocento. I frammenti conservati del suo trattato “Sulla verità” presentano il più spregiudicato atto di accusa contro il modello schiavistico e contro l’ideologia xenofoba della città greca che il mondo antico ci abbia tramandato: “Noi rispettiamo e veneriamo ciò che è di nobile origine, ma chi è di natali oscuri lo respingiamo, e ci comportiamo gli uni verso gli altri come barbari, poiché siamo di natura assolutamente uguale, sia Greci che barbari. Basti osservare le necessità naturali di tutti gli uomini. Nessuno di noi può essere definito né come greco né come barbaro. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici” (VS, 87 B44 fr. B). E dallo stesso ambiente Alcidamente, lo scolaro di Gorgia proclamerà senza mezzi termini: “La divinità ci ha fatto tutti liberi, nessuno schiavo la Natura ha generato” (Commoentaria in Aristotelem Graeca, XII.2).

   Le esperienze egualitarie dei futuri oligarchi non si limitavano però alla sola speculazione teorica spostandosi in alcuni casi sull’esercizio pratico. E’ il caso di Aminia – uno dei Quattrocento – che durante un periodo di esilio si pose a capo delle insurrezioni dei penesti – gli iloti tessali – come ricorda Aristofane ne “Le Vespe” e negli anni successivi la stessa esperienza sarà ripetuta da Crizia per cui la lotta anti-schiavile in Tessaglia sarà il punto di maturazione politica saldandosi con l’ostilità famigliare verso la democrazia proprio nel nome della condanna della natura escludente di quest’ultima.

   Gli esempi citati esemplificano la possibile presenza di tendenze progressiste nei fautori di regimi oligarchici autoritari, componente che va tenuto conta anche nelle attuali campagne demagogiche dove la maggior differenza sta nel livello della riflessione politica che oggi si riduce sostanzialmente a becera demagogia lontanissima dell’alto livello di teoresi politica degli antichi.

   L’altro aspetto da considerare è la natura sociale dei propugnatori di queste radicali riforme. Oggi come allora i sostenitori della volontarietà dell’azione politica sono in genere personaggi estremamente ricchi, per i quali la politica non ha nessun valore di ascensore sociale ma serve solamente a cristallizzare le proprie posizioni di privilegio.

  I tentativi oligarchici furono rapidamente assorbiti dal radicato spirito democratico degli ateniesi del V secolo. Quell’allarmismo democratico cui bonariamente irride Aristofane servì a far scattare immediata la reazione, prima nel 411 a.C. con l’ammutinamento della flotta di Samo e l’istituzione di un governo democratico e in esilio e poi nel 403 con l’organizzazione della resistenza democratica intorno a Trasibulo. Quello che preoccupa oggi – e che segna la maggior differenza rispetto ai casi antichi – è l’impressione di una passività delle masse, di una sfiducia diffusa nella democrazia che potrebbe fare il gioco degli aspiranti oligarchi anche se individualmente più che epigoni appaiono penose caricature di figure grandiose nella loro fosca tragicità come Frinico e Crizia.

   Le crisi della democrazia vissute da Atene in quello scorcio di tempo mantengono la loro natura di modelli di riferimento per comprendere molto dell’attuale politica italiana, anche in questo caso i nostri antenati ci indicano come leggere la realtà in cui ci troviamo, sta solo a noi essere capaci di ascoltarli e di meditare sul loro insegnamento. 

veduta ideale di Atene

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I mesi autunnali del 546 a.C. non avevano recato particolare conforto a Babilonia, se i venti freschi che scendevano dalle montagne dell’Assiria avevano come ogni anno cominciato ad allontanare la canicola estiva il clima in città restava rovente sul versante politico e sociale.

Non troppi anni prima, al tempo di Nabuccodonosor, la città aveva vissuto uno dei momenti più gloriosi della sua storia millenaria. Ma quei giorni sembrano ormai lontanissimi anche, se molti dei protagonisti erano ancora attivi sulla scena e remoti sembrava pure quelli della vittoria contro i medi ottenuta nel 555 a.C. da Nabu-naid al fianco dei persiani di Kuruš (Ciro). Ma da allora i comportamenti del Re avevano spiazzato qualunque suddito e il malcontento cresceva di giorno in giorno, così come la speranza di un salvatore che potesse ridare ordine allo stato.

Dopo la vittoria sui Medi Nabu-naid aveva riconquista Harran – di cui era originario – e aveva sconfitto ripetutamente i principi siriani, ma dopo una campagna contro gli arabi nel 550 a.C. si era definitivamente trasferito a Tema, la capitale dei vinti, preso da un’indole mistica sempre più sconfinante nella follia. Il controllo della capitale era affidato al figlio Bel-shar-usur, figura abbastanza scialba il cui unico merito – se così si può dire – è di aver fornito spunto per il nome al Baltassar biblico che in realtà richiama piuttosto la figura del padre (altri tratti di Nabu-naid passeranno impropriamente a Nabuccodonosor).

Il 547 a.C. segna il crollo della situazione. Sentendosi minacciato dalla potenza persiana il re babilonese si allea con la Lidia di Creso e dopo la disfatta di questo all’Ermo e la volontaria sottomissione dei cilici e dei cappadoci al Gran Re si trovò praticamente solo di fronte alla vendetta persiana potendo far poco affidamento su un effettivo intervento di Amasi o degli spartani. La situazione era così preoccupante che nel 545 a.C. il re decise di tornare a Babilonia dopo anni di assenza trovando una situazione catastrofica. La regione – una delle più fertili del mondo – era sull’orlo della carestia e Gubaru (Gobria) uno dei generali veterani di Nabuccodonosor mandato a governare l’Elam era passato al campo persiano.

Di fronte ai pericoli l’unica difesa adottata fu quella di trasformare Babilonia in una fortezza mistica facendovi trasportare le statue di tutte le divinità della regione con il pretesto di proteggerle dai persiani ma in realtà nella speranza di esserne protetto e ad un tempo di controllarle. Dal punto di vista della psicologia di massa fu un disastro, nelle città private dei loro Dei e con i templi chiusi crescevano ogni giorno sconforto e opposizione al regime mentre a Babilonia le tensioni crescevano tanto più che all’arrivo delle divinità estranee si affiancava anche qui la chiusura e l’abbandono dei templi e il concentramento degli Dei poliadi nel palazzo. La tensione raggiunse livelli tali che le precessioni provenienti da Kutu e Sippar vennero respinte dalla folla inferocita.

La situazione non era migliore dove i templi restavano aperti in quanto i deliri mistici e le visioni di Nabu-naid imponevano continui stravolgimenti a iconografie e cerimoniali che suscitavano inevitabilmente il malcontento. E’ quanto avvenne a Sippar dove a seguito di un sogno venne fatta modificare l’immagine del dio Shamash o nella stessa Babilonia quando fu cambiata l’acconciatura a Nabu di Borsippa appena portato in città. Le cronache narrano che sulle pareti comparve una scritta vergata dal Dio stesso in cui si lamentava del sacrilegio compiuto, verosimilmente la scritta fu realizzata dai sacerdoti ma l’episodio è significativo del clima che si respirava in città. L’aneddoto ricorda quello analogo descritto nella Bibbia ma non è necessario pensare ad un plagio in quanto potrebbe non trattarsi di un episodio isolato e altri casi potrebbero aver riguardato il Dio degli ebrei.

Questi rappresentavano sicuramente un elemento di instabilità e di opposizione a Nabu-naid non trascurabile. Dopo la deportazione molte famiglie dell’élite ebraica si erano integrate nel contesto babilonese tanto sul piano sociale tanto su quello culturale come attesta il rapido apparire di teonimi accadici famiglie ebraiche già nelle prime generazioni post-esiliche e soffrivano come tutti per le continue follie del re. Un altro aspetto della società ebraica era rappresentato dai profeti che con toni apocalittici predicavano la caduta della città maledetta fin dai primi tempi della deportazione. Dopo aver predetto per anni la caduta sotto i colpi dei Medi, la caduta dell’impero li aveva privati delle loro speranze ma ora tornavano a predicare identificando in Ciro l’uomo della provvidenza.

Dietro a questi fenomeni pare probabile vedere un ruolo non marginale della diplomazia persiana. Ciro puntava ad occupare Babilonia in forma pacifica, presentandosi come il legittimo restauratore della gloria cittadina affossata dai deliri di Nabu-naid e dalla debolezza di Bel-shar-usur – concetto espresso con chiarezza nel lungo proclama ai babilonesi promulgato da Ciro dopo la definitiva occupazione e conservato in un cilindro dagli archivi reali. E quindi molto verosimile che i sacerdoti babilonesi fossero finanziati dai persiani per la loro attività di indebolimento dell’autorità monarchica – Ciro stesso dichiara, evidentemente sapendo di poter contare sul sostegno dei sacerdoti dell’Esagila, di essere stato chiamato dallo stesso Marduk a liberare la città. Altrettanto probabilmente anche i profeti ebrei erano al soldo della propaganda persiana. Una conferma indiretta viene da alcuni passi del II libro di Isaia corrispondenti quasi alla lettera con il proclama di Ciro in Babilonia da rendere ben più che ipotizzabile un diretto rapporto fra le personalità più in vista del mondo profetico ebraico e la cancelleria achemenide.

In un contesto politico così degradato la conquista militare non poteva riservare sorprese agli invasori. Con l’inizio dell’autunno venne lanciata l’offensiva decisiva su due fronti. Da Nord Ciro avanzava dall’Assiria con i reparti medi e persiani mentre da sud gli elamiti di Gobria invadevano la Caldea. Agli inizi del mese le truppe babilonesi subivano un pesante rovescio a Opi sul Tigri, la sconfitta segnò il crollo psicologico di ogni resistenza, l’11 ottobre Sippar si arrese senza combattere e il 13 ottobre 539 a.C. le truppe di Gobria entravano trionfalmente a Babilonia mentre Nabu-naid in fuga si era temporaneamente riparato ad Uruk. Il 29 ottobre Ciro e il figlio Kambujia (Cambise) facevano il loro ingresso in Babilonia su strade coperte di rami di palma fra il tripudio della folla. Gombria venne nominato satrapo di Babirush mentre ai vertici dell’amministrazione furono confermati funzionari babilonesi.

Fra i primi provvedimenti presi da Ciro vi fu l’ordine di far ritornare le divinità prigioniere nelle loro città di origine e di ricostruire i templi. In una prima fase questo processo riguardò i centri mesopotamici ma rapidamente fu estesa anche alle città siro-palestinesi i cui templi erano stati distrutti durante le campagne di Nabuccodonosor fra cui il tempio di Eshmun a Sidone e quello di Yawhé a Gerusalemme. Per questo fu predisposto un apposito decreto emesso ad Ecbatana l’anno successivo con il quale non solo si ordinava la ricostruzione del tempio ma – in mancanza di una statua di culto – la restituzione degli arredi sacri predati dai babilonesi. Dell’esecuzione dell’ordine fu incaricato personalmente il nuovo governatore della Giudea Sheshbazzar – forma contratta dell’accadico Shamash-apal-usur – verosimilmente il rampollo di una famiglia aristocratica giudea ormai pienamente integrata nel mondo culturale mesopotamico.

Il rapporto fra Babilonia è i persiani procederà armonioso per tutta la durata dei regni di Ciro e Cambise – che prima di ascendere al trono governò personalmente la regione – e tale si mantenne fino all’ondata di rivolte che accompagnarono la contestata ascesa al trono di Dario I fenomeni che però esulano ormai dalla fase della conquista e rientrano nel gioco di rapporti – spesso problematici – fra autorità regia e poteri satrapali che caratterizzerà tutta l’era achemenide.

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   Il 6 settembre 1812 il comando generale dell’esercito della Zar decise di dare battaglia ai francesi, nonostante le posizioni non favorevoli. Le settimane precedenti avevano visto l’abbandono – praticamente senza combattere – non solo delle regioni bielorusse e lituane ma anche della Russia occidentale compreso il doloroso sacrificio di Smolensk. I vertici dello stato maggiore – specie Barclay de Tolly e Kutuzov – erano consci che il solo modo di vincere il nemico fosse quello di fiaccarlo in un disperato inseguimento nelle infinite distanze della terra russa ma ora le pressioni si facevano sempre più forti, la ritirata affossava il morale dei soldati e l’abbandono di Mosca senza combattere era quasi improponibile. In questi condizioni attaccare battaglia diveniva inevitabile anche se la piana di Borodino non era terreno ideale per una difesa ad oltranza, priva com’è di difese naturali specie sul fianco sinistro dove si snodava la strada maestra verso Mosca.

   I primi giorni di settembre furono destinati ad organizzare precarie difese da campo mentre il 5 settembre a Ševardino le truppe del principe Bagration riusciva a coprire la ritirata e a respingere i francesi pur subendo pesanti perdite.

   L’alba del 7 settembre la piana di Borodino si stava preparando a cambiare la storia. Numericamente i due eserciti erano abbastanza simili (circa 130.000 russi contro 125.000 francesi) ma Napoleone poteva contare sulla maggior esperienza dei propri soldati – le truppe russe erano in gran parte inesperte e un contingente non trascurabile era costituito da miliziani (almeno 31.000 uomini) spesso armati solo di picche e asce – e sulla devastante potenza di fuoco dei sui 587 cannoni affidati ai più esperti artiglieri d’Europa. I russi consci di questi limiti si andavano preparando per una battaglia di logoramento che sarebbe costata pesantissime perdite ma che pareva essere l’unico modo per arginare la forza d’attacco francese. Gli zappatori russi aveva agito con assoluta abilità nel costruire trincee temporanee – superiori al riguardo ad ogni altro esercito del tempo – ma allo scoppio della battaglia erano pronte solo quelle del fronte settentrionale intorno al villaggio di Gorki dove gli scontri risulteranno minimi mentre ancora arretrati erano i lavori alle “frecce di Bargation” e al “ridotto Raevskij” dove si concentreranno gli scontri più violenti.

   All’alba del 7 settembre i francesi attaccarono protetti dalla nebbia e approfittando della cattiva disposizione delle truppe russe dovuta alle troppe rivalità dello stato maggiore che Kutuzov e Barclay de Toly non erano riusciti a placate – tanto che gli interi continenti di Ostermann e Baggohufvudt schierati oltre Gorki raggiunsero il campo di battaglia solo nel pomeriggio avanzato.

  L’attacco francese fu preceduto dallo spaventoso fuoco di almeno 400 cannoni contro le frecce che spazzò via i granatieri del conto Voroncov smantellando la posizione più avanzata, affiancato dall’attacco snervante degli schermagliatori. I russi dimostrano un coraggio fuori dal comune ma con l’intero comando decapitato – nel giro di tre ore erano stati gravemente feriti lo stesso Bargation (il principe comandante in capo della 2° armata, discendente degli antichi re di Georgia nella cui vene scorreva il sangue imperiale dei Sassanidi), il capo di stato maggiore Saint-Priest e Mikhail Borozdin., furono costretti a indietreggiare oltre il torrente Semenovskij.Nel frattempo pur con forze preponderanti i polacchi del principe Poniatowski venivano bloccati per alcune ore dagli uomini Nikolaj Tučkov intorno al villaggio di Utica e di fatto tagliandoli fuori dal fronte principale.

   Il grosso dell’attacco francese si stava concentrando contro il ridotto centrale dove le forze russe di Nikolaj Raevskij opponeva strenua resistenza nonostante parte degli effettivi fosse stata distaccata in sostegno a Bargation. Il tempestivo arrivo dei distaccamenti della 2° armata di Ermolov permise ai russi di riconquistare la posizione ma durante il contrattacco venne ucciso Aleksander Kutajsov il miglior ingegnere dell’artiglieri russa che durante lo scontro si dimostrerà impari a quella francese proprio per mancanza di esperienza e a respingere la prima controffensiva francese. Fortunatamente per i russi all’attacco di Morand non seguì l’intervento dell’intera armata di Beauharnais in quanto con un’azione autonoma e improvvisata i cosacchi di Platov avevano attaccato le salmerie francesi costringendo il principe Eugenio a rientrare in difesa e dando tempo al 4° corpo di Aleksander Ostermann-Tolstoj di raggiungere e tenere il ridotto pur sotto l’incessante fuoco delle batterie francesi.

   La situazione era altrettanto grave sul Semenovskij dove la guardia imperiale era sottoposta ad uno spetato cannoneggiamento alternato alle cariche della cavalleria di Davout e Ney. La resistenza delle guardie dello Zar sfiorò l’incredibile. Nonostante la violenza dell’assalto e il numero spaventoso di perdite i reggimenti Izmajlovskij, Lituania e Finlandia e il 4° corpo di cavalleria di Carl Sievers riuscirono a mantenere le posizioni e ad arrestare l’offensiva. Sul campo restarono almeno 1600 uomini (senza contare gli artiglieri) e l’intera catena di comando del Lituania fu spazzata via compresi tutti i maggiori e i colonnelli. Nonostante questo nel tardo pomeriggio i reggimenti erano arretrati di poche centinaia di metri e continuavano a combattere disciplinatamente mentre Napoleone era costretto a inviare continue forze di riserva a sostegno dell’attacco di Ney.

   Nel tardo pomeriggio la battaglia sembrava impantanarsi come avevano sempre desiderato i russi mentre i francesi cominciavano a perdere carica propulsiva nelle azioni di attacco tanto più che Napoleone era restio a sacrificare la Guardia, conscio del’importanza di quei veterani per il prosieguo della campagna. L’unico assalto significativo fu quello nuovamente tentato da Eugenio di Beauharnais contro il “Ridotto Raevskij” e affidato in modo alquanto anticanonico alla cavalleria pesante sorretta dai circa 20.000 fanti che ancora restavano al principe. A quell’ora – circa le 15:00 – l’artiglieria aveva ridotto le trincee ad ammassi di rovine e i difensori del 4° corpo di Ostermann-Tolstoj erano più che decimati. Nonostante questo i russi offrirono una disperata resistenza finché l’ultimo uomo cadde ferito o ucciso sotto le sciabole dei corazzieri francesi.

   L’altura del ridotto era un’essenziale posizione per l’artiglieri e non poteva essere lasciata al nemico in quanto avrebbe permesso di falciare le truppe in ritirata, con una dimostrazione di coraggio e acume non comuni il maresciallo Barclay de Tolly lancio un ultimo disperato attacco per impedire l’avanzamento dell’artiglieri francese. Considerando le gravi perdite subite dalla cavalleria nemica nella conquista del fortino il generale lettone riunì tutta la cavalleria a disposizione lanciandola all’attacco e al sacrificio compresi i corpi d’élite dei chevaliers gardes e della cavalleria della guardia pur di coprire il grosso dell’esercito. L’assalto ebbe successo e di fatto segnò la fine della battaglia in quanto Napoleone rifiutò ancora l’invio della Vieille Garde per la riconquista del ridotto mentre gli ultimi fuochi si andavano spegnendo sugli altri fronti del campo.

   A quel punto Kutuzov ordinò la ritirata, i russi per la prima volta si trovarono in difficoltà nel loro campo migliore in quanto la retroguardia affidata ai cosacchi di Platov scarseggiava di disciplina e rischiava di compromettere l’ordine complessivo, il rapido invio Mihail Miloradovič risolse però brillantemente la situazione riorganizzando la schermaglia per arrestare i francesi e permettendo alle colonne di raggiungere con relativa tranquillità i sobborghi di Mosca.

   La battaglia era costata ai russi un numero spaventoso di perdine, fra Ševardino e Borodino erano caduti almeno 45-50.000 uomini (contro i circa 35.000 francesi), la seconda armata era praticamente distrutta, lo stato maggiore più che decimato (a titolo esemplificativo alla fine della giornata l’ufficiale di più alto grado rimasto nel reggimento Izmailovskij era un capitano e gli schermagliatori dello stesso erano comandati da un alfiere) eppure qualche cosa era cambiato. Napoleone aveva ottenuto la battaglia campale che tanto cercava ma questa non era stata per nulla risolutiva, anzi per la prima volta dopo due decenni l’invincibile macchina da guerra dell’armée imperial era stata fermata e per di più da un esercito apparentemente raffazzonata dove anche i corpi scelti avevano scarsa esperienza e dove coscritti e miliziani rappresentavano il grosso delle truppe. Ma forse proprio quella era la forza dell’esercito di Kutuzov, una forza che Napoleone non aveva saputo comprendere, la forza di un popolo che combatte per la propria terra e che per essa è pronto a sacrificare ogni cosa.

   La guerra sarebbe stata ancora lunga e i sacrifici a cui la Russia si troverà costretta se possibile ancor più dolorosi a cominciare dalla decisione di abbandonare Mosca al nemico presa il successivo 13 settembre. Ma Borodino rappresentava un punto di volta, l’inizio della parabola che avrebbe portato non solo alla cacciata dell’invasore francese dalla Russia ma nel corso degli anni successi della liberazione dell’Europa dalla follia bonapartista e al ritorno della pace sul continente. Obbiettivi che costeranno un incalcolabile prezzo in vite umane all’esercito e al popolo russo cui dovrebbe andare il sincero ringraziamento di tutti i popoli liberi del vecchio continente.

  Il sangue dei caduti di Borodino si sarebbe rivelato il seme della nuova libertà dell’Europa.  

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