“Prepariamoci, tutto ciò mi puzza di faccende molto più gravi. E soprattutto sento odore della tirannide di Ippia. Ho paura che certi Spartani, convenuti in casa di Clistene, aizzino queste donne nemiche degli Dei a prendersi i nostri soldi, il salario che è la mia vita” protesta il coro dei vecchi nella “Lisistrata” aristofanesca (614-625). Una protesta non casuale e che lungi dal risolversi in una facile battuta testimonia il fondo di cupa incertezza che aleggia sulla commedia.
Andata in scena alle Dionisie del 411 (dal 7 all’11 aprile secondo il calcolo di Merritt) “Lisistrata” è infatti la testimonianza più eloquente del clima di complotto che si respirava ad Atene in quei giorni. Se da un lato risente del clima di tensione conseguente allo scandalo delle erme del 415 dall’altro – e in modo ancor più significativo – prevede e quasi accompagna il colpo di stato oligarchico già in corso in quei giorni ed esploso del maggio dello stesso anno. Sotto i toni della parodia dell’allarmismo democratico “Tutto questo, cittadini, è una trama per la tirannide. Ma non ce la faranno! Starò in guardia. Porterò la spada in un ramo di mirto, starò in armi, vicino alla statua di Aristogitone” (626-635) e dell’assurda vicenda del colpo di stato delle donne – il non-soggetto per antonomasia insieme agli schiavi della democrazia ateniese – Aristofane nasconde l’allarme per la situazione politica in corso.
Ritornando al tema del salario questo non è assolutamente casuale né si riduce ad una semplice parodia dell’avidità dei vecchi ma viene a toccare un punto chiave del dibattito politico di quel momento e uno dei punti programmatici fondamentali della congiura oligarchica: l’abrogazione del salario (Μισθός) per le cariche pubbliche. Nei presi precedenti il colpo di stato il tema era già stato fatto circolare dalle eterie (come ricorda Tucidide VIII 63,3) e rappresentava uno degli strumenti più forti di pressione sul demo già colpito dagli omicidi politici e dal sempre più aggressivo atteggiamento dei gruppi oligarchici nelle assemblee.
L’abolizione del salario significa infliggere il colpo mortale alla democrazia in quanto si tradurrebbe in un’interdizione da qualunque impegno pubblico di tutti coloro che non sono in grado di mantenersi senza dover lavorare. E’ il sogno di chiunque voglia limitare la distribuzione del potere e ridurre – se non totalmente eliminare – la funzione regolatrice della politica nei confronti dell’eccessiva concentrazione di potere delle élites economiche nei confronti delle masse subalterne lasciandole libera di concentrare nelle stesse mani tanto entrambi i poteri. In tal senso non era in errore la retorica democratica che identificava l’oligarchia con la tirannide anche se i due fenomeni nel mondo greco sono completamente distinti.
Il provvedimento fu tra i primi ad essere attuato dopo il colpo di stato e la reintroduzione del salario rappresentò il pieno ritorno alla democrazia dopo il rapido tracollo dei Quattrocento – travolti dalla reazione democratica della flotta di Samo e dalla loro ingenua fiducia nell’aiuto spartano – e la fase di transizione rappresentata dal governo dei Cinquemila a guida dei moderati teramaniani.
Il tema dell’eliminazione del salario tornò in auge nel 404 quanto venne semplicemente imposto dal nuovo governo oligarchico – quello dei Trenta – per il quale non era neppur più necessaria la propaganda preliminare dei congiurati del 411 in quanto sufficiente risultava l’appoggio delle armi spartane.
Qualcuno dei lettori potrebbe chiedersi come mai tornare su una tematica apparentemente così legata alle peculiarità della democrazia ateniese del V secolo a.C. In realtà mi sembra che il tema stia tornando di preoccupante attualità e in forme neppur troppo diverse da quelle che accompagnarono i tentativi di rivoluzione oligarchica sopra ricordati. Basta navigare a caso in rete per incontrare messaggi dal tenore decisamente inquietante, almeno per chi non è totalmente digiuno di nozioni storico politiche.
Tra le componenti più apertamente demagogiche si incontra sempre più di frequente la richiesta di abrogare qualunque forma di retribuzione per le cariche pubbliche sostituita da un vagheggiato “volontariato politico” presentato come soluzione ai problemi di corruzione ed eccesso di spesa che caratterizzano oggi la politica italiana. La giustificazione moralizzante non è nuova e si ritrova anzi proprio nella ricordata propaganda che accompagno il colpo di stato del 411 nel nome di un ritorno ad un’originaria purezza che la venalità della democrazia periclea aveva compromesso.
Una sostanziale differenza sembra essere nella natura dei movimenti proponitrici, che oggi cercano di presentarsi in forme iper-democratiche se non apertamente pauperistiche in contrario contro la presenta oligarchia rappresentata dalle classi politiche esistenti. Anche a questo riguardo vanno però notati due elementi che smascherano sostanzialmente il gioco.
Il primo luogo anche le ideologie oligarchiche antiche non mancavano di tratti progressisti, in alcuni casi assolutamente rivoluzionari rispetto al modello presente.
L’attacco alla polis democratica è spesso condotto proprio sul terreno dei diritti individuali, acquisendo quella forma che è stata definita da Luciano Canfora “egualitarismo antidemocratico”. Sul piano teorico non possono passare inosservate di Antifonte uno dei maggiori leader dei Quattrocento. I frammenti conservati del suo trattato “Sulla verità” presentano il più spregiudicato atto di accusa contro il modello schiavistico e contro l’ideologia xenofoba della città greca che il mondo antico ci abbia tramandato: “Noi rispettiamo e veneriamo ciò che è di nobile origine, ma chi è di natali oscuri lo respingiamo, e ci comportiamo gli uni verso gli altri come barbari, poiché siamo di natura assolutamente uguale, sia Greci che barbari. Basti osservare le necessità naturali di tutti gli uomini. Nessuno di noi può essere definito né come greco né come barbaro. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici” (VS, 87 B44 fr. B). E dallo stesso ambiente Alcidamente, lo scolaro di Gorgia proclamerà senza mezzi termini: “La divinità ci ha fatto tutti liberi, nessuno schiavo la Natura ha generato” (Commoentaria in Aristotelem Graeca, XII.2).
Le esperienze egualitarie dei futuri oligarchi non si limitavano però alla sola speculazione teorica spostandosi in alcuni casi sull’esercizio pratico. E’ il caso di Aminia – uno dei Quattrocento – che durante un periodo di esilio si pose a capo delle insurrezioni dei penesti – gli iloti tessali – come ricorda Aristofane ne “Le Vespe” e negli anni successivi la stessa esperienza sarà ripetuta da Crizia per cui la lotta anti-schiavile in Tessaglia sarà il punto di maturazione politica saldandosi con l’ostilità famigliare verso la democrazia proprio nel nome della condanna della natura escludente di quest’ultima.
Gli esempi citati esemplificano la possibile presenza di tendenze progressiste nei fautori di regimi oligarchici autoritari, componente che va tenuto conta anche nelle attuali campagne demagogiche dove la maggior differenza sta nel livello della riflessione politica che oggi si riduce sostanzialmente a becera demagogia lontanissima dell’alto livello di teoresi politica degli antichi.
L’altro aspetto da considerare è la natura sociale dei propugnatori di queste radicali riforme. Oggi come allora i sostenitori della volontarietà dell’azione politica sono in genere personaggi estremamente ricchi, per i quali la politica non ha nessun valore di ascensore sociale ma serve solamente a cristallizzare le proprie posizioni di privilegio.
I tentativi oligarchici furono rapidamente assorbiti dal radicato spirito democratico degli ateniesi del V secolo. Quell’allarmismo democratico cui bonariamente irride Aristofane servì a far scattare immediata la reazione, prima nel 411 a.C. con l’ammutinamento della flotta di Samo e l’istituzione di un governo democratico e in esilio e poi nel 403 con l’organizzazione della resistenza democratica intorno a Trasibulo. Quello che preoccupa oggi – e che segna la maggior differenza rispetto ai casi antichi – è l’impressione di una passività delle masse, di una sfiducia diffusa nella democrazia che potrebbe fare il gioco degli aspiranti oligarchi anche se individualmente più che epigoni appaiono penose caricature di figure grandiose nella loro fosca tragicità come Frinico e Crizia.
Le crisi della democrazia vissute da Atene in quello scorcio di tempo mantengono la loro natura di modelli di riferimento per comprendere molto dell’attuale politica italiana, anche in questo caso i nostri antenati ci indicano come leggere la realtà in cui ci troviamo, sta solo a noi essere capaci di ascoltarli e di meditare sul loro insegnamento.