Chiude in sordina la stagione 2011-12 del Teatro Regio di Torino, con uno spettacolo nell’insieme godibile ma sostanzialmente privo di particolari colpi d’ala.
Le considerazioni successive sono relative alla prova generale dello spettacolo quindi potrebbero esserci varianti rispetto a quanto andrà effettivamente in scena anche se l’impressione è che il taglio generale non possa subire modifiche di rilievo.
All’interno della politica di contenimento dei costi attuata riprendendo produzioni già realizzate dal teatro è stato il turno di “Un ballo in maschera”, purtroppo in questo caso la produzione firmata da Lorenzo Mariani (regia), Maurizio Balò (scene) e Maurizio Millenotti (costumi) non è certo fra quelle che lasciano un segno indelebile ne che si desidera di norma veder riprese.
Molto infelice sul piano visivo l’impianto scenico. A lasciare perplessi non è tanto lo spostamento spazio-temporale della vicenda dalla Boston del finire del secolo XVII ad una corte europea negli anni a cavallo del primo conflitto mondiale quanto proprio la sciatteria di fondo delle singole scene. Se già risulta poco piacevole la sala del trono che apre l’opera tutta giocata su contrapposizioni bianco-nero e con i grandi finestroni sghembi ancor peggio risultano i quadri seguenti. L’antro di Ulrica una sorta di casa abbandonata con le pareti coperte di iscrizioni magiche e sulla volta una sorta di proiettore cinematografico di cui si riconosce una funzione pratica – creare effetti di luce rossa cangiante – ma che sarebbe stato opportuno rendere meno evidente alla visione. L’orrido campo letteralmente intasato di patiboli di ogni grandezza e dimensioni – tutti ovviamente sghembi – e forse ancor peggio l’inizio della festa con un grande lampadario inclinato (neanche a dirlo) innalzato durante il “Si rivederti Amelia” (con non poco fastidio) e seguito da un’esplosione di stelle filante rosse più adatte ad un capodanno di provincia che ad una festa di corte. A complicare ulteriormente le cose venivano gli attrezzi di scena non solo risultavano di rara bruttezza in se – inguardabile il grande letto nuziale nella prima scena del III atto che a seguito dell’alterco fra Renato e Amelia è stato totalmente sfondato tanto da avere la testiera inferiore divelta – ma creavano diversi problemi ai cantanti costretti a cantare in situazioni ridicole se non decisamente pericolose: Riccardo semisdraiato su un carrello porta-vivande o ancor peggio Ulrica costretta a rotolare un su piano inclinato.
I costumi in se sarebbero stati più godibili ma purtroppo alcune scelte registiche creavano effetti di comico involontario: Amelia che si reca all’orrido campo in abito da gran sera con tanto di mantello di seta, collana di perle ad ampi cerchi e diadema di diamanti non risultava molto credibile. A se i costumi finto-settecenteschi della festa, veramente mal riusciti dal punto di vista estetico specie quello di Amelia una sorta di Astrifiammante colpita da un fulmine, a mezza strada fra Mozart ela WarnerBros.Per il resto la regia proseguiva di conseguenza, seguendo in modo sostanzialmente comprensibile la vicenda ma anche introducendo elementi di distrazione non giustificati e calcando troppo la mano sul tasto di una violenza platealmente esibita – gli sputi dei congiurati contro Amelia nel finale II, le percosse di cui è fatto vittima Renato nel III atto – in totale contrasto con l’aristocratica atmosfera dell’opera.
La parte musicale era nell’insieme più interessante anche se non esente da critiche. La direzione di Renato Palumbo appariva ondivaga nelle soluzioni ed è probabile che sia l’ambito in cui siano possibili maggiori aggiustamenti di impostazione. Per quanto ascoltato si alternavano momenti di ottima cantabilità – molto belli il preludio al I atto e il coro introduttivo – ad altri in cui tendeva a farsi prendere eccessivamente la mano alzando troppo il volume del suono e scadendo spesso in effetti bandistici. Probabilmente dovuti alla natura di prova anche i problemi riscontrati su alcuni attacchi e gli scollamenti fra buca e palcoscenico che si sono avvertiti, specie da parte del coro, apparso sotto tono rispetto agli standard abituali.
Sul piano vocale l’attenzione era rivolta principalmente su Gregory Kunde, il tenore americano ormai punto di riferimento per il repertorio neoclassico e rossiniano alle prese con il primo vero cimento verdiano, non potendosi considerare tale – a meno a giudizio dello scrivente – l’Arrigo de “I vespri siciliani” affrontato lo scorso anno sempre a Torino in quando ruolo sostanzialmente atipico rispetto alla vocalità verdiana e ancora legato a quei moduli del Grand’Opera francese di matrice meybeeriana risalenti in ultima analisi alla vocalità del Rossini serio e quindi sicuramente più abituale per l’impostazione di Kunde. Il suo Riccardo convince a metà; si apprezzano la pienezza della voce e lo squillo del settore acuto, l’intelligenza dell’interprete sempre attento alle esigenze espressive del personaggio e le buone doti di attore. Ma allo stesso tempo va segnalata una sostanziale estraneità al senso della frase verdiana, aggravata dalle differenze esistenti fra i vari registri vocali evidenziate dalla scrittura melodica della frase verdiana. Inoltre la parte di Riccardo si articola spesso nel settore medio-grave della voce dove Kunde è apparso meno sicuro come si percepiva chiaramente dalle discese della ballata del marinaio spesso risultanti prime di suono e al limite della spoggiatura. Cercando di concludere ne risulta una prestazione interessante e non scevra di elementi positivi ma che deve essere maturata e forse ri-valutata in una prospettiva futura.
Considerazioni in parte simili anche per il Renato di Gabriele Viviani, autore di una prestazione in parte contraddittoria. Il baritono aveva lasciato un ottimo ricordo nel pubblico torinese dopo il suo Dottor Malatesta nel “Don Pasquale”; ritrovarlo dopo qualche anno alle prese con un ruolo così diverso suscitava innegabilmente curiosità. Nell’insieme la prova di Viviani è stata positiva, il giovane baritono mostra di possedere un’ottima tecnica e un buon materiale vocale. La linea di canto è curata e l’accento vario e curato – nonostante il taglio decisamente truce dato al personaggio dalla regia. Di contro però si notano ancora una certa leggerezza della voce e l’assenza di un colore propriamente drammatico quale quello richiesto dai grandi ruoli verdiani. Sicuramente questo repertorio potrà essere nelle corde di Viviani – a differenza di quanto pare pronosticabile per Kunde – ma risulta ancora necessaria una maturazione della voce.
Sostanzialmente insufficiente invece la prova di Oksana Dyka come Amelia. L’ancor giovane cantante ucraina dispone di un materiale interessante, una voce naturalmente drammatica e una credibile presenza scenica ma i gravi limiti tecnici ne inficiano totalmente le possibilità. L’emissione è sempre forzata con frequenti sconfinamenti nell’urlo, l’agogica limitata al forte-fortissimo con evidenti difficoltà di modulazione negli altri ambiti della gamma. Il fraseggio è di sconfortante piattezza aggravato da evidenti problemi di pronuncia ormai non più spiegabili per un’artista stabilmente attiva in Italia e l’attrice praticamente inesistente (anche se al riguardo le stranezze registiche non erano certo di aiuto).
Pietra di paragone perla Dykaè l’Oscar di Serena Gamberoni che ancora una volta si conferma come attuale riferimento in questo ruolo sulla scena non solo italiana.La Gamberonisfoggia un bellissimo timbro di naturale luminosità in cui si nota l’evoluzione dell’originaria natura di lirico-leggero verso una vocalità di taglio prettamente lirico; l’emissione è sempre perfettamente controllata e i registri pienamente omogenei in tutta la gamba ma soprattutto all’ottima cantante si affianca un’interprete scatenata tanto sul piano vocale, non un accento o un’intenzione sono trascurati, tanto su quello scenico con passaggi di autentico virtuosismo anche atletico come la spettacolare ruota con cui entra alla festa.
Marianne Cornetti (Ulrica) dispone sempre di un ragguardevole materiale vocale ma la lunga carriera comincia a lasciare i segni specie nell’omogeneità della gamma, certo le posizioni instabili in cui la regia la costringeva a cantare non l’aiutavano certo al riguardo.
Buone le parti di fianco: Marco Camastra (Silvano), Antonio Barbagallo (Samuel), Gabriele Sagona (Tom), Dario Prola (Un servo d’Amelio) e una nota di riguardo per il Primo Giudice di Luca Casalin che sfoggia ancora una volta una voce tenorile di bel colore e di ragguardevole squillo.