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Archive for giugno 2012

    Chiude in sordina la stagione 2011-12 del Teatro Regio di Torino, con uno spettacolo nell’insieme godibile ma sostanzialmente privo di particolari colpi d’ala.

   Le considerazioni successive sono relative alla prova generale dello spettacolo quindi potrebbero esserci varianti rispetto a quanto andrà effettivamente in scena anche se l’impressione è che il taglio generale non possa subire modifiche di rilievo.

  All’interno della politica di contenimento dei costi attuata riprendendo produzioni già realizzate dal teatro è stato il turno di “Un ballo in maschera”, purtroppo in questo caso la produzione firmata da Lorenzo Mariani (regia), Maurizio Balò (scene) e Maurizio Millenotti (costumi) non è certo fra quelle che lasciano un segno indelebile ne che si desidera di norma veder riprese.

  Molto infelice sul piano visivo l’impianto scenico. A lasciare perplessi non è tanto lo spostamento spazio-temporale della vicenda dalla Boston del finire del secolo XVII ad una corte europea negli anni a cavallo del primo conflitto mondiale quanto proprio la sciatteria di fondo delle singole scene. Se già risulta poco piacevole la sala del trono che apre l’opera tutta giocata su contrapposizioni bianco-nero e con i grandi finestroni sghembi ancor peggio risultano i quadri seguenti. L’antro di Ulrica una sorta di casa abbandonata con le pareti coperte di iscrizioni magiche e sulla volta una sorta di proiettore cinematografico di cui si riconosce una funzione pratica – creare effetti di luce rossa cangiante – ma che sarebbe stato opportuno rendere meno evidente alla visione. L’orrido campo letteralmente intasato di patiboli di ogni grandezza e dimensioni – tutti ovviamente sghembi – e forse ancor peggio l’inizio della festa con un grande lampadario inclinato (neanche a dirlo) innalzato durante il “Si rivederti Amelia” (con non poco fastidio) e seguito da un’esplosione di stelle filante rosse più adatte ad un capodanno di provincia che ad una festa di corte. A complicare ulteriormente le cose venivano gli attrezzi di scena non solo risultavano di rara bruttezza in se – inguardabile il grande letto nuziale nella prima scena del III atto che a seguito dell’alterco fra Renato e Amelia è stato totalmente sfondato tanto da avere la testiera inferiore divelta – ma creavano diversi problemi ai cantanti costretti a cantare in situazioni ridicole se non decisamente pericolose: Riccardo semisdraiato su un carrello porta-vivande o ancor peggio Ulrica costretta a rotolare un su piano inclinato.

   I costumi in se sarebbero stati più godibili ma purtroppo alcune scelte registiche creavano effetti di comico involontario: Amelia che si reca all’orrido campo in abito da gran sera con tanto di mantello di seta, collana di perle ad ampi cerchi e diadema di diamanti non risultava molto credibile. A se i costumi finto-settecenteschi della festa, veramente mal riusciti dal punto di vista estetico specie quello di Amelia una sorta di Astrifiammante colpita da un fulmine, a mezza strada fra Mozart ela WarnerBros.Per il resto la regia proseguiva di conseguenza, seguendo in modo sostanzialmente comprensibile la vicenda ma anche introducendo elementi di distrazione non giustificati e calcando troppo la mano sul tasto di una violenza platealmente esibita – gli sputi dei congiurati contro Amelia nel finale II, le percosse di cui è fatto vittima Renato nel III atto – in totale contrasto con l’aristocratica atmosfera dell’opera.

   La parte musicale era nell’insieme più interessante anche se non esente da critiche. La direzione di Renato Palumbo appariva ondivaga nelle soluzioni ed è probabile che sia l’ambito in cui siano possibili maggiori aggiustamenti di impostazione. Per quanto ascoltato si alternavano momenti di ottima cantabilità – molto belli il preludio al I atto e il coro introduttivo – ad altri in cui tendeva a farsi prendere eccessivamente la mano alzando troppo il volume del suono e scadendo spesso in effetti bandistici. Probabilmente dovuti alla natura di prova anche i problemi riscontrati su alcuni attacchi e gli scollamenti fra buca e palcoscenico che si sono avvertiti, specie da parte del coro, apparso sotto tono rispetto agli standard abituali.

  Sul piano vocale l’attenzione era rivolta principalmente su Gregory Kunde, il tenore americano ormai punto di riferimento per il repertorio neoclassico e rossiniano alle prese con il primo vero cimento verdiano, non potendosi considerare tale – a meno a giudizio dello scrivente – l’Arrigo de “I vespri siciliani” affrontato lo scorso anno sempre a Torino in quando ruolo sostanzialmente atipico rispetto alla vocalità verdiana e ancora legato a quei moduli del Grand’Opera francese di matrice meybeeriana risalenti in ultima analisi alla vocalità del Rossini serio e quindi sicuramente più abituale per l’impostazione di Kunde. Il suo Riccardo convince a metà; si apprezzano la pienezza della voce e lo squillo del settore acuto, l’intelligenza dell’interprete sempre attento alle esigenze espressive del personaggio e le buone doti di attore. Ma allo stesso tempo va segnalata una sostanziale estraneità al senso della frase verdiana, aggravata dalle differenze esistenti fra i vari registri vocali evidenziate dalla scrittura melodica della frase verdiana. Inoltre la parte di Riccardo si articola spesso nel settore medio-grave della voce dove Kunde è apparso meno sicuro come si percepiva chiaramente dalle discese della ballata del marinaio spesso risultanti prime di suono e al limite della spoggiatura. Cercando di concludere ne risulta una prestazione interessante e non scevra di elementi positivi ma che deve essere maturata e forse ri-valutata in una prospettiva futura. 

   Considerazioni in parte simili anche per il Renato di Gabriele Viviani, autore di una prestazione in parte contraddittoria. Il baritono aveva lasciato un ottimo ricordo nel pubblico torinese dopo il suo Dottor Malatesta nel “Don Pasquale”; ritrovarlo dopo qualche anno alle prese con un ruolo così diverso suscitava innegabilmente curiosità. Nell’insieme la prova di Viviani è stata positiva, il giovane baritono mostra di possedere un’ottima tecnica e un buon materiale vocale. La linea di canto è curata e l’accento vario e curato – nonostante il taglio decisamente truce dato al personaggio dalla regia. Di contro però si notano ancora una certa leggerezza della voce e l’assenza di un colore propriamente drammatico quale quello richiesto dai grandi ruoli verdiani. Sicuramente questo repertorio potrà essere nelle corde di Viviani – a differenza di quanto pare pronosticabile per Kunde – ma risulta ancora necessaria una maturazione della voce.

  Sostanzialmente insufficiente invece la prova di Oksana Dyka come Amelia. L’ancor giovane cantante ucraina dispone di un materiale interessante, una voce naturalmente drammatica e una credibile presenza scenica ma i gravi limiti tecnici ne inficiano totalmente le possibilità. L’emissione è sempre forzata con frequenti sconfinamenti nell’urlo, l’agogica limitata al forte-fortissimo con evidenti difficoltà di modulazione negli altri ambiti della gamma. Il fraseggio è di sconfortante piattezza aggravato da evidenti problemi di pronuncia ormai non più spiegabili per un’artista stabilmente attiva in Italia e l’attrice praticamente inesistente (anche se al riguardo le stranezze registiche non erano certo di aiuto).

   Pietra di paragone perla Dykaè l’Oscar di Serena Gamberoni che ancora una volta si conferma come attuale riferimento in questo ruolo sulla scena non solo italiana.La Gamberonisfoggia un bellissimo timbro di naturale luminosità in cui si nota l’evoluzione dell’originaria natura di lirico-leggero verso una vocalità di taglio prettamente lirico; l’emissione è sempre perfettamente controllata e i registri pienamente omogenei in tutta la gamba ma soprattutto all’ottima cantante si affianca un’interprete scatenata tanto sul piano vocale, non un accento o un’intenzione sono trascurati, tanto su quello scenico con passaggi di autentico virtuosismo anche atletico come la spettacolare ruota con cui entra alla festa.

   Marianne Cornetti (Ulrica) dispone sempre di un ragguardevole materiale vocale ma la lunga carriera comincia a lasciare i segni specie nell’omogeneità della gamma, certo le posizioni instabili in cui la regia la costringeva a cantare non l’aiutavano certo al riguardo.

   Buone le parti di fianco: Marco Camastra (Silvano), Antonio Barbagallo (Samuel), Gabriele Sagona (Tom), Dario Prola (Un servo d’Amelio) e una nota di riguardo per il Primo Giudice di Luca Casalin che sfoggia ancora una volta una voce tenorile di bel colore e di ragguardevole squillo. 

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  La produzione televisiva di “La cenerentola” rossiniana realizzata da RAI UNO a Torino e nelle regge suburbane della capitale subalpina con spreco di risorse poteva rivelarsi una buona occasione per far conoscere al grande pubblico l’opera lirica in uno dei suoi titoli più perfetti tanto sul piano musicale tanto su quello drammaturgico. L’operazione si è invece rivelata un sostanziale fallimento per via di scriteriate scelte esecutive capaci di tarpare qualunque velleità artistica anche a prescindere dai non pochi problemi riscontrabili sul piano musicale.

   Tagliare “La cenerentola” è già un piccolo crimine di per se essendo l’opera un assoluto capolavoro di equilibrio formale tanto che alla richiesta di ogni espunzione verrebbe da ripetere la celebre frase di Mozart all’Imperatore Giuseppe II in relazione a “Le nozze di Figaro” (“Troppe note caro Mozart, troppe note….” “…solo quelle necessarie Vostra Maestà”), se la trasposizione televisiva poteva rendere necessario qualche sforbiciamento quello cui si è assistito è stato però un autentico sfregio che ha totalmente snaturato il volto dell’opera. Per quanto infondata la vulgata sulla noiosità dei recitativi è dura a morire e qualche taglio pareva inevitabile nel passaggio di linguaggio – anche se quelli di “La cenerentola” sono un autentico fuoco di artificio di trovate comiche geniali. Questo alleggerimento non doveva giungere a sconvolgere l’equilibrio fra arie e recitativi su cui si regge l’opera italiana del primo Ottocento. La scelta di eliminare quasi totalmente la parte recitativa ha inevitabilmente ridotto anche l’efficacia dei brani cantati, ridotti ad una sorta di selezione da concerto magari apprezzabile sul piano meramente musicale ma incapace di trasmettere emozioni.

  Tagli che non solo fanno soffrire per la scomparsa di momenti di rara ispirazione in cui il recitativo stesso diventa terreno di virtuosismo quanto è forse più di un’aria (su tutti ilOr dunque seguitando quel discorso “ di Dandini) ma compromettevano totalmente la possibilità di seguire la vicenda che – a chi non conoscesse bene l’opera – risultava totalmente incomprensibile. Gli esempi si potrebbero sprecare, fra gli altri:

–         il recitativo di Ramiro nel I atto (“Fortunato consiglio!”) in cui si spiega il gioco del travestimento di Dandini senza il quale la vicenda perde uno dei suoi tratti essenziali.

–         Il recitativo di Alidoro (“Grazie, vezzi, beltà scontrar potrai”) con il disvelamento del mendicante della prima scena nel precettore reale. Far comparire Alidoro direttamente come tale attaccando ex-abrupto “La nel ciel” vuol dire impedire al pubblico di capire chi fosse il mendicante visto precedentemente ridotto ad una figura di contorno totalmente avulsa dal contesto.

–         Il taglio dell’intera scena della smaniglio sostituito con la fuga di Cenerentola e la perdita della scarpetta reintrodotta al posto del bracciale previsto dal libretto.

–         Forse più grave di tutti il taglio praticamente completa di tutta la scena fra il temporale e l’attacco di “Questo è un nodo avviluppato” ovvero tutto il reciproco riconoscimento fra Ramiro e Cenerentola con lo scioglimento di tutti i fili della vicenda senza il quale la storia diventa totalmente incomprensibile (salvo ipotizzare ad Angiolina doti premonitrici degne di Nostradamus nell’individuare la vera natura di tutti i personaggi e prevederne tutte le azioni)

  I tagli non si sono però limitati ai soli recitativi e hanno pesantemente interessato anche la parte musicale con la totale soppressione di due dei momenti più attesi dell’opera come l’aria di Don Magnifico “Sia qualunque delle figlie” e soprattutto il duetto “Un segreto d’importanza”(oltretutto snodo fondamentale della vicenda) oltre a micro tagli e aggiustamenti all’interno dei singoli numeri.

  Ai tagli devastanti si sommavano aggiunte se possibile ancor più incomprensibili come quella di un balletto tanto per scimmiottar Walt Disney (nell’occasione fanfare e uno dei numeri del balletto di “Armida” che riutilizzando temi comuni permetteva una ripresa della cabaletta di Alidoro priva di qualunque senso) oppure certe code orchestrali di ignota provenienza. Il tutto con l’approvazione nientemeno che di Philipp Gossett che per avvallare una simile operazione di denari deve averne presi ben più dei trenta di evangelica memoria.

  Una base di questo tempo affonderebbe qualunque esecuzione, ma come se questo non bastasse l’asse regia-direzione contribuiva a dare il colpo di grazia all’insieme. Per cominciare l’idea di spezzare in due il primo atto inserendovi due ore di pausa e un film sulla II guerra mondiale nel mezzo non è stata forse un’idea geniale per tenere l’attenzione degli spettatori tanto più che già lo spettacolo in se non era molto appassionante.

   Parlare di regia per il lavoro fatto da Carlo Verdone è termine decisamente eccessivo. Nessuno chiedeva all’attore romano colpi d’ala e letture particolarmente stimolanti, obbiettivi sempre difficili da raggiungere e particolarmente rischiosi (in questo repertorio l’unico ad esserci riuscito in pieno è stato forse Jean Pierre Ponnelle) ma almeno si sperava che sapesse fare quello che è il compito principale del regista d’opera, realizzare le indicazioni del libretto del modo più chiaro e coinvolgente possibile. Invece nulla di tutto questo e diventa difficile definire regia un semplice entra ed esci dalle porte quando mancavano persino i movimenti essenziali per la funzionalità narrativa di certi passaggi (il “ti scanno qui” di Don Magnifico non detto in un orecchio a Cenerentola ma proferito placidamente seduto fra Ramiro e Dandini o Alidoro che ricorda “Io vi cercai la carità” non rivolgendosi alle sorellastre ma parlando da solo con gli alberi del bosco). E’ personalmente faccio fatica a definire idee di regia l’inguardabile trenino di sapore capodannesco che accompagnava il finale I o il pediluvio di Don Magnifico durante “Miei rampolli femminini”.

   Se le scenografie erano ovviamente splendide trattandosi della Venaria, di Stupinigi e del Palazzo Reale di Torino (per altro neppure sfruttate troppo bene in fase di ripresa) altrettanto non può dirsi dei costumi dal sapore di recita parrocchiale, forse accettabili in teatro – a parte quello orrendo con cui Cenerentola si presenta alla festa, un mix frala FataTurchinadi Pinocchio e Snegurocka – ma assolutamente inadatti alla ripresa televisiva dove i primi piani esplicitavano in modo fin tropo evidente la scarsa qualità del’insieme. Ma il pressapochismo è stato il segno di tutta l’operazione: dalla finta trasmissione in diretta (peccato chela Belkinavada totalmente fuori tempo nel finale I compiendo il “miracolo” di cantare a bocca chiusa) alle torte di cartone sulla tavola del Principe, decisamente poco invitanti; dal manuale di Epittetto sfoggiato da Alidoro con titolo in greco ovviamente sbagliato al cartoon con i fuochi artificiali su una Torino settecentesca dominata dalla sagoma della Mole Antonelliana (la cui costruzione iniziò nel 1869).

  La parte musicale poteva far ben poco per rialzare le sorti di un tale pasticcio tanto più che la direzione di Gelmetti affossava decisamente qualunque speranza di ripresa con tempi catatonici alternati ad esplosioni di sapore bandistico nel senso peggiore del termine. Del cast l’unico adeguato al compito risultava il Don Magnifico di Carlo Lepore subentrato in extremis al posto dell’infortunato Ruggero Raimondi. Pur penalizzato da una resa acustica alquanto modesta (come ormai è prassi per i prodotti RAI) sfoggiava almeno una buona linea di canto anche se l’approccio bonario e sostanzialmente simpatico falsava totalmente la natura del personaggio. Don Magnifico è forse il personaggio più odioso di tutto il teatro rossiniano, un misto di grettezza e sadismo nemmeno nobilitate dall’eroismo tragico di certi grandi malvagi dell’opera seria (dall’Antenore di “Zelmira” all’Assur di “Semiramide”) tutti tratti assenti dalla lettura troppo bonaria di Lepore.

   Lorenzo Regazzo (Alidoro) dispone di una buona voce di basso, di colore piacevole e di buona tecnica e vocalmente realizza una prova accettabile (a parte di due pericolose scivolate nel terzetto iniziale e all’attacco di “La nel ciel”) ma è assolutamente inguardabile nel suo imitare – male – certe interpretazioni di Montarsolo.

  Simone Albergini canta in modo molto personale – personalmente non l’ho mai amato molto – e in tal contesto è pure tarpato della personalità scenica. Buonala Tisbedi Annunziata Vestri e comunque soddisfacentela Clorindadi Anna Kasyan nonostante evidenti fissità nel settore acuto.

   Per la coppia protagonista ci si è affidati a due giovanissimi con tutti i rischi del caso. Il tenore uruguagio Edgardo Rocha ha un bel timbro e una buona linea di canto ma la voce è molto leggere è manca totalmente dello slancio che Don Ramiro dovrebbe avere in numerosi punti.  Angelina era Lena Belkina giovanissima ucraina di origini uzbeke. Ragazza interessante dotata di un buon materiale vocale ma ancora bisognosa di crescere. A parte qualche problema di intonazione – ma il contesto al riguardo non aiutava – è emersa una sostanziale immaturità aggravata dall’impressione che sia stata totalmente abbandonata a se stessa da regista e direttore quando proprio per l’ovvia inesperienza avrebbe dovuto esser seguita ad ogni passo. Trattandosi di un prodotto televisivo l’aspetto estetico ha sicuramente avuto la sua parte,la Belkina è abbastanza graziosa – anche se i tratti decisamente turanici sono un po’ impropri per una baronessa della campagna laziale – senza essere troppo appariscente, una giovinetta carina come in fondo ci si immagina Cenerentola.

  Tanto per cambiare la televisione italiana non ha perso occasione di gettare alle ortiche quella che poteva essere un’importante per far conoscere al grande pubblico uno dei vanti della cultura italiana. 

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