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Archive for settembre 2008

Della Tirannide

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
E, viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè gli scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il semplice prodotto della volontà dei più; la quale si viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti al ridurre in leggi la volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle, cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell’esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma nell’esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle.
Non solamente dunque è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o chi le fa, le eseguisce: ma è tirannide piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi è preposto all’eseguire le leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha create.
 
                                                                  Vittorio Alfieri "Della Tirannide" 1777

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   Ritorno su una tematica già affronta qualche tempo addietro, dopo aver presentato le fonti bibliche e    classica mi sembra giusto spendere qualche parola sulla storia degli studi sul tema.

   Elemento caratterizzante di questa storia è stato a lungo la volontà di far coincidere la documentazione biblica – e in parte quella tramandata da autori classici – con quanto l’archeologia veniva a scoprire, ovvero spazi cimiteriali contenenti sepolture a cremazione di infanti, e piegando i dati ad un’interpretazione preconcetta che sempre più veniva a sedimentarsi nell’immaginario collettivo anche al di fuori della cerchia degli studiosi in considerazione del successo di opera di narrativa che diffondevano questa visione del mondo punico a cominciare da “ Salambô” di Gustav Flaubert. Narrativa e letteratura di consumo – cui presto si affiancherà il cinema, si pensi solo a “Cabiria” di Pastrone –, hanno sicuramente contribuito a diffondere e sedimentare nella cultura collettiva concezioni dalle quali è stato molto difficile allontanarsi e che molto probabilmente hanno lasciato tracce anche sulla forma mentis di molti studiosi che in quanto uomini sono inevitabilmente figli del proprio tempo e permeabili – spesso inconsciamente – a suggestioni esterne.

   Un rapido sguardo a quanto scritto sull’argomento mostra chiaramente quanto i pregiudizi abbiano influito sull’interpretazione di queste tematiche portando a letture spesso fortemente ideologizzate della documentazione archeologica. Nel 1961 Gilbert e Colette Picard esprimevano nei confronti della religione punica un durissimo giudizio di condanna sul piano sia morale sia estetico: “Il disordine del tophet, la povertà delle offerte, la grossolanità dei cippi testimoniano, se mai ve n’era bisogno, dell’indifferenza estetica dei Cartaginesi, della loro insensibilità per le arti, alla quale si oppone l’atrocità del sacrificio; questo popolo penetrato da un sentimento della grandezza di Dio tale da abolire gli slanci più naturali, i più tipicamente umani…”[1].

Qualche anno dopo il giudizio di Donald Harden non è molto diverso: “il recinto dei sacrifici, il tophet, come lo possiamo chiamare dal nome dato nella Bibbia a quello che si trovava nella valle dei figli di Himmon presso Gerusalemme. Si sono trovati resti a Nora, a Tharros e a Mozia, come in alcune località dell’Africa settentrionale…ma il più importante di tutti è il recinto di Tanit a Salambô, a Cartagine. Fu qui che si trovarono prove definitive che le vecchie leggende di sacrifici di bambini a Moloch corrispondevano a realtà […] non vi sono dubbi, oggi, che l’esecrazione degli altri popoli per i Fenici, basata su usi di questo genere, fosse giustificata dai fatti”[2].

   Rispetto a Picard notiamo nello storico inglese un’impostazione ancor più preconcetta che tenta di far coincidere completamente la documentazione archeologica africana con i testi biblici senza porsi alcun problema relativo alle differenze storico-culturali fra i due ambiti e alla particolarità della documentazione biblica.

   Questa impostazione si radica profondamente nella percezione degli studiosi che nemmeno la pubblicazioni di analisi medico legali sul contenuto delle urne riesce a modificare sostanzialmente nonostante fosse ormai chiaro come la gran parte dei resti appartenessero a individui di età fetale o perinatali, per i quali appare quanto meno difficile ipotizzare forme di sacrificio[3].

   Ancora in tempi relativamente recenti questa idea del tophet  come luogo del sacrificio è stata riproposta da alcuni studiosi adducendo motivazione scarsamente sostenibili ma significative dimostrazioni di quanto certe concezioni sedimentare risultino difficili da superare. Si tratta in specie di Wolf secondo il quale i sacrifici erano uno strumento finalizzato al controllo delle nascite per evitare un eccessivo aumento della popolazione[4]. Per quanto ben argomentata la tesi mostra una sostanziale debolezza se si considerano gli elevatissimi tassi di mortalità infantile tipici del mondo antico. A riguardo si possono ricordare i dati ricavati da Févreie e Guéry in relazione alla necropoli di Setif (II-III d.C.)[5]: il 16% dei concepiti non arrivava alla nascita, il 30% non superava un anno di vita e solo il 20% arrivava all’età adulta. Di fronte a percentuali di questo tenore l’ipotesi del controllo delle nascite perde qualunque fondamento.

   Una decisa svolta negli studi si è avuto principalmente per merito di Sabatino Moscati, lo studioso italiano partito da una sostanziale condivisione delle tesi tradizionali[6] ha progressivamente modificato le proprie posizioni superando schemi preconcetti e procedendo su una lettura del dato archeologico in quanto tale. Frutto di questo attento studio è stata la prima revisione completa delle problematiche in cui appaiono pienamente i limiti dell’impostazione tradizionale e al contempo si apre la strada a nove possibilità di ricerca[7].

   Le intuizioni di Moscati sono state portante avanti degli studiosi successivi che definitivamente superata l’idea del tophet come spazio di sacrifici hanno cercato di approfondire l’ambigua natura di questi complessi all’interno di una logica che vede in queste aree sacre la testimonianza dell’”esistenza di una pietas particolare verso il mondo dell’infanzia e di una celebrazione religiosa ad esso connessa”[8] in relazione alla natura stessa del complesso cultuale, ad un tempo santuario e necropoli[9], luogo di morte e santuario di vita legato alle esigenze di una comunità che per continuare invoca il favore dei propri dei[10]; spazio di celebrazioni private riguardanti la fertilità e la continuità familiare ma anche area istituzionalizzata in senso collettivo e politico come parte essenziale dell’identità cittadina[11].

   Quella che viene definendosi è sempre più una realtà complessa, ancora sfuggente per molti aspetti anche essenziali, di certo molto diversa dal “luogo dell’arsione” di tradizione biblica. Come giustamente notato lo stesso termine tophet, legato ad una tradizione biblica ormai superata, appare non più adatto a descrivere la realtà che la ricerca viene a definire, migliori sarebbero altri termini come “santuario dei bambini”[12] o “santuario del campo d’urne”[13]


[1] PICARD 1961, pp. 43-44.

[2] HARDEN 1964, pp. 96-97.

[3] Per la storia delle ricerche medica, infra pp.

[4] WOLF 1984

[5] FÉVRIER 1980.

[6] MOSCATI 1972, p. 206.

[7] MOSCATI 1991, 1995.

[8] BERNARDINI 1996, p. 29.

[9] BERNARDINI 2005, p. 70.

[10] BERNARDINI 1995, p. 43.

[11] BERNARDINI 2005, p. 62.

[12] MOSCATI 1992.

[13] BERNARDINI 2005, p. 60.

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   L’esecuzione in forma di concerto di “La bohème”, spettacolo di chiusura dell’edizione 2008 delle Settimane musicali del Lago Maggiore presentava numerosi punti di interesse che non sono andati delusi. L’unione fra un direttore spesso alterno ma mai banale e sempre stimolante come Gianandrea Noseda ed un cast di giovani cantanti abbastanza estranei a questo repertorio – in gran parte di ascendenza mozartiana – ma sicuramente validi dal punto di vista musicale non poteva portare ad un’esecuzione scontata.

    spettano sicuramente alla direzione di Noseda alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino con la quale il direttore ha ormai raggiunto un’intesa perfetta. Il direttore realizzata un “bohème” asciutta, tesissima, senza nessuna concezione al facile sentimentalismo con cui troppo spesso si identifica l’apparente facile melodia pucciniana. Ne risultano una cura assoluta dei dettagli orchestrali – perfetti gli interventi delle trombe all’inizio del secondo atto, un gioco continuo e mutevole dei pesi sonori e soprattutto una precisa ricerca di ciò che rende la scrittura pucciano un precedente imprescindibile per la successiva evoluzione del novecento musicale. La mercuriale mobilità delle linee armoniche all’apertura dell’atto secondo; la granitica, implacabile marcia alla chiusura dello stesso atto di sapore quasi shostakoviano; l’espressionistico vuoto orchestrale alla morte di Mimì già premonitore degli incubi di Wozzeck, diventano le cifra caratterizzanti di una visione particolarissima e antitradizionale di Puccini il cui precedente va forse ricercato nelle straordinarie – e all’epoca totalmente incomprese – registrazioni di Leinsdorf.

   Pienamente in linea con l’ideale direttoriale di vedere in “bohème” un paradigma di modernità e quindi di gioventù il cast non poteva che essere composto di giovani cantanti, sostanzialmente coetanei dei personaggi rappresentati – l’età media degli interpreti aggirandosi intorno ai trent’anni – capaci di dare allo spettacolo una ventata di freschezza e spontaneità.

   Sul piano meramente vocale è emerso su tutti il Marcello di Fabio Capitanucci, voce ampia, timbratissima in tutta la gamma, interprete commosso e partecipe. Una prestazione da incorniciare. Degna compagna di questo Marcello la Musetta di Serena Gamberoni è stato l’altro punto di forza della compagnia. Debuttante nel ruolo il giovane soprano ha ritratto una Musetta ad un tempo civettuola e affettuosa, mai sopra le righe, in cui la purezza timbrica e la perfetta linea di canto sono sostenute da un gioco attoriale di qualità non comune.

   Piacevolissima conferma dopo il Fenicio pesarese Nicola Ulivieri è stato un Colline superiore alle aspettative. La voce non è enorme e a tratti si nota una certa difficoltà a confrontarsi con il peso dell’orchestra pucciniana che nella piccola sala emergeva in tutta la sua imponenza. Viene comunque a capo con sicurezza delle difficoltà e quando il peso orchestrale diminuisce fa pienamente valore le sue qualità – eleganza, pulizia, gioco chiaroscurale – culminanti in una commossa “Vecchia zimmarra” di livello in vero notevole.

   Gli altri interpreti si pongono ad un livello medio inferiore ma comunque senza che questo comprometta il risultato complessivo. Tomislav Mužek (Rodolfo) è un tenore attivo principalmente nel repertorio mozartiano – lo scorso anno fu splendido Tito – alla prese con un repertorio che non gli è totalmente naturale. La voce è bella, squillante e sicura in acuto mentre maggiori problemi si notano nel settore grave dove alcune note risultano povere di suono. L’interprete è partecipe e appassionato ma si nota una certa difficoltà nel canto di conversazione – specie nel primo atto – dovuta ad ovvi limiti nell’articolazione della frase italiana. Conscio dei suoi limiti gioca bene le sue carte optando per la soluzione acuta del DO di “io t’amo”, e dopo un primo atto forse troppo guardingo si scioglie progressivamente dando il meglio di se  nei duetti con Mimì (III atto) e con Marcello (IV atto).

   Irina Lungu (Mimì) resta una cantante che faccio fatica a definire. La voce è certo piccola – ma questo poco conta Auditorium del Palazzo dei Congressi di Stresa – ma le qualità ci sono e si sentono. Bel timbro – anche se non ricchissimo di armonici -, ottima tecnica, dizione quasi perfetta, ottimo gusto interpretativo; se a questo si aggiunge una figura semplicemente ideale per Mimì – i lunghi capelli bruni, l’incarnato pallido, la figura diafana, mancano solo gli occhi azzurri per averne il ritratto personificato – ne potrebbe uscire un’interprete quasi ideale. Eppure qualcosa non torna, è come se mancasse qualcosa che magari non si riesce a definire ma di cui si sente la mancanza come una spezie di cui si nota il sapore ma che quando manca lascia più insipido il piatto. L’impressione – totalmente personale – è che alla Lungu manchi quella scintilla di innato talento che separo l’ottimo cantante dal vero artista e che lo studio e l’abnegazione non possono compensare totalmente.

  Massimiliano Gagliardo è uno Schaunard di debordante comunicativa ma con una eccessiva propensione a rifugiarsi nel parlato. Molto buone le parti di fianco: Matteo Peirone (Benoit/Alcindoro); Sabino Gaeta (Parpignol); Vladimir Jurlin (Un sergente); Alessandro Inzillo (Un doganiere), e come sempre esemplare la prova del coro del Regio diretto da Claudio Fenoglio.

  Come sempre a Stresa l’opera era eseguita in forma scenica con orchestra sul palco e cantanti lasciati liberi di muoversi in proscenio. Viste le notevoli doti attoriali di tutti gli interpreti il risultano è stato più convincente di tante regie che si vedono frequentemente in teatro.

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