Ritorno su una tematica già affronta qualche tempo addietro, dopo aver presentato le fonti bibliche e classica mi sembra giusto spendere qualche parola sulla storia degli studi sul tema.
Elemento caratterizzante di questa storia è stato a lungo la volontà di far coincidere la documentazione biblica – e in parte quella tramandata da autori classici – con quanto l’archeologia veniva a scoprire, ovvero spazi cimiteriali contenenti sepolture a cremazione di infanti, e piegando i dati ad un’interpretazione preconcetta che sempre più veniva a sedimentarsi nell’immaginario collettivo anche al di fuori della cerchia degli studiosi in considerazione del successo di opera di narrativa che diffondevano questa visione del mondo punico a cominciare da “ Salambô” di Gustav Flaubert. Narrativa e letteratura di consumo – cui presto si affiancherà il cinema, si pensi solo a “Cabiria” di Pastrone –, hanno sicuramente contribuito a diffondere e sedimentare nella cultura collettiva concezioni dalle quali è stato molto difficile allontanarsi e che molto probabilmente hanno lasciato tracce anche sulla forma mentis di molti studiosi che in quanto uomini sono inevitabilmente figli del proprio tempo e permeabili – spesso inconsciamente – a suggestioni esterne.
Un rapido sguardo a quanto scritto sull’argomento mostra chiaramente quanto i pregiudizi abbiano influito sull’interpretazione di queste tematiche portando a letture spesso fortemente ideologizzate della documentazione archeologica. Nel 1961 Gilbert e Colette Picard esprimevano nei confronti della religione punica un durissimo giudizio di condanna sul piano sia morale sia estetico: “Il disordine del tophet, la povertà delle offerte, la grossolanità dei cippi testimoniano, se mai ve n’era bisogno, dell’indifferenza estetica dei Cartaginesi, della loro insensibilità per le arti, alla quale si oppone l’atrocità del sacrificio; questo popolo penetrato da un sentimento della grandezza di Dio tale da abolire gli slanci più naturali, i più tipicamente umani…”[1].
Qualche anno dopo il giudizio di Donald Harden non è molto diverso: “il recinto dei sacrifici, il tophet, come lo possiamo chiamare dal nome dato nella Bibbia a quello che si trovava nella valle dei figli di Himmon presso Gerusalemme. Si sono trovati resti a Nora, a Tharros e a Mozia, come in alcune località dell’Africa settentrionale…ma il più importante di tutti è il recinto di Tanit a Salambô, a Cartagine. Fu qui che si trovarono prove definitive che le vecchie leggende di sacrifici di bambini a Moloch corrispondevano a realtà […] non vi sono dubbi, oggi, che l’esecrazione degli altri popoli per i Fenici, basata su usi di questo genere, fosse giustificata dai fatti”[2].
Rispetto a Picard notiamo nello storico inglese un’impostazione ancor più preconcetta che tenta di far coincidere completamente la documentazione archeologica africana con i testi biblici senza porsi alcun problema relativo alle differenze storico-culturali fra i due ambiti e alla particolarità della documentazione biblica.
Questa impostazione si radica profondamente nella percezione degli studiosi che nemmeno la pubblicazioni di analisi medico legali sul contenuto delle urne riesce a modificare sostanzialmente nonostante fosse ormai chiaro come la gran parte dei resti appartenessero a individui di età fetale o perinatali, per i quali appare quanto meno difficile ipotizzare forme di sacrificio[3].
Ancora in tempi relativamente recenti questa idea del tophet come luogo del sacrificio è stata riproposta da alcuni studiosi adducendo motivazione scarsamente sostenibili ma significative dimostrazioni di quanto certe concezioni sedimentare risultino difficili da superare. Si tratta in specie di Wolf secondo il quale i sacrifici erano uno strumento finalizzato al controllo delle nascite per evitare un eccessivo aumento della popolazione[4]. Per quanto ben argomentata la tesi mostra una sostanziale debolezza se si considerano gli elevatissimi tassi di mortalità infantile tipici del mondo antico. A riguardo si possono ricordare i dati ricavati da Févreie e Guéry in relazione alla necropoli di Setif (II-III d.C.)[5]: il 16% dei concepiti non arrivava alla nascita, il 30% non superava un anno di vita e solo il 20% arrivava all’età adulta. Di fronte a percentuali di questo tenore l’ipotesi del controllo delle nascite perde qualunque fondamento.
Una decisa svolta negli studi si è avuto principalmente per merito di Sabatino Moscati, lo studioso italiano partito da una sostanziale condivisione delle tesi tradizionali[6] ha progressivamente modificato le proprie posizioni superando schemi preconcetti e procedendo su una lettura del dato archeologico in quanto tale. Frutto di questo attento studio è stata la prima revisione completa delle problematiche in cui appaiono pienamente i limiti dell’impostazione tradizionale e al contempo si apre la strada a nove possibilità di ricerca[7].
Le intuizioni di Moscati sono state portante avanti degli studiosi successivi che definitivamente superata l’idea del tophet come spazio di sacrifici hanno cercato di approfondire l’ambigua natura di questi complessi all’interno di una logica che vede in queste aree sacre la testimonianza dell’”esistenza di una pietas particolare verso il mondo dell’infanzia e di una celebrazione religiosa ad esso connessa”[8] in relazione alla natura stessa del complesso cultuale, ad un tempo santuario e necropoli[9], luogo di morte e santuario di vita legato alle esigenze di una comunità che per continuare invoca il favore dei propri dei[10]; spazio di celebrazioni private riguardanti la fertilità e la continuità familiare ma anche area istituzionalizzata in senso collettivo e politico come parte essenziale dell’identità cittadina[11].
Quella che viene definendosi è sempre più una realtà complessa, ancora sfuggente per molti aspetti anche essenziali, di certo molto diversa dal “luogo dell’arsione” di tradizione biblica. Come giustamente notato lo stesso termine tophet, legato ad una tradizione biblica ormai superata, appare non più adatto a descrivere la realtà che la ricerca viene a definire, migliori sarebbero altri termini come “santuario dei bambini”[12] o “santuario del campo d’urne”[13]
[1] PICARD 1961, pp. 43-44.
[2] HARDEN 1964, pp. 96-97.
[3] Per la storia delle ricerche medica, infra pp.
[6] MOSCATI 1972, p. 206.
[8] BERNARDINI 1996, p. 29.
[9] BERNARDINI 2005, p. 70.
[10] BERNARDINI 1995, p. 43.
[11] BERNARDINI 2005, p. 62.
[13] BERNARDINI 2005, p. 60.