Il fascino dell’antico, le “belle favole pagane”, il ricordo di una grandezza – quella romana – inutilmente imitata e inseguita hanno sempre affascinato gli uomini del vecchio mondo, da quando sotto i colpi congiuntamente inflitti dalla debolezza interna, dalle spade dei barbari e dalla destabilizzazione cristiana l’Impero era collassato su se stesso, lasciando ovunque le tracce del suo passaggio, nelle terra come nei cuori.
Un mito quello di Roma che ha impregnato di se non solo il mondo orientale, che greco e romano continuava ad esserlo di fatto in una continuità sentita come elemento costitutivo della propria identità più profonda come ancora traspare nel sublime, disperato discorso rivolto alle truppe da Costantino XI Paleologo il 28 maggio 1453 quando ormai le armate del Fatih piombavano oltre le mura di Teodosio; ma anche in quell’Occidente divenuto germanico ma in cui le vestigia materiali della romanità rievocavano una grandezza perduta e sempre inseguita, sentita come qualche cosa di ancora presente seppur irraggiungibile.
Il riuso dei monumenti antichi e la loro rilavorazione sono il segno più evidente di questo rapporto con l’antico che giunge a forme di autentica identificazione come nel caso di un sarcofago romano con Fedra riutilizzato nel 1076 per la sepoltura della marchesa Beatrice di Tuscia in cui l’immagine regale di Fedra diviene strumento di auto_rappresentazione della marchesa e della sua auctoritas. Particolare sviluppo il fenomeno sembra presentare alla corte di Palermo, dove i Re normanni reggono un’entità complessa e multietnica in cui la dimensione latino-germanica nella duplice declinazione che assume in Italia e nell’Europa del nord si incontra direttamente con Bisanzio e l’Islam, anch’esso imbevuto di tradizione greco-romana. Segno esplicito di un richiamo romano – qui esplicitamente connotato nella sua dimensione imperiale – sono i sarcofagi porfirei in gran parte di provenienza romana che giungono a Palermo a partire dal 1145 per essere destinati alla sepoltura dei monarchi normanni.
Il rapporto con l’antico avrebbe avuto una svolta sostanziale nel XIII secolo e proprio a partire dall’Italia meridionale quando un nuovo sovrano comincerà a guardare a Roma e all’arte romana in modo nuovo, non più semplice fondale da cui trarre elementi di rappresentazione ma modello effettivo da ricreare con acriba filologica in quanto fondamento di un’ormai necessaria rigeneratio temporum: Federico II.
L’ideale federiciano trova espressione in un nuovo approccio con la forma classica, ricreata in forme tanto esatte da essere spesso difficilmente distinguibili dagli originali antichi come nel caso dei cammei prodotti dalle botteghe imperiale in cui la perfezione imitativa raggiunge risultati impressionanti tanto da rendere ancora incerta la cronologia di molti esemplari. Seppur meno eclatante la grande plastica si muove spesso sullo stesso orizzonte ideologico-formale, solo che qui la volontà filologica più che creare perfette imitazioni dei modelli antichi sembra anticipare nel suo perfetto accademismo soluzioni proprie del neoclassico settecentesco. E’ il caso dello straordinario busto-ritratto dell’Imperatore da Genova riconosciuto da Giuliano come originale federiciano databile agli anni 1231-1240 ma ancora considerato dal Pace (2003) come opera del XVIII secolo. L’esemplare genovese non è per altro un unicum, le stesse caratteristiche formali si ritrovano in altri prodotti della scultura del tempo, si vedano al riguardo il giovinetto laureato di Spoleto – in cui il cuore vorrebbe vedere il giovane Manfredi – a lungo ritenuto opera antica (per primo da Longhi) e oggi datato intorno al 1240 o i due mascheroni femminili della collezione Cavallini-Sgarbi, datati intorno al 1240 e forse provenienti dal palazzo federiciano di Jesi in cui l’iconografia prettamente medioevale non nasconde un trattamento delle superfici analogo a quello delle opere prima citate.
Opera simbolo di questo stilizzato classicismo che diviene immagine fisica dell’idea federiciana del potere imperiale doveva essere il monumento trionfale eretto in Campidoglio nel 1238 e destinato ad esporre il carroccio sottratto ai milanesi nella battaglia di Cortenuova del 1237. Al monumento vanno verosimilmente attribuiti alcuni clipei marmorei la cui stilizzazione formale ricorda da presso i migliori cammei federiciani. Su uno dei medaglioni – che dobbiamo ipotizzare al centro del monumento – compare il busto laureato dell’imperatore, di augustea purezza, mentre a modelli medio-imperiali e tardo antichi guardano i ritratti di quattro dignitari che dovevano accompagnare la figura del sovrano.
Quello descritto non è però l’unico approccio all’antico del mondo federiciano, anzi infinite sono le varianti che questa volontà di rinascita classica adotta per raggiungere i propri obiettivi: dal gusto tutto medioevale della rilavorazione, condotto con perizia tecnica vertiginosa – come nel leone di Lagopesole – all’austerità tardo-antica dei busti dei giustizieri imperiali sulla porta di Capua; al fresco ellenismo di una testa di satiro della collezione Santarelli (datata intorno al 1240) fino ai modelli dell’ellenismo italico che tanto diffusi dovevano essere in Puglia e che ritornano con frequenza nei cantieri imperiali, specie nelle componenti di decorazione architettonica: dai capitelli della Cattedrale di Troia al mascherone silenico di Castel del Monte.
La vivacità dei cantieri federiciani stava inoltre creando qualche cosa di totalmente nuovo, l’incontro delle maestranze classiciste sud-italiche con quelle di cultura gotico settentrionale che l’Imperatore portava con se dalle provincie germaniche stava gettando i fermenti per un nuovo approccio con l’antico che lungi dall’essere semplicemente imitato diventava materia viva per la rappresentazione di una realtà diversa, quella contemporanea, segno evidente del crearsi di una sensibilità nuova, fenomeno testimoniato tanto nelle arti monumentali quanto nei prodotti suntuari come attesta uno straordinario cammeo in cui il modello classica della contesa fra Atene e Poseidone per il possesso dell’Attica – conosciuto alla corte sveva attraverso un cammeo su onice di età cesariano oggi nella collezione Farnese – viene reinterpretato e utilizzato per la rappresentazione dei progenitori biblici. Questa esperienza pare troncarsi di colpo con il tracollo della monarchia sveva nel sud Italia e con l’affermarsi di una cultura di matrice settentrionale di cui gli Angioini erano portatori.
I semi gettati nei cantieri pugliesi non andarono però perduti, anzi si diffusero in tutta la penisola con la diaspora degli artisti ivi formatisi e ora bisognosi di cercar fortuna in altri lidi. L’arrivo di Nicola de Apulia a Pisa già a partire dagli anni quaranta del secolo all’interno degli scambi fra la corte imperiale e le città ghibelline dell’Italia centro-settentrionale segna un momento decisivo per lo sviluppo dell’arte occidentale. In Nicola la cifra stilistica del mondo antico si incontra con la sensibilità dei tempi nuovi, con una centralità dell’uomo destinata a divenire il fulcro della cultura toscana e quindi europea dei secoli a venire. La portata rivoluzionaria dell’arte di Nicola già presente ai contemporanei – le cornici del Purgatorio dantesco istoriate di rilievi sarebbero impensabili senza i precedenti del pulpito pisano – troverà degno erede nel figlio Giovanni in cui il rapporto con i modelli classici sarà altrettanto costante ma ancor più libero e innovativo ricercando nell’antico non tanto la perfezione formale ma come mezzo per raggiungere una verità espressiva più reale e coerente in una sorta di “protomunasimo” in cui la lezione classica e le influenze del gotico oltremontano dialogano confondendosi fra loro.
Il seme nato nei cantieri pugliesi di Federico e disperso fra le colline toscane si preparava a dare i suoi frutti più belli, una linea ininterrotta collega le ignote maestranze svevo-pugliesi a Nicola Pisano e questi a Giotto fino a Ghiberti e Masaccio; la prima alba del Rinascimento è sorta sulle spiagge pugliesi per il sogno dolce e impossibile di un Imperatore.