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Archive for the ‘CD e Video’ Category

La magica stagione degli ultimi decenni del Settecento a Vienna, luogo di fioritura geniale e di raggiungimento di una perfetta estetica musicale secondo i dettami del Neoclassicismo più puro prima che i decenni napoleonici e le tempeste romantiche spazzassero via quella stagione inimitabile in cui si era compiuto il miracolo – caso forse unico nella storia d’Europa – in cui un’avanguardia culturale – perché tale era a tutti gli effetti il neoclassicismo – aveva saputo segnare in modo così totalizzante l’immaginario del proprio tempo. A quella stagione felice è dedicato il nuovo CD di Lena Belkina, mezzosoprano ucraino fattosi notare come promettente germoglio in occasione de “La cenerentola” televisiva del 2012 e consacrata con l’Arsace dell’”Aureliano in Palmira” pesarese del 2014.

Ad accompagnare ottimamente la cantante troviamo la ORF Radio Symphony orchestra ottimamente diretta da Andrea Sanguineti con sonorità chiare, nitide, luminose, tempi brillanti e vivaci, grande cura dei dettagli timbrici – si veda con quale precisione è reso il caleidoscopico fondo sonoro della scena elisia dell’”Orfeo ed Euridice”. Il programma si organizza come una sorta di rondò con tre sezioni distinte ciascuna dedicata a un compositore – nell’ordine Mozart, Gluck e Haydn – aperta da un’ouverture sinfonica seguita dai brani cantati.

Posto in apertura il rondò di Sesto “Parto, ma tu ben mio” mostra in pieno le doti della Belkina. Voce di mezzosoprano scuro, dalle giuste sfumature virili, morbida e omogenea in tutta la gamma con gravi di particolare ricchezza e solidità, ottima dizione italiana, linea di canto raffinatissima e naturale aplomb nel canto di coloratura frutto della lunga esperienza belcantista. Impressioni perfettamente confermato dalla successiva prova come Idamante (“Il padre adorato”). Merita una particolare attenzione l’aria da concerto “Ch’io mi scordi di te?” K.505 brano della piena maturità mozartiana in cui già si sentono anticipazioni di “Così fan tutte” e ancor più de “La clemenza di Tito” e retto da un raffinatissimo dialogo fra canto, orchestra e pianoforte solistico – un ottimo Andrea Bacchetti – in cui la Belkina non solo canta molto bene ma segue con efficacie tutte la ricca gamma espressiva del brano.

La parte dedicata a Gluck è forse la più riuscita del programma. Si è già accennato all’ottima prova direttoriale in “Che pur ciel” ma altrettanto riuscita è la priva della Belkina la cui vocalità ha la morbida cavata ideale per l’astrazione classica del brano. Di “Oh, del mio dolce ardor” da “Paride ed Elena” ascoltiamo forse la miglior esecuzione documentata. La Belkina non ha nulla da invidiare per qualità del canto e senso dello stile alla storica esecuzione di Magdalena Kožená ma è superiore a quest’ultima per ricchezza timbrica e identificazione con il personaggio. Più scura, più densa, più maschile la voce della Belkina toglie Paride dalla dimensione fin troppo femminea della Kožená. Il suo è veramente un giovane eroe, un efebo dalla virilità ancora acerba ma già montante perfetta trasposizione vocale del principe troiano.

La parte dedicata ad Haydn è forse la più interessante per la rarità dei brani ma anche quella meno seducente per un’ispirazione più scolastica, per la mancanza di quel colpo d’ala verso il sublime che è di Mozart e Gluck ma che mancava alla produzione operistica di Rohrau sostituita da un mestiere altissimo ma forse un po’ rigido. La Belkina canta comunque al meglio sfruttando l’eleganza della propria linea di canto nella bella melodia di “Se non piange un’infelice” (da “L’isola disabitata”) e giungendo sicura in porta di quell’autentico cimento rappresentato dalla Scena di Berenice Hob XXIVa:10 chiamata a chiudere trionfalmente il programma.+

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Tragedie Lyrique in un prologo e cinque atti su libretto di Simon-Joseph Pellegrin da Racine
Hyppolite Topi Lehtipuu
Aricie Anne-Catherine Gillet
Thésée Stéphane Degout
Phèdre Sarah Connelly
L’Amour Jaël Azzaretti
Oenone Salimé Haller
Thisiphone Marc Mauilon
La Gran-Prêtesse de Diane – Une Chasseresse Aurélie Legay
Pluton – Juppiter François Lis
Arcas – Deuxième Parque Aimery Lefèvre
Diane Andrea Hill
Première Parque Nicholas Mulroy
Mercure – Un suivant d’Amour Manuel Nuñez Camelino
Neptune – Troisième Parque Jérôme Varnier
Un chasseur Sydney Fierro
 Orchestra e coro Le Concert d’Astrée
Direttore Emmanuelle Haïm
Maestro del coro Xavier Ribes
Regia Ivan Alexandre
Scene Anthoine Fontaine
Costumi Jean-Daniel Villermoz
Coreografie Natalie Van Parys
Registrazione. Parigi, Palais Garnier, luglio 2012
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E’ del poeta il fin la meraviglia recita un celebre verso del Cavalier Marino e sicuramente la meraviglia era una delle componenti essenziali del teatro barocco – anche nella valenza particolare e forse non pienamente corretta con cui il termine può declinarsi nell’ambiente francese imbevuto di classicismo – ormai ben difficile da ritrovare in una prassi che se recupera con precisione l’aspetto musicale di quelle partiture – rilevandone una forza vitale neppure immaginabile nelle edizioni tradizionali – dall’altro ne affonda la parte visiva con spettacoli totalmente slegati dalla musica quando non dominati da una voluta estetica dell’abbiezione quasi ha voler degradare anche la bellezza di queste musiche. Registrata a Parigi nel 2012 – ma nata a Toloso nel 2009 – questa produzione di “Hyppolite et Aricie” è l’eccezione alla regola e come per incanto rinasce la magia di quel mondo.
Ivan Alexandre grande conoscitore dell’estetica barocca – affiancato per le scene da Anthoine Fontaine e per i costumi da Jean-Daniel Villermoz – ci fa rivivere la magia degli spettacoli di corte d’Antico Regime. La scena si apre con la veduta di un bosco sacro a Diana, tutte le scene sono dipinte a trompe l’oeil creando un mondo prospetticamente credibile ma come immerso in una finzione magica, popolato dai devoti della Dea. Spettacolari le apparizioni delle divinità con Diana su un crescente lunare illuminata da raggi di luce di sapore quasi berniniano e Giove in un cielo colmo di nudi dove il Signore dell’Olimpo si libra sull’aquila divina. Negli atti successivi compaiono i grandi fondali architettonici del Tempio di Diana e del Palazzo di Teseo e la grande prospettiva di arcate senza fine degli inferi sempre animate da spettacolari macchine sceniche. Il trono di Plutone sotto il quale le Parche appaiono a testa in già con un suggestivo artificio per cui i volti dei cantanti emergono dal nero del fondo e indossano come cappelli la parte inferiore del viso dei manichini rovesciati così che le figure sembrano avere i visi sdoppiati con gli occhi come rivolti al contempo al passato e al presente cui seguiranno negli atti seguenti le fauci mostruose del ketos, il trono di Nettuno al culmine delle onde e infine la dolcezza dei giardini sacri di diana con le loro siepi ordinare e le teorie di fontane.
I costumi – sontuosissimi – sono quelli tipici dell’opera seria che su una base moderna (nel senso di settecentesca) integra suggestioni all’antica e si arricchisce di elementi di pura spettacolarità scenografica con corone, piume colorate e lussuosi paludamenti soprattutto per le divinità.
La recitazione gioca su due livelli e se da un lato riprende la gestualità del tempo – che domina anche le raffinate coreografie Natalie Van Parys – dall’altro inserisce tratti e atteggiamenti più moderni e disinvolti, non privi di ironia che evitano di ridurre l’operazione ad una ricostruzione archeologica e gli danno una vita teatrale che conferma come si possa essere originali e briosi anche nell’assoluto rispetto dei contesti di origine. E’ soprattutto il personaggio di Amore con la sua carica vitalistica ad essere trattato in questo modo più convenzionale ma anche Diana si concede qualche posa meno paludata che contribuisce a creare quella sorpresa che è assolutamente barocca nello spirito anche quando si esce dalle forme più canoniche.
Alla guida dei suoi Le Concert d’Astrée Emmanuelle Haïm fornisce una direzione netta, tesa, molto ricca nei giochi chiaroscurali ma anche curatissima nei dettagli, negli impasti timbrici e armonici anche in virtù dell’altissima qualità dimostrata da strumentisti e coristi. Se proprio si vuole fare un appunto si noterà come in certi punti manchi quel controllo assoluto formale così classicamente francese che in questa musica è riuscito a rendere completamente solo Christie mentre la Haïm ha un temperamento più irruento che si concede qualche strappo, magari qualche forzatura stilistica ma compensa con una innegabile teatralità che non lascia indifferenti.
Anne-Catherine Gillet è un’Aricie deliziosa, musicalissima, dal timbro luminoso e carezzevole e dall’accento intensamente femminile semplicemente perfetto per l’elegiaca e affettuosa eroina di Rameau, al suo fianco Topi Lehtipuu manca forse un po’ di eroismo nell’accento ma sfoggia una voce di meravigliosa morbidezza ed un canto elegiaco, tutto a fior di labbro che si esalta al massimo nel clima dei duetti con Aricia del I e del IV atto e nell’eleganza tutta rococò del V.
Splendido Teseo Stéphane Degout che unisce ai notevoli mezzi vocali l’autorità di un accento veramente regale e al contempo colmo di commozione per i tragici destini dell’amico e del figlio firmando una prestazione da ricordare, al suo fianco la Fedra di Sarah Connelly è certo molto meno composta sul piano vocale anche se in parte compensa con un forte senso teatrale pur certe inflessioni di sapore più romantico che propriamente classico. Jaël Azzaretti è un Amore vocalmente molto pulito ed educato sul piano vocale e di scatenata simpatia su quello scenico. Andrea Hill ha la nobiltà vocale e la serena maestà scenica giuste per Diana. Splendida voce di autentico haute-contre Manuel Nuñez Camelino nel doppio ruolo del seguace d’Amore e di Mercurio mentre con straordinaria bravura Marc Mauilon trasforma il personaggio sostanzialmente marginale di Tisifone in una figura di fortissimo spicco. François Lis canta con gusto ed eleganza ma manca di autorità per le due somme divinità Giove e Plutone e in qualche modo simile risulta il Nettuno di Jérôme Varnier che però si dispiega con maggior efficacia nei recitativi di sapore quasi monteverdiano che gli sono affidati. Corrette anche se prive di particolare rilievo le altre figure di fianco.
Pur con qualche piccolo limite nel cast – ma in uno spettacolo dal vivo e con un così gran numero di personaggi la perfezione è forse impossibile da raggiungere – il presente video permette di godere al meglio di uno dei titoli più significativi del Settecento francese complessivamente ben cantato, diretto con grande efficacie e affidato ad una componente scenografico-registica in grado di incantare candidandosi come una proposto imprescindibile per gli amanti della musica del secolo dei Lumi.

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Ernani                                     Mario del Monaco

Don Carlo                              Ettore Bastianini

Don Ruy Gomez de Silva      Boris Christov

Elvira                                      Anita Cerquetti

Giovanna                                Luciana Boni

Don Riccardo                         Athos Cesarini

Jago                                        Aurelian Neagu

Orchestra e coro del maggio musicale fiorentino

Direttore                                 Dimitri Mitropoulos

Maggio Musicale Fiorentino, 25-06-1957

2 CD MYTO Historical Line P/2009

Riascoltare certe eduzioni passate non solo alla storia ma al mito della lirica è estremamente utile per farsi un’idea più precisa e meno astratta di spettacoli certo memorabili ma comunque figli del loro tempo e che possono risultare per certi aspetti datati all’ascolto odierno.

Il repertorio del belcanto italiano – cui si può assimilare per molti aspetti la produzione giovanile di Verdi – e forse quello su cui il tempo può aver steso maggior polvere e questo “Ernani” fiorentino per certi aspetto conferma quest’impressione.

La direzione di Mitropoulos è a questo punto di vista emblematica. Solenne, monumentale, di cupa grandezza fin dal preludio arcano e misterioso, solcato da lampi di tensione come un cielo di El Greco così come altrettanto solenne, veramente sacrale è l’atmosfera del giuramento di Aquisgrana. Ma “Ernani” non è solo quello, non è “Don Carlos” con le sue cupe ombre, è ancora un’opera di luminosità primo ottocentesche e quelle spesso latitano, manca quella leggerezza che molti momenti richiedono – si veda il plumbeo coro dei banditi in apertura dell’opera. Mitropolous è un figlio del suo tempo che legge “Ernani” a ritroso partendo da “Otello”, lo fa nel miglior modo possibile ma è innegabilmente un modo di leggere questo repertorio ed un modo oggi discutibile dopo le esperienze della Belcanto renaissance. Figli del tempo sono poi i tagli, non numerosissimi ma comunque presenti, anche se qui Mitropoulos evita di stravolgere totalmente l’opera come aveva fatto a New York. L’orchestra e il coro non si coprono di gloria dando ulteriore testimonianza della crescita qualitativa esponenziale avuta dai complessi italiani nel corso degli ultimi decenni.

Il cast è poi spaccato in due parti nette, verrebbe da dire “Due volte nella polvere, due volte sull’altar” citando Manzoni. Sugli scudi senza ombra alcuna il Don Carlo di Ettore Bastianini; incarnazione paradigmatica del baritono nobile, voce splendida, linea di canto di una fermezza quasi non umana, fraseggio virilmente aristocratico. Forse mai “Vieni meco” ha avuto tanto dolcezza e forse è impossibile anche solo immaginare un’esecuzione paragonabile di “Oh de verd’anni miei”.

L’altro elemento di forza e l’Elvira di Anita Cerquetti. Autentico soprano drammatico d’agilità dalla vocalità sontuosa e ricchissima di suono, capace di autentici scatti ferini – ed Elvira            qui è veramente una tigre in “Fiero sangue d’Aragona” – così come di filature e mezzevoci che hanno del miracoloso specie considerando l’entità del materiale vocale. E se qualche accento è forse troppo caricato e se le colorature non hanno sempre la nitidezza cui ci hanno abituato le grandi belcantiste successive sono limite inevitabile all’epoca della registrazione e nulla tolgono all’ammirazione complessiva.

Gli altri due protagonisti lasciano maggiori perplessità. Del Monaco è vocalmente soggiogante, la voce ha una saldezza e una robustezza raramente ascoltate, la frase è scandita con un’energia unica così che frasi come “Io son conte, duca sono” hanno veramente l’autorità di un heldentenorer. ma forse qui sta il limite. Del Monaco affronta Ernani come affrontava Otello ma l’universo espressivo delle due opere è lontanissimo, quello di Ernani è un eroismo smaltato e luminoso, ancora tutto belcantista e al riguardo basterebbe ricordare che fra gli interpreti più apprezzati del tempo era quel Nikolaj Ivanov – per cui Verdi scrisse l’aria alternativa “Odi il voto” – già destinatario di “T’amo qual dama o angelo” che Donizetti per lui aggiunse alla “Lucrezia Borgia”.  Una lettura iper-drammatica come quella proposto corre inevitabilmente il rischio di risultare fin troppo stentorea e monocorde a prescindere dalla bravura vocale – ma qualche acuto lascia più di un dubbio come quello conclusiva della cabaletta del I atto.

Pur con i suoi limiti l’interpretazione può comunque affascinare, la stessa cosa non si può dire del Silva di Boris Christov. Voce enorme, potentissima, anche di bel colore ma dura, rigida, legnosa nell’emissione e problematica nell’articolazione della frase italiana. Un Silva duro e granitico me le mura del suo castello ma purtroppo altrettanto inespressivo.

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Amfortas                     Bernd Weilk

Titurel                          Jan-Hendrik Rootering

Gurnemanz                  Kurt Moll

Klingsor                       Franz Mazura

Parsifal                       Siegfrid Jerusalem

Kundry                        Waltraud Meier

Erster Gralsritter          Paul Groves

Zweister Gralsritter      Jeffrey Wells

Erster knappe              Heidi Grant Murphy

Zweiter knappe            Jane Bunnell

Dritter knappe             John Horton Murray

Vierter Knappe            Bernard Fitch

Eine Stimme                 Gweneth Bean

Blumenmädchen           Heidi Grant Murphy, Kaaren Erickson, Jane Bunnell, Gwynne Geyer, wendy Withe

Metropolitan Orchestra and corus

Direttore                      James Levine

Maestro del coro         Raymond Hughes

Regia                           Otto Schenck

Scene                          Günther-Siemssen

Costumi                       Rolf Langenfass

Metropolitan Opera, marzo 1992

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Parsifal” da sentire e soprattutto da vedere questa produzione del Metropolitan registrata nel 1992 e disponibile in DVD nel catalogo della Deutsche Gramophon di cui rappresenta una delle più interessanti produzioni.

Si diceva uno spettacolo da vedere perché la regia di Otto Schenck affiancata dalle scene di Günther Schneider-Siemssen e dai costumi di Rolf Langenfass non è solo emblematica di una certa stagione del Metropolitan purtroppo finita da quando anche il teatro newyorkese è stato contagiato dal virus del teatro di regia europeo ma soprattutto una spettacolo di straordinaria suggestione visiva con momenti che restano inevitabilmente impressi con forza. Schenck svolge la vicenda con coerenza e precisione, senza nessuna forzatura o volontà di reinterpretazione ma realizzando nel modo più fluido e scorrevole le volontà dell’autore e sfruttando al meglio alcuni cantanti dotati di non comune talento attoriale ma ad incantare è la bellezza visiva di molte scene.

La foresta su cui  si apre l’opera ha l’incanto di un paesaggio simbolista con il lago sullo sfondo dagli incerti, argentei  confini e le betule come colonne tracciano ombre cariche di mistero, un mondo in cui i confini si confondono in un intreccio misterioso come la foresta di simboli di baudelariana memoria ed questa stessa foresta si trasforma durante la Verwandlunsmusik nel tempio con uno straordinario colpo di teatro, e così le  ombre della notte si diffondono a poco metamorfosizzando gli alberi i pilastri, l’intera foresta in una selva di colonne nere, di granito o di pietra vulcanica, dai profili irregolari e mutevoli, opera della Natura o di un Dio su cui non ha agito la limitata razionalità umana con le sue linee precise e il suo ordine artificioso ma in cui si respira l’essenza profonda di una natura ancestrale e la mente corre a certe scogliere vulcaniche di Scozia o d’Irlanda qui ricomposte in un’architettura nata da se su cui posa la grande, nera cupola, che evoca e scherma ad un tempo il cielo al centro della quale si apre l’oculus da cui filtra la luce che collega umano e divino, le ombre della terra e la luce celeste.

A questo Pantheon vulcanico e metamorfico dove le forme umane vengono a crearsi per autonomo volere della natura si contrappone la natura fittizia, artificiosa, fin troppo umana del giardino incantato di Klingsor. Un giardino su cui incombe un cielo rossastro e innaturale solcato di pieghe sanguigne, vene di una mostruosa placenta che crea e nutre quest’incubo seduttivo in cui si muovono fanciulle fiore deliziosamente art nouveau.

La parte musicale non è forse all’altezza ma comunque è più che dignitosa e assolutamente godibile in quasi tutte le componenti, tranne una di cui si dirà in seguito. James Levine ha sempre avuto una lunga e proficua frequentazione con Wagner e il suo altissimo mestiere si fa apprezzare anche in questa registrazione. Una direzione ampia, solenne e nobilmente scandita che guarda al modello paradigmatico e inarrivabile di Knappertbusch rivedendolo secondo un’ottica più moderna, più umana e meno titanica ma non per questo privo di mistica solennità. L’Orchestra del Metropolitan non è mai stato al livello delle migliori compagini europee ma l’abitudine wagneriana si sente e nel complesso la prestazione è decisamente più convincente rispetto a certe prove nel repertorio italiano.

Parlando del cast conviene togliersi subito il sassolino rappresentato dal Klingsor di Franz Mazura, scenicamente impressionante ma vocalmente oltre i limiti dall’accettabile con intonazione periclinante e tendenza decisamente eccessiva al parlato.

Sul punto opposto della scala di valori sta la Kundry di Waltraut Meier che del ruolo rappresenta una delle interpreti di assoluto riferimento. Voce magnifica per timbro e colore, perfetta per una tessitura che si muove continuamente fra il soprano e il mezzo unita ad una morbidezza di canto e ad un senso della bellezza melodica insolite da trovare in una cantante wagneriana. Se grande è la cantante, somma è l’attrice, appena entra in scena l’attenzione è calamitata su di lei. E lei fragile figura femminile in un mondo di uomini che s’avanza in un bellissimo costume di velluto verde di taglio maschile e non privo di richiami all’oriente e al mondo dei nomadi con la lunga cintura decorata di brattee argentate di gusto avaro o un ungaro, i capelli sciolti ad incorniciare un viso di soggiogante bellezza mentre ogni sguardo, ogni gesto hanno un loro preciso ed efficace senso teatrale. E se nei giardini incanti è l’autentica incarnazione della belle dame sans merci come uscita dalla tela pre-raffaellita ancor più ci piace ricordare quello sguardo intenso, colmo di amore e riconoscenza che getta morente su Parsifal così vero e intenso da toccare anche il più arido cuore.

Altro elemento di forza l’Amfortas di Bernd Weilk, il baritono austriaco presta al re pescatore la sua voce di splendida morbidezza e di naturale calore umano che rende pienamente credibile il suo cedere alle debolezze della carne tanto la sua voce mantiene un fondo di virile sensualità anche nei tormenti della malattia, l’attore è poi notevolissimo nel dare un’immagine più umana e meno mistica del personaggio.

Siegfrid Jerusalem è meno entusiasmante e la sua voce sostanzialmente lirica cominciava a risentire del repertorio troppo drammatico cui era costretta ma Parsifal non è Siegfrid e certi tensioni appaiono meno evidenti e sono compensate dall’ottima musicalità e della perfetta aderenza stilistica al ruolo. Kurt Moll non può certo sfoggiare in Gurnemanz il velluto di un Weber o di un Frick e anche l’emissione non è sempre un portento di ortodossia vocale ma la voce è innegabilmente piacevole e il personaggio colmo di una bonaria umanità che lo rende immediatamente accattivante. Efficace il Titurel di Jan-Hendrik Rootering e notevoli le parti di fianco dove spiccano il primo cavaliere di Paul Groves che molti ricorderanno per le collaborazioni scaligere con il maestro Muti “(Die zauberflöte”, “Armide”) e il primo fiore di Heidi Grant Murphy la Ilia dell’”Idomeneo” discografico con Domingo e la Bartoli.  

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Der Holländer              George London

Daland                         Giorgio Tozzi

Senta                           Leonie Rysanek

Erik                             Karl Lieb

Mary                           Rosalind Elias

Der Steurmann           Richard Lewis

Orchestra and Chourus Royal Opera House of Covent Garden – London

Direttore                      Antal Dorati

Registrazione               1960

2 CD Urania WS121.177

 

  Nella meritoria iniziativa della Urania di riproporre in edizioni a prezzo economico ma di alta qualità tecnica alcune storiche incisioni del catalogo Decca tocca ora a questa produzione di “Der Fliegende Holländer” a suo tempo mitica per i prodigi tecnici messi in campo dalla casa discografica londinese ma rimasta ancor oggi una delle migliori esecuzioni del primo capolavoro wagneriano.

   Ottimamente riversata in questa riedizione e presentata con un’accattivante copertina di sapore decisamente dark che sicuramente saprà incuriosire anche un pubblico più giovane e meno solito con questo repertorio permette di apprezzare al meglio le virtuosistiche incisioni originali e certe soluzioni – seppure ormai acquisite e prive della portata rivoluzionaria che avevano in origine – continuano ad avere un notevolissimo effetto ad ogni ascolto: il rumore della catena dell’ancora all’arrivo del vascello dell’olandese, i turbinare degli arcolai all’inizio del II atto, la strepitosa architettura sonora nel confronto fra i cori all’inizio del III tutto contribuisce a creare fortissime sensazioni, a dare l’impressione di un autentico teatro di suoni, non visibile, ma non per questo meno vivo e reale.

   Pur privi del prestigio e dello stemma di wagnerianità di altre compagini i complessi del Covent Garden si dimostrano pienamente all’altezza delle richieste sia per la parte orchestrale che per quella corale – solo il coro delle ragazze all’inizio del II atto mostra qualche imperfezione – e assecondano in pieno l’originale lettura del direttore ungherese. Dorati infatti da all’opera un taglio per l’epoca decisamente originale, pur senza sacrificare nulla in fatto di potenza e terribilità di suono il suo “Der Fliegende Holländer” recupera una dimensione cantabile e lirica presente nella scrittura wagneriana ma quasi sempre dimenticata nelle esecuzioni storiche tutte portate a ricostruire una tellurica grandezza a scapito di una scrittura di suo spesso alquanto delicata in molti punti; Dorati invece evidenzia al pieno la cantabilità della partitura, l’abbandono melodico di diversi momenti, il legame ancora forte con un gusto di matrice italiana ancora alquanto evidente.

   La compagnia di canto segue inoltre molto bene le idee del direttore così che – forse per la prima volta con tanta chiarezza – la dimensione profondamene umana di “Der Fliegende Holländer” veniva a prevalere su quella titanica e demoniaca.

   Magnifico protagonista George London, il baritono canadese offre una lettura per molti aspetti insuperata dell’Olandese, la voce di suo è bellissima e raramente si ascolta una materiale naturalmente tanto privilegiato, timbro bellissimo caldo e corposo, facilità e omogeneità su tutta la gamma, acuti corposi e ricchi di squillo – inutile dire quanto il ruolo guadagni al riguardo cantato da un vero baritono drammatico anziché da un bass-baritone – il tutto unito ad un canto sempre morbido in cui non ci sono scappatoie ma tutto è sempre risolto nel canto e mai contro di esso. L’interprete è poi straordinario, mai prima di lui l’Olandese era stata figura tanto sofferta e torturata, la voce morde la linea ma senza sacrificare mai una naturalezza che si fa simbolo stesso della natura intimamente umana del personaggio; il grande monologo del primo atto cessa così di essere l’epifania di un Dio delle tempeste per diventare l’espressione di un dolore profondo e intimo così come terribilmente umano e lo sgomento di fronte al presunto tradimento di Senta nel III atto. Una figura quindi in cui la statura autenticamente eroica è raggiunta proprio nel riconoscimento della propria umanità e del bisogno di superarne i limiti e non nella negazione di essa e il pensiero non può che correre all’Ulisse dantesco nella sua umanissima brama di conoscenza dell’infinito. Un’interpretazione quella di London destinata a rimanere imperitura negli annali delle esecuzioni wagneriane.

  Il resto del cast non ha la statura del baritono canadese ma resta uno dei migliori mai messi insieme per quest’opera. La Rysanek realizza con Senta uno dei personaggi per cui verrà più ricordata; certo l’intonazione non è sempre perfettamente a posto e gli acuti tendono ad essere fin troppo fissi però la voce è di rara solidità e il personaggio pienamente riuscito nel suo clima di esaltazione quasi psicotica ma cui è sempre sottesa una profonda femminilità. Tozzi è un Daland ottimamente cantato, uno dei pochi a far pienamente intendere la natura ancora tutta italiana della sua vocalità e la sua natura quasi di basso buffo che emerge con chiarezza ad esempio nel duetto con Senta e che Tozzi, grande specialista dell’opera italiana rende al meglio. Di impetuosa giovinezza anche se non sempre impeccabile sul piano tecnico l’Erik di Karl Lieb e autentico lusso le parti di fianco con una cantante di prima grandezza come Rosalind Elias nei panni di Mery e addirittura Richard Lewis, l’indimenticabile Idomeneo di Glyndebourne con Pritchard come timoniere.

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Turandot                      Inge Borkh

Liù                               Renata Tebaldi

Calaf                           Mario del Monaco

Timur                           Nicola Zaccaria

Ping                             Fernando Corena

Pang                            Mario Carlin

Pong                            Renato Ercolani

Un mandarino              Ezio Giordano

Orchestra e coro          Accademia di Santa Cecilia

Direttore                      Alberto Erede

Registrazione    1955

2 CD Urania WS121.202

 

Incisa originariamente per la Decca nel 1955 la presente edizione di “Turandot” – riproposta dalla Urania nella collana Widescreen – colpisce in primo luogo per l’altissima qualità della registrazione – pienamente valorizzata dal presente riversamento – che testimonia l’attenzione che già in quegli anni caratterizzava la casa discografica inglese per la fedeltà e la pulizia del suono.

L’esecuzione musicale è in qualche modo emblematica dell’approccio al repertorio della giovane scuola degli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale di cui questa incisione rappresenta ancora un esempio perfetto. Una lettura finalizzata in primo luogo ad esaltare la prestanza vocale dei singoli interpreti all’interno di un quadro orchestrale teso alla massima spettacolarizzazione dell’insieme.

La direzione di Erede – alla guida degli ottimi complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia – procede per grandi quadri sonori di granitica definizione e di sicuro impatto specie per il pubblico dell’epoca. Un’imponenza sonora favorita dalla possanza delle voci a disposizione e che in quest’ottica ottiene certamente i risultati voluti anche se sarebbe inutile ricercarvi quell’attenzione al dettaglio e quella valorizzazione degli stretti legami che uniscono la scrittura puccianiana alle coeve sperimentazioni di area mittel-europea pur così presenti in quest’opera.

All’interno di quest’ottica interpretativa Mario del Monaco si muove pienamente a suo agio. In quegli anni la voce era al massimo delle sue potenzialità, autenticamente torrenziale e capace di dominare con disinvoltura quasi imbarazzante le più corpose masse orchestrali sfruttando al meglio anche una dizione di rimarchevole chiarezza. Di contro il suo approccio al ruolo si riduce troppo spesso alla sola esibizione dello smalto vocale rimanendo le ragioni espressive del personaggio sostanzialmente ignorate. Ovviamente una lettura di questo senso trova i suoi momenti migliori nei punti di più scoperta drammaticità – su tutti la scena degli indovinelli – mentre viene a mancare di poesia in quei passi dove dovrebbe emergere la natura più propriamente lirica del principe ignoto. Una testimonianza quindi per molti aspetti datata e lontana dal gusto odierno ma di notevole interesse sul piano storico e documentario.

Analoghe considerazioni si possono avanzare per la Turandot di Inge Borkh, autentico soprano drammatico di matrice wagneriana. Se anche nel suo caso appare evidente una tendenza a risolvere il personaggio su basi prettamente vocali va rilevato che la figura dell’algida principessa si presta molto meglio rispetto a Calaf ad una siffatta lettura all’interno della quale anche certe durezze trovano una loro giustificazione espressiva.

Semplicemente magnifica la Liù di Renata Tebaldi ritratta all’epoca del suo massimo splendore vocale. L’accento è – come quasi sempre nel suo caso – forse un po’ troppo matronale e come auto-compiaciuto della propria bellezza timbrica ma di fronte ad un timbro così profondamente luminoso e al contempo femminile, ad una linea di canto così magnificamente tornita e a suoni di tale assoluta purezza non si può non farsi conquistare.

Nicola Zaccaria (Timur) non può sfoggiare mezzi vocali altrettanto ragguardevoli ma conferma l’alto professionismo e la complessiva efficacia che lo contraddistinguevano in quelli anni.

Le numerose parti di fianco sono ulteriore testimonianza dell’altissimo livello complessivo della scuderia Decca in quegli anni; da segnalare soprattutto l’imponente Ping di Fernando Corena pienamente in linea con la monumentalità complessiva dell’edizione. Completano il cast: Mario Carlin (Pang), Renato Ercolani (Pong), Gaetano Fanelli (Altoum), Ezio Giordano (Un mandarino).

La presente ristampa permette di fruire al meglio di un’edizione che seppur lontana per molti versi dal gusto attuale resta una preziosa testimonianza di un momento fondamentale della storia del canto lirico del XX secolo.

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Melodramma di due atti di Jacopo Cabianca da “Die Braut von Messina” di Friedrich von Schiller. Jessica Pratt (Donna Isabella), Filippo Adami (Don Emanuele), Armando Ariostini (Don Cesare),Wakako Ono (Beatrice), Maurizio Lo Piccolo (Diego). Virtuosi Brunensis, direttore: Antonino Fogliani, Classica Chamber Choir Brno, maestro del coro: Pavel Konárek. Registrazione dal vivo presso la Kursaal, Bad Wildbad, 15-18 giugno 2009.

 

  Come nota preliminare volevo comunicare ai miei cari lettori che le mie recensioni discografiche si possono leggere regolarmente al seguente indirizzo (http://www.gbopera.it/) a cui rimando tutti i miei lettori anche per le recensioni teatrali. In alcuni casi però – dischi acquistati personalmente o recensioni che per qualche motivo non hanno trovato spazio sulla rivista – alcune saranno pubblicate su questa pagina, spero che la cosa possa essere di vostro gradimento.

 Il marchigiano Nicola Vaccaj – nato a Tolentino il 15 marzo 1790 – ha sicuramente un ruolo non secondario nel gran numero di compositori italiani attivi nei primi decenni del XIX secolo all’ombra prima di Rossini e poi dei Dioscuri. Musicisti dotati di notevoli basi tecniche e se pur privi di autentico genio sempre artigiani del suono di alto livello professionale ma tutti destinati ad un oblio più o meno profondo dall’esplodere dell’astro verdiano. La fama postuma di questo allievo di Paisiello è sicuramente più legata alla sua attività didattica svolta nei maggiori conservatori europei che ebbe come conseguenza la pubblicazione nel 1834 di quel “Metodo pratico di canto italiano per camera” divenuto in breve uno dei testi fondamentali di studio per ogni cantante mentre come compositore la sua notorietà fu a lungo legata alla prassi di sostituire il finale de “I Capuleti e Montecchi” di Bellini con quello del “Giulietta e Romeo” dello stesso Vaccaj secondo una discutibile prassi inaugurata nel 1832 da Maria Malibran e continuata con una certa fortuna per tutto l’Ottocento.

  “La sposa di Messina” proposta in questo doppio CD Naxos registrato in occasione dell’edizione 2009 del Festival Rossini in Wildbad è prodotto della piena maturità del compositore (1839) ma al tempo stesso dimostrazione evidente dei limiti dello stesso incapace di aggiornare la propria scrittura musicale alla luce delle trasformazioni del gusto nel frattempo avvenute. Guardando con attenzione la data di rappresentazione si nota che a quell’orizzonte cronologico avevano già visto la luce i maggiori lavori di Donizetti e che pochi mesi separano la prima dell’opera di Vaccaj (il 2 marzo al Teatro La Fenice di Venezia) dal primo lavoro teatrale verdiano, l’”Oberto conte di San Bonifacio” andato in scena alla Scala il 17 novembre dello stesso anno, eppure di tutto questo nella partitura compaiono solo labili tracce. Lo stile di Vaccaj resta ancorato ad un gusto tardo-neoclassico fatto di linee luminose e purissime come superfici marmoree solo in superficie mosse dalle prime increspature romantiche ma di un romanticismo più prossimo a quello di alcuni lavori seri rossiniani e soprattutto di Bellini che a quello delle fosche accensioni della maturità donizettiana. Il risultato è un’opera di grande raffinatezza musicale e alto magistero compositivo ma nata già superata dall’evoluzione del gusto e dello stile.

   La scarsa teatralità dell’opera è inoltre data dal libretto di Jacopo Cabianca che pur ben scritto manca dell’efficacia drammatica dei libretti di Romani e Cammarano. Va per altro riconosciuto che la stessa tragedia di Schiller da cui è tratta l’ispirazione risulta sostanzialmente di maniera con le sue situazioni sostanzialmente stereotipate. Il risultato finale è un lavoro che stenta a reggersi da solo e che richiedere un’esecuzione di alto livello per raggiungere gli scopi prefissi dal compositore, cosa che nel presente caso è solo parzialmente raggiunto.

   Nel ruolo di Donna Isabella l’ancor giovane Jessica Pratt dimostra la predisposizione da autentica belcantista. La voce della cantante australiana pur non grandissima è però ottimamente appoggiata sul fiato e proiettata con sicurezza tanto da svettare con sicurezza anche nelle scene di massa ma ha colpire è soprattutto la naturalezza con cui vengono risolti anche i passaggi più impervi e l’innato senso dello stile che gli permette di padroneggiare al meglio l’impervia parte. La coloratura è sempre fluida, pulitissima in ogni passaggio; gli acuti affrontati senza apparente tensione, forse non amplissimi ma squillanti e luminosi. Affrontata dalla voce della Pratt la cavatina “Figli a una sola patria” ha tutta la lunare grandezza delle grandi pagine del belcanto italiano anche se è difficile dire quanto questo sia dovuto al brano in se e quanto alla bontà dell’esecuzione. Pur di natura sostanzialmente elegiaca la voce della Pratt domina con sicurezza anche i più concitati passi del finale dove troppo accenti di buona efficacia drammatica. L’unico appunto è forse sul piano timbrico dove la luminosa vocalità della Pratt risulta forse troppo giovanile per un personaggio materno come Isabella.

   Purtroppo la prestazione della Pratt viene a trovarsi quasi isolata in un cast nell’insieme di livello decisamente più modesto. Fra gli altri interpreti si segnala per musicalità ed eleganza la giapponese Wakako Ono nei panni di Beatrice, la figlia di Isabella creduta da tutti morta e motore drammatico della tragedia. Mezzosoprano dal timbro chiaro e luminoso si trovo particolarmente a suo agio in un personaggio che per molti aspetti ricorda quello belliniano di Adalgisa dando buon risalto sia alla bella aria del primo atto “Emanuel! Così tu mai lasciata” tanto musicalmente quanto drammaturgicamente molto prossima allo “Sgombra è la sacra selva” della “Norma” tanto al duetto del II atto con Isabella “Dove son io” anch’esso di diretta discendenza belliniana.

   La componente maschile risultava nel complesso più deficitaria. A deludere maggiormente è il baritono Armando Ariostini come Don Cesare. Al primo ascolto si intuisce una parte pensata per un baritono nobile dal canto stilizzato e dal sicuro squillo sul modello del Riccardo de “I puritani” mentre quella che si ascolta è una voce grigiastra, priva di fascino, incapace tanto di espandersi in grandi arcate melodiche quanto di far sentire il piglio eroico della cabaletta del II atto. Una prova nel complesso totalmente deludente.

  Un po’ meglio vanno le cose con il fratello Don Emanuele in quanto Filippo Adami sfoggia almeno una bella schiettezza tenorile nella voce ed una buona linea di canto ma nonostante questa superficiale piacevolezza è evidente come le ragioni del personaggio sia anche in questo caso sostanzialmente mancate. Non è difficile intuire come per Don Emanuele il compositore abbia penato si ad un tenore dalla voce agile e luminosa ma anche in possesso di una forte presenza vocale, di un sicuro squillo nel settore acuto e di un accento nobile ed eroico, seppur di un eroismo stilizzato e araldico, che avvicina il ruolo a certe parti della maturità belliniana come l’Orombello della “Beatrice di Tenda” o l’Arturo de “I puritani” mentre Adami tende a virarne impropriamente la natura espressiva verso quella di un Lindoro o di un Don Ramiro. La bell’aria del primo atto “Chi fida l’anima” e soprattutto il duetto-terzetto con Cesare e Beatrice pur cantante con correttezza non riescono a esprimere tutto il potenziale di cui sembrano essere capaci. Buona la prova del basso Maurizio Lo Piccolo nel ruolo minore di Diego.

  Alle prese con un materiale musicale e drammaturgico alquanto discontinuo Antonino Fogliani – alla guida dei Virtuosi Brunensis – tenta di tendere al massimo le fila del discorso optando per una lettura asciutta e il più possibile compatta sul piano teatrale anche a scapito di qualche maggior abbandono che parrebbe suggerito da alcune melodie. Completa l’insieme il Classica Chamber Choir Brno diretto da Pavel Konárek che pur privo di meriti particolari fornisce una prova apprezzabile e funzionale specie nei grandi pezzi d’assieme.

vaccaj La sposa di Messina

 

Jessica Pratt

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