Dramma lirico in quattro atti Libretto di Temistocle Solera dall’omonimo poema di Tommaso Grossi
Musica di Giuseppe Verdi
Arvino Giuseppe Gipali
Pagano Alex Esposito
Viclinda Lavinia Bini
Giselda Angela Meade
Pirro Antonio Di Matteo
Priore Joshua Sanders
Acciano Giuseppe Capoferri
Oronte Francesco Meli
Sofia Alexandra Zabala
Direttore d’orchestra Michele Mariotti
Regia Stefano Mazzonis di Pralafera
Scene Jean-Guy Lecat
Costumi Fernand Ruiz
Luci Franco Marri
Maestro del coro Andrea Secchi
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Nuovo allestimento
in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège
“I lombardi alla prima crociata” tornano al Regio dopo un’assenza di ben novantadue anni, quasi incredibile se si pensa alla popolarità che almeno alcuni brani di quest’opera hanno sempre avuto anche presso il grande pubblico e vi torna con uno spettacolo bifronte fra plausi per la resa musicale e perplessità per quella visiva.
Conviene togliersi subito le dolenti note. I miei lettori sapranno che sia sempre stato sostanzialmente a favore delle regie tradizionali, rispettose dei libretti e delle coordinate storico-geografiche ma quella proposta non è tanto una produzione tradizionale quanto una produzione deludente, di una tradizione che diventa mera oleografia (per altro senza neppur riuscire in questo) rinunciando a essere teatro. Le scene sono quinte architettoniche dipinte con qualche accenno romanico (per il I atto) o islamico (nel prosieguo della vicenda) troppo povere ed essenziali per riuscire a trasmettere l’incanto dei fondali dipinti di un tempo a prescindere dalle necessità di riadattamento di un allestimento nato a Liegi per “Jerusalem” e qui riutilizzato per la precedente versione italiana non sempre corrispondente negli ambienti al rifacimento francese. Sontuosi e a loro modo apprezzabili i costumi di Fernand Ruiz ma totalmente impropri per la vicenda che risultava trasportata dal Levante medioevale in un immaginario di paese da saga fantasy dove i saraceni assomigliavano ad una sorta di elfi dagli improbabili copricapi (ma in fondo tutta la regia mostrava slittamenti in tal senso basti ricordare come i tre anni trascorsi nel deserto trasformino l’aitante e giovanile Pagano del I atto in Gandalf il grigio); costumi più adatti a”Oberon” o “A Midsummer Night’s Dream” (per limitarsi a cercare paragoni nobilitanti) che alle atmosfere di Grossi e Verdi. Parlare di regia è poi quasi superfluo riducendosi questa a poche trovare il più delle volte non felici: Pirro che incombe minaccioso su Pagano nel finale prima anziché stargli prigioniero accanto, la battaglia sostituita dalla proiezione di un estratto del “Aleksandr Nevskij” di Ėjzenštejn (difficile trovare quale cosa di più antitetico allo spirito del momento), il ricomparire di tutti – defunti compresi – a celebrare la vittoria finale ma in fondo si sa che a cartoonia non muore mai nessuno, il bellissimo effetto dell’epifania di Gerusalemme previsto per il finale anticipato al III atto e quindi totalmente bruciato.
Fortunatamente la qualità della parte musicale faceva rapidamente dimenticare le pecche di quella visiva. Michele Mariotti non teme una certa asprezza della partitura e non si tira indietro davanti ad una struttura granitica, fatta di contrasti violenti come quelli dei rilievi romanici illuminati dalle torce nelle cattedrali del tempo ma al contempo mantiene sempre la giusta traiettoria e riesce a far risaltare per contrasto quei momenti in cui la scrittura verdiana tende a distendersi e raffinarsi (interludio nel III atto, accompagnamento di alcune arie).
Difficile immaginare Oronte migliore di Francesco Meli. La voce è semplicemente splendida per qualità naturali ed arricchita da un’emissione esemplare che ne fa risaltare al meglio tutte le sonorità. La linea di canto è curatissima così come il gioco dinamico, la cura per i dettagli del fraseggio, il perfetto controllo del fiato e della schietta comunicativa della miglior tradizione tenorile italiana. Il risultato è un Oronte di un lirismo nobile e appassionato che trova il su momento più alto nel duetto del III atto, splendido per intensità ed eleganza di canto.
Al suo fianco Alex Esposito è l’interprete ideale per Pagano. La voce da autentico basso-baritono gli permette di dominare una tessitura particolarmente scomoda nella sua ambiguità, ancora legata a quelle tipologie vocali primo ottocentesche che in seguito verranno superate anche per gli sviluppi del melodramma verdiano. E proprio la lunga esperienza belcantista permette a Esposito di cogliere pienamente la natura di Pagano sia sul versante vocale che su quello interpretativo tratteggiando un personaggio complesso e tormentato, protervo e dolente ma sempre nobile, elegante, senza nessuna inutile platealità. Le prove di Mariotti, Meli ed Esposito confermano ulteriormente come la formazione e la prassi belcantista siano essenziali per cogliere l’autenticità delle opere giovanili di Verdi.
La Giselda di Angela Meade lascia invece qualche maggior dubbio. La voce è impressionante per robustezza e presenza tale da permettergli di superare con la più apparente facilità una delle parti più impervie pensate da Verdi ma questo straordinario materiale naturale avrebbe bisogno di un controllo maggiore riscontrandosi un vibrato non troppo piacevole e una tendenza in alcuni passaggi a sconfinare nell’urlo. Rispetto ai colleghi l’interprete è più generica, più a suo agio nei momenti più concitati ed estremi (il punto più alto della sua prova è stato sicuramente il “No!… Giusta causa non è d’iddio”) che in quelli più lirici dove si notava una certa mancanza di morbidezza resa ancor più evidente dalla lezione offerta in tal senso da Meli.
Bella presenza vocale e ottimo squillo l’Arvino di Giuseppe Gipali, efficace pur con un’emissione correggibile il Pirro di Antonio Di Matteo e autentico lusso la presenza di Lavinia Bini (Viclinda) e Alexandra Zabala (Sofia). Completavano il cast Giuseppe Capoferri (Acciano) e Joshua Sanders (Il priore di Milano). Quasi superfluo ribadire l’ottima prova del coro, molto impegnato e a cui Verdi affida alcune delle pagine più celebri dell’opera.
Autentico trionfo per tutti gli interpreti, una giornata di sole musicale fra le cupe tenebre che si addensano all’orizzonte per il futuro del Teatro Regio.