Con Jon Vickers – scomparso lo scorso 11 luglio – ci ha lasciati uno degli artisti più straordinari che abbiano calcato le scene liriche nel dopoguerra.
Nato ad Prince Albert in Canada il 29 ottobre 1926 sesto di otto figli aveva cominciato gli studi musicali a Toronto per poi trasferirsi a Londra nel 1957 entrando rapidamente nella compagnia del Covent Garden debuttando in “Un ballo in maschera” verdiano. Fin da subito quella di Vickers è stata una carriera folgorante che nel giro di pochi anni ha fatto di lui uno dei tenori drammatici di riferimento sulla scena mondiale. In Italia si fa conoscere nel 1961 quando interpreta alla Scala la “Medea” di Cherubini già affrontata negli anni precedenti a Dallas e Londra sempre al fianco della Callas e forse per l’unica volta la Medea della cantante greca ha trovato di fronte un Giasone capace di rispondere colpo su colpo tanto sul piano della presenza vocale quanto su quello dell’accento invece di soccombere implacabilmente al confronto con la Divina. I primi anni Sessanta segnano anche i primi successi discografici – “Otello” con Serafin nel 1960, “Die Walkure” con Leinsdorf nel 1961 – inizio di una carriera che lo ha visti trionfare fino agli anni Ottanta su tutti i palcoscenici del mondo – e che ovviamente non è possibile delineare in dettaglio in questa sede.
Meglio allora provare a inquadrare le ragioni della grandezza artistica di Vickers. Al primo ascolto la voce del tenore canadese può lasciare fino sgomenti, certo amplissima, potente e ricchissima di armonici ma anche decisamente non bella nel senso classico del termine, anzi decisamente poco avvenente in un timbro povero e fin troppo personale ma subito superato questo primo gradino scatta l’ammirazione per la tecnica esemplare, per la capacità di piegare una voce enorme ad ogni minima volontà e così le mezze voci, le appoggiature, i pianissimi hanno del miracolo considerando la granitica solida di partenza e poi si rivela la vera grandezza di Vickers, il suo essere artista fino in fondo, la capacità di essere sempre al servizio della musica e della drammaturgia, la capacità di dare senso ad ogni parola, ad ogni suono cui si aggiunge, nelle fin troppo rare testimonianze video, una grandezza di attore che ha avuto pochi confronti nella storia della lirica ragioni che fecero di lui uno dei cantanti prediletti dai maggiori direttori del suo tempo.
Di tutti i ruoli affrontati da Vickers paradigmatico resto il suo Otello già originalissimo nella ricordata incisione del 1961 e progressivamente maturato fino all’edizione con Karajan 1973 che testimoniata in film permette di apprezzarlo in tutti i suoi aspetti. In una stagione dominata dal paradigma Del Monaco, decisamente monocorde ma di grande effetto sul pubblico nella sua animalesca irruenza – Vickers propone un modello opposto, un Otello sfumato, ricchissimo nella dinamica espressiva – per una volta fedele alle indicazioni di Verdi – in cui l’imponenza eroica della voce sembra sempre nascondere la fragilità di un “diverso” in lotta per essere accettato da se e dal mondo fino al crollo conclusivo di tutte le sovrastrutture e alla riscoperta di una profonda umanità volontariamente schiacciata fino a quel momento e che esplode in quel “un bacio ancora” ma così colpo di assoluta e insostenibile dolcezza. Sempre in ambito verdiano da segnalare il suo Radames – con Solti nel 1962 – capace di reggere senza problemi le colossali architetture sonore del maestro ungherese senza però sacrificare nulla in fatto di cura del dettaglio fino alla prodezza assoluta del si bemolle conclusivo di “Celeste Aida” dove riesce a smorzare il suono mantenendo la pienezza timbrica e vocale.
Oltre a Verdi l’altro grande nume tutelare di Vickers è stato Wagner e forse mai si è sentito un Siegmund altrettanto profondamente torturato e al contempo così radioso alla scoperta dell’amore di Siegliende come quello che Vickers già aveva fatto balenare con Leinsdorf e poi portato a compimento con Karajan nel 1966 e sempre con Karajan – nel 1971-72 – Vickers sigla un inarrivabile riferimento come Tristan dove sul sublime velluto steso da Karajan la sua voce si dipana con tutto il senso di dolorosa umanità che fin dal nome accompagna il principe di Cornovaglia culminante in un monologo del III atto mai altrettanto impressionante nella sua atmosfera allucinata ma sempre retta da una quadratura musicale assoluta.
Le origini canadesi lo favorivano inoltre nel controllo della prosodia francese e non casualmente alcuni ruoli francesi hanno trovato in lui un interprete paradigmatico e se dispiace che la “Medea”sia sempre stata affrontata nella mediocre traduzione italiana non si può tacere del suo Samson e del suo Don José. Nell’opera di Sant-Saens Vickers firma uno dei suoi capolavori, il suo Samson ha veramente l’autorità di un profeta – “Arrêtez ô mes frères” ha veramente una grandezza biblica che rende ancor più interessante il progressivo crollare sotto i colpi del fascino sensuale di Dalila fino ad un “Prends ma vie en sacrifice” che in lui diventa autentica abiura della fede in nome dell’amore. In “Carmen” è quanto mai stimolante il confronto fra le due incisioni di Karajan – quella audio del 1963 e il film del 1967 – all’interno di una versione direttoriale sostanzialmente analoga di sfolgorante sontuosità – anche se resta sempre un sentore di superficialità – il confronto fra i due José è quanto mai sintomatico. Corelli domina sul piano dello splendore vocale ma tutto tende a ridursi a quello lasciando i contorni del personaggio fin troppo sfocati mentre Vickers scava ogni sillaba, costruisce un personaggio umanamente ricchissimo e drammaturgicamente coerente in ogni sua scelta verso un’inevitabile dannazione che nelle drogate allucinazioni interiori della romanza del fiore era già inevitabilmente segnata.
Il repertorio belcantista gli è stato meno abituale ma non si può non ricordare il suo Pollione nella “Norma” belliniana testimoniato in video da una magica serata ad Orange nel 1974 al fianco di una Caballé in stato di grazia dove viene fornita una delle intepretazioni più nobili e autorevoli del proconsole romano. Sul versante opposto va segnalata la frequentazione – specie negli ultimi anni di carriera – dell’opera di Benjamin Britten e in specie del “Perer Grimes” di cui Vickers ha offerto una lettura personalissima, volutamente opposta a quella di Peter Peers – creatore e interprete assoluto del ruolo – e tutto ruotata su un senso di tragica fatalità di un’umanità aspra ma profonda destinata inevitabilmente a perdersi nel piccolo mondo del villaggio incapace di comprenderne l’enorme portata, una lettura perfettamente in linea con la visione cupa e senza speranza – che invece balenava nella direzione dello stesso Britten – che dell’opera ha Colin Davis che proprio con Vickers protagonista firma uno degli spettacoli più straordinari relativi all’opera del Novecento documentati su video (Londra 1980).
Quelli citati sono ovviamente pochi accenni ad una carriera straordinaria in cui per un trentennio il tenore canadese si è cimentato su tutti i palcoscenici del mondo in un repertorio vastissimo fra Monteverdi – “L’incoronazione di Poppea” a Parigi nel 1978 – all’opera contemporanea. Cantante forse non nota e amato come meriterebbe dal pubblico italiano – ma in Italia il mito della “bella voce” è ancora troppo duro a morire – ma uno dei maggiori artisti che il teatro lirico abbia conosciuto e che tutti gli appassionati dovrebbero provare a conoscere.
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