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Archive for the ‘Storia d’Europa’ Category

Il grande amore mostrato dagli Zar e dall’aristocrazia di corte per l’arte dell’antichità classica veniva a scontrarsi con un dato di fatto, la Russia non aveva mai fatto parte del mondo romano, e solo in modo molto periferico di quello greco, la “Sacra terra Russa” non poteva restituire le grandi sculture, i mosaici, i vasi figurati che tanto affascinavano i collezionisti; quello che nascondeva sarebbe venuto alla luce solo successivamente, solo a partire dagli anni 50’ del XIX secolo con l’inizio di scavi sistematici nelle colonie greche del Mar Nero si ritrovarono significativi esemplari di statuaria classica nelle terre dell’impero russo.

Questa particolare situazione, grande richiesta e assenza di ritrovamenti in patria, imponeva ai collezionisti di muoversi sul mercato internazionale dell’arte, che specie nel XVIII era si particolarmente ricco, ma anche un terreno estremamente pericoloso, dove un acquisto indovinato a scapito di un concorrente, poteva ribaltare rapporti internazionali raggiunti dopo anni di sforzi diplomatici .

In un contesto di questo tipo si affermo precocemente la pratica di realizzare, o far realizzare, a nuovo ciò che non si poteva acquistare, ovvero la realizzazione di copie delle grandi opere conservate nei musei d’Europa ed inarrivabili anche per i rapaci agenti degli Zar. Lo sviluppo di tradizione copistica favorì la rapida affermazione in Russia del neoclassicismo e l’affermarsi di una moda all’antica, con la conseguente produzione di un gran numero di nuove opere, spesso legate alla contingente realtà storica, rivestita secondo le forme dell’arte antica o di quella del Rinascimento italiano. Nel presente capitolo si vuole fornire un sintetico quadro di questo fenomeno, essenziale per capire la cultura artistica della Russia, ma più generalmente dell’Europa non mediterranea, nel corso del XVIII secolo e dalla prima metà del secolo successivo. 

Le copie di opere famose erano in genere commissionate all’esterno, nei paesi in cui erano conservati gli originali, in specie in Italia. Già Pëtr I Alekseevič aveva commissionato un gran numero di sculture di soggetto antico in Italia, specialmente Roma e Venezia, per la decorazione del Giardino d’Estate , ma in questo caso non si può ancora parlare di copie quanto di statue moderne che rielaborano i soggetti della mitologia classica secondo il gusto tardo barocco dell’epoca.

L’ascesa al potere di Caterina II segna una svolta anche in questo settore, ora ciò che si commissione sono copie precise dei grandi capolavori dell’antichità, e non solo, conservati in Italia che devono servire a modello per le nuove botteghe di corte che vengono aperte a San Pietroburgo. Ivan Šuvalov fa realizzare a Roma un gran numero di calchi in gesso delle più importanti sculture della città destinati a fornire il modello per la realizzazione di una serie di statue in bronzo per le residenze di Caskoe Selo e Pavlovsk, nonché di acquerelli con le copie delle “grottesche di Raffaello”, ovvero della decorazione delle Logge Vaticane, poi fedelmente riprodotte nel Palazzo d’Inverno .  Tra i principali committenti di copie in gesso di sculture romane vi fu l’ultimo favorito dell’imperatrice, Aleksander Lanskoj. Il giovane principe collezione in oltre un gran numero di statuette in argento e bronzo di produzione italiana, riproduzioni in scala ridotta dei grandi capolavori della scultura barocca . Alla morte del giovane favorito, nel 1784, la collezione Lanskoj confluirà in quella dell’Imperatrice  formando il nucleo di una raccolta destinata a continui ampliamenti negli anni successivi, in particolar modo durante il regno di Aleksander I Pavlovič, quando venne acquistata parte dei bronzi della collezione Farnese, conservati nel palazzo reale di Napoli , tra le quali emerge un busto di Antinoo  opera di Guglielmo della Porta (1515-1577).

Il riferimento ad Antinoo ci riporta idealmente ad Adriano e alla sua villa di Tivoli che furono modelli onnipresenti per Caterina II ed i suoi successori. In particolar modo la Zarina aveva tra i suoi modelli ideali l’imperatore spagnolo, a ciò si è già fatto accenno, rapporto ideale che venne a rafforzarsi dopo la prematura ed improvvisa morte di Lanskoj, divenuto per l’imperatrice un novello Antinoo.

Proprio a seguito della morte dell’amato Aleksander Caterina fece realizzare una serie di statuette egittizzanti in onice e marmo rosso egiziano raffiguranti Antinoo-Osiride, riproduzioni ridotte di una statua in porfido da Villa Adriana, oggi ai Musei Vaticani . Il messaggio sotteso alle nuove realizzazioni è evidente, l’identificazione di Lanskoj con Antinoo e quindi con Osiride, in un processo di divinizzazione all’antica, almeno nei modi in cui era possibile alla fine del XVIII secolo.

Le statuette di Caterina servirono da modello per successive realizzazioni, ormai slegate dalle ragioni sentimentali che avevano caratterizzato la prima committenza e frutto della modo egittizzante diffusa in Europa dopo la campagna napoleonica in Egitto del 1798, si tratta di un piccolo busto di Osiride ed una testa di Antinoo-Osiride , prodotte in Italia alla fine del XVIII secolo ed acquistate da Aleksander I Pavlovič per completare il gruppo già presente in Russia. 

Un altro soggetto proveniente da Villa Adriana affascinò profondamente Caterina II ed il mondo di corte che la circondava, il celebre mosaico di Sosos di Pergamo raffigurante un gruppo di colombe che si abbeverano ad un bacile,  di cui una splendida copia era stata trovata nella Villa tiburtina .

La prima riproduzione, estremamente libera, giunta in Russia è una trasposizione a tutto tondo realizzata a Roma nel 1770 da Giuseppe Valadier . Si tratta di una coppa in agata rossa su una base di diaspro arricchita da colombe in bronzo dorato. Acquistata dalla Zarina nel 1777 e donata a Lanskoj , ritorno nelle collezioni imperiali alla morte di questi. 

Negli anni seguenti giunsero a San Pietroburgo almeno cinque riproduzioni del medesimo soggetto, tutte commissionate a Roma da collezionisti russi, si tratta di: un tavolo  con piano decorato a mosaico e gamba in marmo, realizzato da Antonio Mora ed acquistato da Caterina II nel 1791 per farne dono alla contessa E. K. Scavronskaia, nipote dei principi Potëmkin; e quattro mosaici minuti acquistati da collezionisti privati e per i quali non è sempre facile ricostruire le vicende in quanto rimasti in collezioni private fino alla Rivoluzione, prima di essere convogliati all’Ermitage erano conservati nel gabinetto imperiale degli oggetti d’arte di Mosca, collezione di N. V. Frolov, Museo Stieglitz a San Pietroburgo, collezione del principe L. M. Kotchubej .

Su tutte le altre produzioni emerge, per importanza e qualità la produzione di gemme e cammei all’antica, che interesso direttamente la corte non solo come committenza ma anche come realizzazione. Abbiamo a suo tempio accennato come Caterina II integrasse la propria collezione glittica con copie in pasta vitrea di ciò che non aveva potuto acquistare in originale, copie fatte eseguire principalmente a Londra e Napoli. Successivamente s’istituì un laboratorio glittico a San Pietroburgo, affidato al chimico Georg König e all incisore Karl Leberecht, originariamente incaricato di realizzare copie in pasta vitrea degli esemplari imperiali, in modo da facilitare il trasporto, Caterina non si separava mai dalle sue amate antichità come abbiamo già ricordato.

Le funzioni del laboratorio furono però presto aumentate e ad una mera attività copistica si aggiunse la realizzazione di cammei ex novo, su materiali preziosi e non più di pasta vitrea, sia riproducenti soggetti classici sia con ritratti e soggetti di attualità, trattati sempre all’antica. Una svolta in questo senso si ha in occasione della presa di Očakov nel 1785, in quell’occasione Caterina invio a Potëmkin una gemma con il suo ritratto: “vi mando un ritratto, inciso su una gemma, del conquistatore di Očakov, entrambi, la gemma ed il ritratto, sono intagliati nel mio Hermitage” , scriveva la zarina nella lettera che accompagnava il dono, con un non celato orgoglio per la qualità raggiunta dall’atelier imperiale sotto la guida di Leberecht.

Una nuova serie di cammei fu commissionata all’incisore tedesco dopo la morte di Lanskoj, questi presentavano il profilo del giovane favorito in un’immagine di assoluta purezza che servi da modello per un medaglione commemorativo e poi per il tondo di marmo che andò a decorare il monumento in onore di Lanskoj a Carskoe Selo .

Quali fossero le vere ambizioni di Caterina II in relazione alla bottega glittica dell’Ermitage si ricavano in una lettera a Grimm per informarlo che il catalogo delle sue pietre intagliate, fatto realizzare dal bibliotecario Aleksander Lužkov, era terminato: “tutto è catalogato sistematicamente, a cominciare dagli Egizi e passando per tutte le mitologie, le storie fantastiche e non, fino ai nostri giorni […], un giorno, forse, ci saranno pure la presa di Praga, e gli eroi Suvorof, Fersen e Derfelden. Valérien [Zubov] c’è già” .

La passione delle gemme contagiò molti dei personaggi emergenti della corte della Zarina, anche se è difficili dire quanti lo furono veramente e quanti si finsero tali per piaggeria cortigiana, ma è innegabile che per alcuni fu una passione sincera, e alcuni non si limitarono al collezionismo ma s’impegnarono per far propria la non semplice arte dell’intagliare cammei, spesso ottenendo risultati egregi. Fra questi vi fu uno dei favoriti di Caterina, Aleksander Dmitriev-Mamonov, la cui abilità stupì non poco la stessa imperatrice come traspare chiaramente dalle sue stesse parole: “Questo è per certificare che sono stata testimone (altrimenti non avrei mai potuto crederlo) che Aleksander Dmitriev Mamonov ha intagliato di sua mano il sigillo in corniola che accompagna questo documento e che Leberecht non ha partecipato in nessun modo al lavoro” . Il miglior risultato ottenuto da Dmitriev-Mamonov va probabilmente identificato in una sardonica con ritratto di Caterina II nelle vesti di Minerva.

Fra tutti i suoi cortigiani quella che indubbiamente mostrò un talento superiore alla media fu la nuora, la granduchessa Marjia Fëdorovna (la principessa tedesca Sophia Dorotea von Wüttenberg), molto più vicina, per interessi e cultura, alla suocera che non al marito. Marjia mostro una straordinaria abilità di intagliatrice, realizzando una serie di cammei in sardonica dei membri della famiglia imperiale, la stessa Caterina, il marito Pavel (il futuro Pavel I Pëtrovič) ed i figli Aleksander (il futuro Aleksander I Pavlovič) e Costantino. In particolar modo il ritratto della Zarina, che riprendeva il tipo di Caterina II-Minerva introdotto da Dmitriev-Mamonov, ma lo realizzava con una precisione e pulizia formale sconosciute alla pur ottima realizzazione del favorito, gli garantirono la sincera approvazione dell’imperatrice .

La tradizione glittica introdotta da Caterina II continuò a lungo in Russia, sostenuta dalla passione per questa forma d’arte che caratterizzò buona parte dei membri di casa Romanov. Le botteghe di corte continuarono a produrre ottimi incisori, i soggetti erano prevalentemente riproduzioni di cammei classici o rinascimentali, ma continuò anche la produzione di cammei con ritratti dei membri della famiglia e della corte, in genere trattati all’antica. Tra i maggiori esponenti di questa produzione ricordiamo Semion Odintsov (1795-1848) autore di pregevoli cammei egittizanti in diaspro degli Urali ; Vassilji Cheremnov (1790-1839) specializzato in soggetti storici e mitologi, specie ritratti di imperatori romani ; Dmitrji Pietrovskji (1806-1848)  e Vassilji Kaloughine (1810-1862)  che ci hanno lasciato due splendide versioni della testa di Menelao del gruppo del Pasquino. 

In fine merita un accenna il ricchissimo artigianato, rivolto prima alle committenze aristocratiche e di corte, poi rivolto anche verso la nascente borghesia urbana, di ceramiche, vetri, portacandele, incensieri, oggetti d’arredo, ispirati ad una rigorosa moda neoclassica e prodotti da numerose botteghe, prima a San Pietroburgo, poi anche nell’infinita provincia russa .

Aleksander Dmitriev Mamonov. Cammeo con Caterina II come Minerva

Vassilji Kaloughine. Cammeo con testa di Menelao.

A. P. Lotvine. Tavolino a mosaico con coppia del mosaico delle Colombe (da un originale di Sosos di Pergamo)

 

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Uno dei documenti più noti sul pantheon della Cartagine ellenistica è rappresentato dal giuramento che chiudeva il trattato di alleanza concluso da Annibale con gli emissari di Filippo V di Macedonia nel 215 a.C. con l’invocazione delle Divinità chiamate a garantire il patto.

L’elenco di divinità – composta da tre serie di triadi in ordine apparentemente decrescente di importanza – è riportata da Polibio nella forma greca che se da un lato ci informa sui processi di sincretismo fra divinità puniche e greche in atto in quel momento a Cartagine – che pur anellenica può considerarsi una grande città ellenistica e una delle punte più avanzate dell’ellenismo verso occidente in un ruolo speculare a quello svolto da Roma sull’altra sponda del Mediterraneo – di contro rende non agevole identificare le divinità puniche indicate sotto il nome greco.

La prima fila, quella dedicata alle somme divinità celesti è quella che appare meno problematica al riguardo. Il testo greco indica Zeus, Hera e Apollo ma l’interpretazione greca qui non sembra dare problemi particolari. Con Zeus va inteso il sommo Dio del pantheon punico ovvero Baal Hammon e se questi presenta spesso tratti prevalentemente ctoni non manca di una componente urania, inoltre specie in Oriente Baal appare come Dio della tempesta – meno in Africa ma l’eco dell’associazione è comunque possibile anche qui – e come tale doveva risultare famigliare allo storico greco. Ancora più automatica l’associazione fra Hera e Astarte, abbiamo tutti presente il ruolo di Giunone in Virgilio e i suoi legami con Cartagine e Didone ma anche la centralità che il culto di Iuno Coelestis ha avuto in Africa per tutta l’età imperiale – e proprio da Cartagine il suo culto è introdotta a Roma da Elagabalo – ma l’associazione è ben più antica e non solo Cicerone parla di un Fanum Iunonis a Cartagine in relazione al tempio di Astarte noto per ricchezza e antichità ma ancor prima l’identificazione è attestata in forma inequivocabile dalle tavolette auree di Pyrgi datate al regno di Thefarie Velianas – intorno al 500 a.C. – dove alla fenice Astarte corrisponde l’etrusca Uni.

Altrettanto abituale l’associazione fra Apollo è il Dio semitico Eshmun il cui culto di origine sidonia era molto popolare a Cartagine – ad Eshmun era dedicato il grande tempio sull’acropoli cittadina – il che spiega la sua presenza nella triade delle divinità somme. Il suo culto è antichissimo e accenni risalgono fino al III millennio a.C. negli archivi eblaiti mentre in contesto prettamente fenicio compare per la prima volta nel 754 a.C. nel trattato fra Assurnirari V d’Assiria e il re sidonio Arpad. La radice del Dio šmn “olio” lo identifica come “colui che è unto” nello stesso mistico che l’unzione ha nella tradizione biblica. Doveva avere principalmente funzioni di Dio guaritore, in Fenicia e in Siria è identificato fin da età ellenistica con Apollo Iatros e più raramente con Asklepios. Secondo alcuni studiosi l’Apollo medico invocato a Roma nei riti delle Vestali sarebbe proprio l’Eshmun punico cosa non improbabile considerando la precoce diffusione di culti punici nell’Italia tirrenica attestati non solo dai già ricordati documenti etruschi ma anche dall’ormai riconosciuta origine semitica del culto di Ercole al Foro Boario. Come ricordato a Cartagine il tempio sorgeva sull’acropoli ed era fra i più splendidi della città, sappiamo da Appiano che tanto la statua di culto quanto la cella erano rivestite di lamine d’oro che richiamano la sfera solare altro legame di assimilazione ad Apollo.

La seconda è forse la più interessante delle triadi, qui sono invocati a garantire il patto il Daimon dei Cartaginesi, Eracle e Iolao. Nel primo si è proposto di riconosce Elissa divinizzata ma appare più probabile vedervi Tanit in quella personalità di dea nazionale dei cartaginesi che sopravvivrà alla conquista romana evolvendo nel culto del Genius Terrae Africae. Caratteristica è l’immagine – purtroppo molto frammentaria – che compare su una stele neopunica da El Kenissia, in cui si riconosce la parte inferiore di una figura femminile vestita con una tunica fittamente pieghettata e con un mantello di piume. Si tratta di un elemento di matrice egiziana, proprio dell’iconografia isiaca, attestato nel mondo punico con una certa frequenza e sempre in relazione a Tanit, evidentemente in conseguenza dei processi sincretistici fra la grande dea punica e Iside che avvengono a partire dall’età ellenistica.

Significativo è il confronto con un sarcofago dalla necropoli di S. Monica a Cartagine datato fra la fine del IV e il III a.C. Sul coperchio è raffigurata l’immagine della defunta, una sacerdotessa di Tanit assimilata alla Dea tramite l’abito alato. Lo stesso abbigliamento caratterizza la Dea leontocefala G(enius) T(errae) A(fricae) quale compare in due statue fittili provenienti dal santuario neopunico di Thinnissut, nella parte meridionale del Cap Bon nonché in alcune emissioni monetarie. Questa figura viene ormai generalmente riconosciuta come immagine semi-zoomorfa di Tanit.

Eracle traspone fin troppo palesemente Milqart, il Re-Dio di Tiro città madre di Cartagine la cui identificazione con l’Alcide risale ai primi contatti fra mondo greco e fenicio probabilmente in ambiente cipriota e divenuta sistematica in età ellenistica da Gades alla Mesopotamia parthica. La quantità e la certezza delle attestazioni rendono l’analisi fin eccessiva per questo contesto e ci si propone di ritornare sul tema in altra occasione e in modo più puntuale.

L’associazione fra Eracle e Iolao era ovviamente scontata per un greco ma nel presente caso non sembra probabile trovarsi di fronte all’abituale compagno dell’eroe peloponnesiaco. Molte iscrizioni puniche e libiche presentano teonimi contenenti il prefisso Iol/Ial, il particolar modo il nome Y’lp’l “Yol a fatto” – attestato ad Althiburos e Malta – sembra indicarlo come una divinità creatrice; il Dio è però sconosciuto in Oriente e la radice del nome non appare di matrice semitica, essa trova invece confronti nelle lingue indigene del mondo libico e numida cui va riportata anche l’origine della divinità, adottata dai coloni fenici dove il trasferimento in Africa.

Appare forse possibile vedere nella seconda triade divina del giuramento una sorta di catalogo etnico-geografico, cui sono si riconoscono i vari elementi costituenti la società cartaginese: la stessa Cartagine identificata da Tanit come Δαίμων Καρχηδοήιον, Eracle nel quale possiamo riconoscere il Melqart di Tiro, protettore della madre patria orientale dei cartaginesi e Iolao, interpretabile come il dio berbero Iol, sicuramente conosciuto a Cartagine, e rappresentante la componente africana, libico-berbera.

La terza triade è quella forse ancora più difficile da interpretare, qui sono evocati Ares, Poseidone e Tritone.  Per quanto riguarda Ares appare poco probabile l’identificazione con Eresh proposta a suo tempo da Gsell e basata solo sull’assonanza onomastica non avendo questi nessun carattere guerriero dubbi anche i confronti con il Dio arabo Arsu venerato a Palmyra ma che per molti aspetti appare come la semplice tradizione locale dell’Ares greco diffuso in Oriente dai Seleucidi. Picard propone l’esistenza di un “Marte punico” basandosi su un rilievo con cavaliere armato su una stele dal tophet di Cartagine e confrontandolo con il gesto benedicente di alcuni cavalieri su rilievi numidiche possono essere letti come immagini di un Dio locale anche se l’armamento leggero sembra indicarlo più come un cacciatore che come un guerriero. Marte è ricordato come Deus patrius a Mididi in Bizacena e questa sembrerebbe confermare l’esistenza di un culto indigeno assimilato a Marte anche se poco di più preciso può essere affermato al riguardo.

Ancor più complesso è riconoscere quali siano le divinità marine evocate per l’occasione, i fenici e poi i cartaginesi avevano uno strettissimo legame con il mare e in età romana il culto di Nettuno è fra i maggiori della provincia e fra quelli che più attestano la presenza di tradizioni indigene alle spalle della divinità romana. Una stele hadrumetina presenta una dedica a B’l rš, interpreta da Cintas come Reshef  va più probabilmente sciolto come Baal Rosh o Baal Rash, il “Signore del capo”, ipotesi tanto più probabile provenendo la dedica da un ̉š b’m ̉ytnm “appartenente al popolo dell’Isola dei tonni”, identificata con l’isola di Sidi el-Garsmsi, al largo del promontorio di Monastir e chiamata “tonnara” fino a tempi recenti per il suo ruolo come centro della pesca al tonno . L’esistenza di divinità incaricate di presidiare capi o promontori è ampiamente attestata in Fenicia. Il capo di Rās en-Nāqūra fra Tito ed Akko è ricordato nei documenti assiri come Ba – ‘li – ra – ̉ – si corrispondente al fenicio Baal Rā’š .

La documentazione storica e i dati archeologici confermano l’esistenza di un Baal marino interpretato come Poseidone e Nettuno dai greci e dai romani ma anche la complessità per non dire l’impossibilità di ricostruire con un dettaglio accettabile questa figura. Per Tritone il pensiero corre immediatamente al cavaliere marino di un rilievo da Kerkouane ma è difficile andare oltre la semplice suggestione.

L’ampia ed esauriente analisi fatta da Fantar mostra pienamente la complessità dei problemi relativi alle divinità marine dei popoli fenici e al rapporto fra la sfera divina e il mare in quel mondo,  si rimanda al lavoro dell’archeologo tunisino chi fosse interessato a ulteriori approfondimenti impossibili in questa sede (M- Fantar, “Le dieu de la mer chez pheniciens et punique”, Roma 1977).

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La nascita di un’autentica oreficeria nell’Europa del nord è un fatto relativamente recente, per quanto l’oro fosse conosciuto e saltuariamente usato fin dall’età del bronzo solo a cavallo fra il I a.C. e gli inizi del secolo successivo si assiste allo sviluppo di un’arte orafa avanzata in cui sono più che evidenti le influenze provenienti dal mondo ellenistico-romano e soprattutto dai centri greci e grecizzati della regione pontica attraverso le steppe dell’Europa orientale. Le più antiche forme dell’oreficeria nord-germanica e scandinava ovvero le perle biconiche e i pendenti piriformi sono di matrice mediterranea tanto nella forma quanto nella decorazione che utilizza i metodi della granulazione e della filigrana secondo procedimenti analoghi a quelli del mondo ellenistico con una dominante prevalenza della filigrana con fili ricavati per martellature successive che resterà in uso in Scandinavia fino agli albori dell’era vichinga quando anche al nord si diffonderà il metodo a trafila. Oggetti come le perle biconiche di Broa nel Gotland svedese e i pendenti di Albäck in Danimarca potrebbero tranquillamente essere scambiati per prodotti italici o ellenistici.

Questa situazione continua fino al II d.C. – ma produzioni parziali restano attive fino ai primi secoli del medioevo – quando si afferma un nuovo tipo di gioiello fatto da collari o bracciali massici, con semplice decorazione punzonata. Lungi da essere un ritorno a modalità barbariche questi nuovi ornamenti sono la conseguenza di un sempre più stretto contatto con il mondo romano e rappresentano una forma di economia proto-monetaria; si tratta infatti di esemplari a pesatura determinata funzionali agli scambi fra comunità e che adottato in modo sistematica le unità ponderali romane.

Particolare fortuna cominciano a godere i medaglioni imperiali romani (le cosiddette sportule” che cominciano a diffondersi sempre più profondamente oltre il limes a partire dalla fine del III d.C. Medaglioni celebrativi o dono fra élite questi esemplari di monete celebrative di alto valore intrinseco ed artistico erano particolarmente amati dalla nobiltà germanica che spesso li trasformava in pendenti con l’aggiunta di una cornice e di un anello di sospensione come nel caso di un esemplare dal tesoro visigoto di Simleul Silvaniei dove 14 medaglioni sono montati a formare un’unica monumentale collana.

La difficoltà d’accesso agli originali portò specie nelle regioni più periferiche ad una produzione imitativa, quello che però più sorprende è che queste popolazioni erano sostanzialmente in grado di leggere e di comprendere i valori simbolici dell’arte ufficiale tardo-antica e di piegarli alle proprie esigenze. I medaglioni di Bredstad in Danimarca e Bohuslän nella Svezia occidentale presentano ritratti che a prima vista sembrerebbero solamente imitazioni rozzamente provinciali di coni di età teodosiana ma alcuni elementi come il grande torques del ritratto danese o l’anello di tipo baltico evidenziato in quello svedese rendono molto probabile che a venir raffigurati sia capi locali che cercavano in qualche modo di far proprio il prestigio connesso alle immagini imperiali romane.

Questo ci introduce a quella che è per molti aspetti la più interessante delle produzioni orafe – e più in generale dell’intera arte figurativa – del mondo nordico, i “bratteati scandinavi”. Prodotti principalmente fra il 400 e il 550 d.C. circa in un’area compresa fra la Danimarca e la Svezia meridionale ma diffusi in tutto il mondo nordico fino alle coste norvegesi rappresentano il caso più emblematico di adozione da parte delle popolazioni norrene del periodo di moduli formali tardo-romani riusati però per esprimere concetti e tradizioni prettamente locali. Se gli esemplari più antichi – fine del IV d.C. – riproducono ancora soggetti romani come in un esemplare da Hov in Norvegia con un ritratto diademato con la tipica acconciatura dell’età teodosiana, gli esemplari subito successivi mostrano l’emergere sempre più chiaro l’elemento locale.

Intorno al 400 d.C. si data il medaglione di Tunalund, lo schema formale è ancora di evidente matrice mediterranea con il busto diademato – anche se reso in modo meno classico dell’esemplare precedente – circondato da un’iscrizione in caratteri imitanti l’alfabeto latino e apparentemente senza significato. Non si può non notare però il busto che si trasforma in un uccello quasi a voler rappresentare i poteri metamorfici della figura rappresentata e nella tradizione mitologica germanica quale noi la conosciamo nella tradizione medioevale quella è una delle peculiarità di Odino. L’immagine dell’imperatore si è trasformata in quella del primo fra gli Dei? Molti elementi sembrano confermarlo. Il primo è relativo ai contesti di ritrovamento, la quasi totalità dei medaglioni proviene da depositi votivi confermando uno stretto legame con la sfera del sacro. Inoltre le iconografie di molti esemplari indirizzano decisamente in quella direzione.

Molti degli esemplari rimandano ad Odino e al suo mondo. Non vi sono dubbi nel riconoscere il Dio nella figura a cavallo – spesso solo la testa posata sulla gruppo – che compare nella più numerosa serie di bratteati. Alcuni esemplari di particolare pregio come quello di Funen in Danimarca non solo emergono per la forza decorativa in cui disegno e iscrizione runica si fondono alla perfezione ma anche per la ricchezza iconografica che associa Odin cavalcante – in questo caso altre alla testa dalla complessa acconciatura ancora derivata da modelli romani dei primi del V d.C. stravolti da rovesciamento prospettico su un unico piano e con la sola treccia come aggiunta locale si identificano chiaramente anche il busto e la mano che regge le redini – il corvo totemico. Altri esemplari associano al Dio il cane o il serpente come nel caso di Røgenes in Norvegia dove la parte inferiore delle zampe del cavallo si trasforma in cani intenti a leccare la coscia dello stesso. Il gesto era ben noto alla medicina antica per le proprietà antisettiche della saliva canina e sembra voler identificare la funzione guaritrice di Odino; non si può escludere che il cane e il serpente siano mutuati dall’Esculapio romano proprio con questo valore a confermare la pluralità di modelli classici acquisiti ed elaborati dagli artigiani norreni. Probabilmente di origine romana è anche il mostro marino che compare sul medaglione di Snorup che reinterpreta secondo il gusto decorativo e lineare locale il ketos delle storie di Giona, interpretato da alcuni Gaimster come raffigurazione della vittoria simbolica di Odino sulla morte potrebbe anche raffigurare il serpente di Miðgarðr con valenze profilattiche analoghe alle immagini mostruose diffuse nel mondo mediterraneo.

Alcuni esemplari mostrano poi più complesso in cui appare un preciso intento narrativo. Un medaglione da Års mostra un guerriero stante con elmo dall’alto cimiero chiaramente derivato dal Marte romano, questo però impugna come arma un’ascia e soprattutto appare trafitto da una grande freccia che partendo dalla sua mano ruota fino a rivolgersi contro di lui, l’immagine si può facilmente leggere come raffigurazione dell’episodio – documentato nell’Edda – del sacrificio volontario di Odino colpito dal suo stesso giavellotto mentre era appeso all’albero sacrificale.

La scena più complessa è però quella che ritroviamo sull’esemplare di Failse con la morte di Baldr caratterizzata da una complessa composizione a tre personaggi. Al centro compare il giovane Dio mortalmente ferito dalla freccia di vischio. Alla sua destra troviamo la figura forse più interessante, si tratta di Loki trasformato in una vecchia per avvicinarsi a Baldr senza dare sospetto. L’artigiano danese si è ispirato per quest’insolita figura alle vittorie che accompagnavano le immagini imperiali che non solo il Dio è alato ma ancora si riconoscono il serto nella mano destra e la sfera su cui sono posati i piedi. Alla sinistra Odino – identificato dal corvo e dalla lancia – assiste alla scena.

I bratteati scandinavi ci danno importanti informazioni, essi mostrano la capacità di recezione e di reinterpretazione dei modelli classici, l’esistenza già nel V-VI d.C. di quella mitologia che conosciamo dalle fonti medioevali e che a questo orizzonte cronologica ci appare già evoluta ed organizzata nelle sue linee essenziali essi inoltre rappresentano una delle pochissime espressioni figurative del pantheon nordico e della necessità di dare a questo una componente visiva contrapposta al tentativo di penetrazione del cristianesimo e del suo linguaggio per immagini

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Medaglione bratteato da Funen

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Ricostruzione grafica dei medaglioni bratteati di Års e Failse

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La presenza romana nei territori oltre il limes, anche in quelli apparentemente più remoti e distanti è stata più ampia e diffusa di quanto spesso si pensi, non solo il limes non fu mai una frontiera nel senso moderno del termine ma piuttosto una fascia permeabile a contatti in entrambi i sensi ma tracce di una frequentazione romana sono ritrovabili anche in territori estremamente lontani da quella fascia. Qui verranno ricordati due esempi – fra i molti disponibili – di penetrazione romana nei territori interni dell’Africa con l’esclusione della Nubia che per i suoi millenari rapporti con l’Egitto ha sempre rappresentato un ambito particolare per i contatti fra mondo mediterraneo e Africa nera.

La spedizione di Giulio Materno nell’Agisymba

Durante il regno di Domiziano un mercante di Leptis Magna Giulio Materno accompagno il Re dei Garamanti – in quel momento evidentemente in buoni rapporti con Roma – in una spedizione militare contro gli etiopi, da intendere ovviamente non nel significato proprio del termine quanto come generico termine per indicare le popolazioni non mediterranee dell’Africa.

Si trattò di una missione di natura prettamente civile e commerciale ma che si inserisce in una politica di penetrazione dalle coste libiche verso l’interno perseguita con regolarità nel I d.C. caratterizzata dalla costruzione di reti stradali, dalla pacificazione delle popolazioni del deserto e dalla ricerca di un rapporto sostanzialmente amichevole con il regno dei Garamanti attraverso il quale le carovane provenienti dall’Africa nera dovevano necessariamente passare e che trova riscontro nella documentazione archeologica di Garama dove è attestata la presenza di mercanti romani anche di alto livello sociale come attestano alcuni sontuosi mausolei della regione. Il commercio pur non particolarmente importante come quantità riguardava però merci di particolare pregio come oro, avorio e animali esotici e trova testimonianze archeologiche ad esempio nel fondaco fortificato dell’oasi di Abalessa nell’Hoggar alerino – circo 1600 km a sud di Algeri – in uso forse già dall’alto impero anche se la sua maggior fortuna sembra posteriore datandosi al IV d.C. forse il periodo di più sistematica penetrazione romana in Africa.

La spedizione di Giulio Materno – stando al racconto di Tolomeo – durò circa quattro mesi e mezzo è porto il romano fino ad un ignoto paese noto come Agisymba regio. Si è a lungo discusso sull’identificazione di questa terra, escludendo ipotesi fantasiose – già Tolomeo criticava i calcoli di Marino di Tiro in quanto incompatibili con i tempi reali di viaggio – si può calcolare un percorso di circa 2500 km da Garama e sapendo da Tolomeo che si trattava di un paese montuoso le possibilità si riducono ai massicci dell’Air, del Djado e del Tibesti oggi nelle zone di confine fra Libia e Ciad.

L’ambiente trovato da Materno in quelle contrade era ancora molto diverso dalle distese desertiche che le caratterizzano oggi ed avevano un aspetto molto più africano, con ampie distese di savana predesertica popolata da un gran numero di specie animali che i graffiti della fase cammellina – o libico-berbera – dell’Air attestano con vivacità. Fra gli animali più diffusi doveva essere il rinoceronte nero bicorne ignoto all’epoca ai romani – che  conoscevano solo il rinoceronte bianco ad un solo corno diffuso in Nubia e già noto nell’Egitto tolemaico – ma ampiamente rappresentato nella regione tanto che solo nei massicci dell’Isserretagen e del Kori Mammanet risulta presente rispettivamente 16 e 19 volte.

Due indizi sembrano indicare la regione dell’Air come punto di arrivo di Giulio Materno, il massiccio è noto fra gli Hausa del Niger come Azbine nome che riporta una certa assonanza con l’Agisymba di Tolomeo ma ancor più importante è la comparsa di immagini del rinoceronte nero sulle monete di Domiziano, evidentemente l’arrivo dei primi esemplari di questa specie sconosciuta aveva fatto notevole impressione a Roma tanto da essere rappresentati sulle monete oltre che venir ricordati da scrittori del tempo come Marziale. Forse proprio la spedizione di Giulio Materno – o altre simili a noi ignote – aprirono il commerci di quegli animali verso Roma confermando la possibile identificazione del paese di Agisymba.

Il Periplo del Mare Eritreo e la presenza romana nell’Africa orientale

La scoperta dei cicli monsonici rappresentò per i romani la possibilità di intrattenere rapporti commerciali diretti con l’Impero Kusana e con gli stati indiani in un momento in cui la pressione parthica sulla Via della seta si faceva sempre più stringente. Il “Periplo del Mare Eritreo” è una sorta di manuale compilato ad uso dei marinai che compivano i viaggi verso l’India partendo dai porti egiziani con l’indicazione dei principali empori, della distanza fra essi, delle migliori stagioni in cui viaggiare e delle principali merci commerciate nei singoli centri. Per quanto conosciuto in redazioni tardo-antiche il periplo risale sostanzialmente ad un periodo precedente e se la datazione alla metà del I d.C. proposta a suo tempo dalla Pirenne appare difficilmente sostenibile una alla metà del II d.C. al più all’età severiana appare decisamente probabile.

Un ruolo centrale in queste linee marittime era rappresentato dai porti del corno d’Africa e dell’Arabia meridionale dove la presenza romana appare attestata con sistematicità. Adulis sulla costa eritrea a circa 60 km a sud di Massaua doveva essere il centro principale di appoggio per i mercanti romani, questa città ricca e grande, ornata da edifici monumentali e nota come centro di distribuzione per i vetri egiziani come per il vino e l’olio mediterraneo ha restituito tracce di una frequentazione romana dal II d.C. all’età bizantina – quando fu costruita un’imponente chiesa cristiana. Sistematicamente diffusi sull’area archeologica i frammenti di anfore, specie quelle cordonate di tipo egiziano così come ad ambiente alessandrino rimandano i frammenti di vetro, si tratta di tazze a squame e coppe baccellate di un tipo ampiamente esportato – esemplari sono stati trovati fino al Turkestan cinese – la cui origine va localizzata ad Alessandria e nella regione del Delta. Anche i materiali più tardi – vasi di porfido, vetri millefiori, un’ampolla di San Mena – mostrano l’assoluta prevalenza del commercio egiziano. Probabilmente tramite Adulis gli stessi materiali sono penetrati sugli altopiani etiopici fino ad Aksum.

Ancora più a sud a Port Durnford nella regione somala del Bur Gao quasi al confine keniota nel 1912 è stato scoperto un tesoretto di monete, per quanto le emissioni  siano distribuite su un ampio spazio cronologico che dagli ultimi Tolomei raggiunge il IV d.C. attraverso emissioni di Nerone, Traiano, Adriano, Antonino Pio il grosso dei pezzi si data a partire dall’età tetrarchica e per tutto il IV d.C. con punte per le emissioni di Costantino, Costantino II e Costante. Questo fatto conferma i dati dell’India meridionale e di Ceylon che vedono nel IV secolo il periodo di maggior attivismo romano sulle linee commerciali dell’Oceano Indiano. Il periplo ricorda come principale emporio della costa somala la Serapionis Statio poco più a nord del luogo del citato ritrovamento monetale; parrebbe invece da collocare più a sud i centri di Menuthias e Rhapta nei quali si è proposto in via ipotetica di riconoscere Zanzibar e un porto sulla costa tanzianiana. Oltre questa regione i ritrovamenti divengono troppo sporadici per ricostruire un quadro sulla penetrazione romana e molto probabilmente si tratta di materiali che hanno circolato all’interno dei circuiti di scambio delle popolazioni indigene. Bisogna comunque ricordare che nel suo studio sulle monete romane in Africa Charlesworth riporta saltuari ritrovamenti di monete in Madagascar e Zimbabwe fino al Natal e alla regione del Capo e che si tratta nella quasi totalità di emissioni di età tetrarchica e costantiniana.

Pur estraneo alla regione prettamente africana non si può tacere un episodio ricordato nel periplo e strettamente connesso alla storia della regione, la distruzione di Aden voluta da un imperatore romano – purtroppo non viene ricordato quale – in modo da concentrare su Alessandria i terminali commerciali per i prodotti indiani e per l’incenso sub-arabico prima detenuti in gran parte dalla città sabea, scelta pienamente inseribile in una precisa volontà di controllo da parte romana nei confronti di quelle linee commerciali sempre più importanti per le dinamiche economiche dell’Impero.

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Il clima di grandi speranze portato dall’offensiva alleata nell’Italia centrale nell’estate del 1944 diede l’occasione alle formazioni partigiane del nord della penisola di cercare di scuotere con le proprie forze il gioco nazifascista, in ogni angolo dell’Italia occupata fiorirono iniziative di questo tenore che dall’Emilia alla Liguria, dalla Carnia alle Langhe portarono alla nascita delle repubbliche partigiane, il più luminoso sussurro di dignità di un paese umiliato da vent’anni di grottesca dittatura. Se tutte queste esperienze furono unite dal sincero sentire democratica e dal sogno reso ancor più luminoso dalla sua natura per molti versi utopica di potersi liberare una volte per tutte dalle catene fasciste quella sorta in Val d’Ossola si distinse per la maturità politica che seppe esprimere in quei drammatici momenti.

L’8 settembre 1944 le formazioni partigiane guidate da Alfredo Di Dio, Bruno Rutto e Dionigi Superti imposero la resa alle forze nazi-fasciste di stanza a Domodossola, i tedeschi accettarono la trattativa – mediata dall’arciprete Luigi Pellanda – mentre i fascisti provarono a resistere ma stretti dall’attacco partigiano furono rapidamente costretti a capitolare. Nel giro di pochi giorni il nuovo governo si trovava a controllare quasi duemila chilometri quadrati in un’area strategica di passaggio verso la Svizzera e diede atto ad un progetto politico capace di stupire il mondo.

Alla guida della repubblica venne costituita una giunta di governo formata da esponenti comunisti, socialisti, azionisti, democristiani e liberali entrata in carica il 9 settembre sotto la guida del professor Ettore Tibaldi di matrice socialista mentre un altro socialista Carlo Lightowler fu eletto sindaco. Ad essa si affiancavo collaboratori provenienti dalle frange più elevate dell’antifascismo militante e che avrebbero avuto un ruolo non piccolo nei dibattiti costituzionali successivi alla guerra come Umberto Terracini – segretario generale della futura costituente – Ezio Vigorelli, Piero Malvestiti. Un’intera futura classe dirigente si stava formando in quell’esperienza esaltante e convulsa.

A differenze di altre analoghe esperienze la giunta ossolana mostrò fin da subito una non comune capacità di far fronte alle esigenze della popolazione. Per primo si cerco di intervenire sulla disastrosa situazione dei rifornimenti alimentari, venne costituito un apposito servizio annonario coinvolgendo in un primo tempo la popolazione civile con la raccolta di eventuali scorte ancora presenti sul territorio e poi sfruttando la posizione geografica la riapertura di relazioni commerciali con la Svizzera. Un primo treno di provviste organizzate dalla Croce Rossa giunse a Domodossola il 22 settembre ma il progetto era di gran lunga più sistematico e prevedeva la creazione di una regolare rete commerciale regolare in cui prodotti industriali ossolani avrebbero pagato alla Svizzera i rifornimenti alimentari. Questo comportava un’autentica politica industriale con la riorganizzazione della produzione in parte destinata come detto all’esportazione e in parte alle forniture militari per i difensori. Le frequenti visite di esponenti politici elvetici di livello testimoniano l’efficacia della politica mantenuta dalla Repubblica partigiana nelle relazioni internazionali.

L’attività economica fu affiancata da un sistematico progetto di riorganizzazione politica. I singoli comuni della valle furono dotati di giunte di cinque elementi – sindaco con quattro assessori – provenienti da tutte le forze politiche affiancate da quattro consiglieri di nomina popolare; i singoli enti godevano di piena autonomia e il comitato centrale di Domodossola manteneva per se solo poteri di ratifica. In tal modo si cercava di creare la maggior partecipazione popolare e il maggior rigore democratico possibile in quella situazione.

Particolare cura fu data alla riorganizzazione della giustizia e della sicurezza in modo da prendere le maggiori distanze dal sistema di abusi della dittatura. Particolare ruolo ebbe Ezio Vigorelli incaricato di condurre i processi per reati politici e sostenitori di una linea fortemente garantista, non vi furono vendette o persecuzioni politiche ma regolari inchieste precedute da appositi mandati di comparizione mentre gli arresti erano limitati a coloro che si erano resi complici di tradimento e atti di violenza contro i patrioti ed in ogni caso andava garantito il rispetto della dignità di ogni prigioniero in voluta contrapposizione ai metodi fascisti. Non venne mai applicata la condanna a morte e venne abolito il lavoro forzato anche per gli internati nel campo di prigionia di Druogno in quanto stando all’espressione dello stesso Vigorelli “Il lavoro controvoglia non ha alcun valore rieducativo”. Com’ebbe a scrivere al riguardo Alessandro Levi “Questo rarissimo caso d’una guerra paesana che non degenera in una sciagurata sequela di violenze da ambo le parti, va segnalato, a mio avviso, come l’esempio della più difficile vittoria, di quella cioè, sopra i propri più istintivi sentimenti e risentimenti. Se un tale esempio fosse stato, e fosse tuttora, per ogni dove risaputo e seguito, più facile quella riforma del costume civile, che ogni uomo, pensoso delle sorti di questo nostro povero paese, deve contribuire ad attuare come necessaria ed urgente.”

L’attenzione alla giustizia e alla clemenza insieme all’efficacia del controllo territoriale svolto da nuove forze di Polizia estranee ai metodi repressivi fascisti furono fra le ragioni che spiegano l’assenza di disordini civili nella Repubblica ossolana nel corso della sua breve esperienza storica.

Il destino di questa straordinaria esperienza era però segnato sul piano militare e il Proclama Alexander del 13 novembre 1944 calava come una pietra tombale sulle repubbliche partigiane. La necessità di riorganizzazione dopo le pesanti perdite subite nello sfondamento della linea gotica – cui si aggiunge il pericolo rappresentato dalla disperata controffensiva tedesca nelle Ardenne – imponeva agli alleati un freno all’azione ma questo lasciava libere le mani alla rappresaglia nazi-fascista contro le forze democratiche del nord Italia. Abbandonata a se stessa nonostante le sempre più pressanti richieste di aiuto la Repubblica dell’Ossola aveva i giorni contati. Il 10 ottobre i nazi-fascisti lanciarono la controffensiva ma la resistenza delle formazioni partigiane fu eroica, in tredici giorni di aspri combattimenti le formazioni patriottiche riuscirono a infliggere pesanti perdite agli invasori e a garantire la smobilitazione delle popolazioni civili che con ogni mezzo lasciavano le valli cercando asilo in Svizzera o si univano alle formazioni combattenti. Lo scontro era impari con 3000 partigiani armati alla leggera a fronteggiare circa 5000 nemici dotati di tre cannoni d’assedio, di cinque carri armati e di una decina di autoblindo, le prime colonne fasciste entrarono a Domodossola il 17 ottobre ma fino al 23 la resistenza continuò nella valle. Quella che gli invasori si trovarono di fronte era una città spopolata, oltre 20000 persone hanno abbandonato le loro case tanto per sfuggire alle vendette dei vincitori quanto perché non più disposti a risprofondare nello sterco fascista dopo aver conosciuto la libertà mentre i gruppi combattenti riparavano verso la Valsesia dove si univano alle formazioni locali per riprendere l’offensiva all’inizio del 1945.

La repubblica era durato un battito di ciglia ma era stata un’esperienza indimenticabile ed infinitamente formativa per tutti coloro che vi avevano partecipato. Seppur annacquate dagli inevitabili compromessi della politica le istanze di vera democrazia e condivisa libertà seminati in quei giorni avrebbero rappresentato il terreno di coltura da cui sarebbero nata la Costituzione Repubblicana. Buon 25 aprile.

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 All’inizio degli anni 50 del VI secolo l’Italia era in ginocchio dopo quasi vent’anni di guerra e la soluzione del conflitto sembrava lontana; i successi riportati da Belisario all’inizio delle operazioni militari erano ormai lontani e la seconda spedizione del 544 aveva ottenuti scarsi risultati visto le limitate truppe messe a disposizione da Giustiniano più preoccupato alla stabilità delle frontiere persiane rispetto alle vicende del fronte italiano. Di questa situazione avevano tratto giovamento i goti che con il nuovo re Totila avevano ripreso il controllo di quasi tutta la penisola riducendo la presenza imperiale a poche sacche perennemente minacciate. A partir dal 550 la situazione sembra però poter cambiare, deciso a risolvere definitivamente il ginepraio italiano Giustiniano affida al nuovo comandante in capo Narsete un esercito all’altezza delle richieste.

  L’esercito che sbarca a Ravenna conta diverse decine di migliaia di soldati scelti greci, armeni e delle province orientali dell’Impero oltre a imponenti contingenti di ausiliari barbari fra 5000 longobardi e 3000 eruli oltre a bulgari, gepidi, unni e disertori persiani. Aggirata la roccaforte ostrogota di Rimini Narsete punta rapidamente verso Roma ma la marcia è rallentata dall’impossibilità di usare la Flaminia controllata in ogni tratto dai goti, per cui si scegli di usare itinerari minori, più lenti ma più sicuri.

   Preso alla sprovvista Totila tenta di reagire, ordina alle truppe di stanza a Roma di muovere verso nord e invia ambasciatori per ottenere più tempo per organizzarsi. Le due armate si incontrano nei pressi del villaggio di Tagina vicino all’odierna Gualdo Tadino dove vengono posti gli accampamenti: i goti nel citato villaggio, le forze imperiali scostate verso Sassoferrato in un luogo chiamato Busta Gallorum in cui ancora si vedevano le sepolture dei galli sbaragliati da Camillo, quel segno di una vittoria romana sui barbari deve essere sembrato di buon auspicio a Narsete. Nei giorni seguenti Totila continua a giocare d’astuzia, manda ambasciatori ai romani fingendo di avere bisogno di almeno otto giorni per prepararsi ma si prepara per colpire a sorpresa, Narsete non si lascia però ingannare e prepara le contromosse.

  Non conosciamo la data esatta della battaglia se non che questo avvenne nel giugno del 552; il campo era dominato da una piccola collina – circa 250 m – che permetteva di dominare il campo e che poteva rivelarsi decisiva per le sorti dello scontro, con un’azione notturna degna di un moderno commando un manipolo di uomini della fanteria scelta romana – circa cinquanta uomini – scala il colle di notte senza essere vista; al mattino quando i goti vedono l’accaduto hanno un ben triste risveglio.

   Costretto dalle necessità Totila prende l’iniziativa e quando il sole comincia ad illuminare la valle i due eserciti si schierano uno di fronte all’altro. Narsete schiera le proprie forze scelte sulla sinistra insieme a quelle di Giovanni e coperte dai bucellarii a cavallo e dalla cavalleria catafratta, sul lato opposto con analoga formazione sono disposti i corpi che fanno capo a Valeriano, Giovanni detto il mangione e Dagisteo; accanto ad entrambe le formazioni sono posti due squadroni di 4000 arcieri ciascuno mentre al centro gli ausiliari barbari sono fatti smontare e combattere a piedi, evidentemente Narsete non si fidava molto e preferiva limitarne la mobilità in caso di fuga. Più semplice lo schieramento goto con in prima fila la cavalleria pesante, tradizionale punto di forza degli eserciti ostrogoti e alle spalle la fanteria chiamata a aprirsi per proteggere i cavalieri dando loro il tempo di riorganizzarsi dopo ogni carica.

Una lunga serie di preliminari anticipa però lo scontro come se entrambi gli eserciti non avessero premura di cominciare, se per Totila ogni minuto e prezioso Narsete vuole lasciare l’iniziativa al nemico e non commettere passi falsi. Prima dell’inizio dello scontro Coca, un disertore passato al servizio dei goti si portò davanti alle truppe sfidando un campione nemico, la provocazione venne raccolta dall’armeno Anzala che riuscì a prevalere rapidamente sul rivale. A quel punto fu lo stesso Totila a farsi avanti, sfolgorante nella sua armatura dorata per eseguire la dscherid, la tradizionale prova di bravura dei popoli della steppa che i goti avevano fatta propria nella lunga permanenza nell’Europa orientale.

   Il tempo passava senza fatti di maggior interesse tanto che Narsete lasciò i suoi uomini consumare un breve pasto. Poi nelle prime ore del pomeriggio i goti decidono di prendere l’iniziativa lanciando la cavalleria all’attacco in due direzioni. Un gruppo fu inviato contro la collina alla destra del campo per sloggiarvi il manipolo di incursori romani ma questi resistettero eroicamente, sfruttando il pendio che rallentava i cavalli abbattevano i cavalieri goti a colpi di freccia per poi tagliare con le spade le lance di quanti stavano per giungere sulla cima, nonostante le gravi perdite i romani riuscirono a tenere saldamente il caposaldo tanto da spingere i goti a rinunciare all’impresa. L’attacco principale veniva invece risolto al centro dello schieramento romano, qui all’inizio dello scontro Narsete aveva modificato parzialmente le formazioni, le linee scelte della fanteria legionaria si erano sistemate di fronte e alle spalle degli inaffidabili ausiliari costringendoli a combattere fino all’ultimo uomo inoltre la formazione si era disposta a semicerchio facendo avanzare sulle ali gli arcieri che avevano una linea di attacco più vasta e soprattutto potevano colpire ai fianchi la cavalleria nemica. La strategia si rivelò vincente, la cavalleria gota ad ogni carica veniva falcidiata dagli arcieri orientali e la resistenza della fanteria legionaria respinse ogni offensiva del nemico. Solo verso sera quanto ormai le truppe ostrogote erano sull’orlo del tracollo Narsete ordinò l’attacco, la controffensiva romana spezzo rapidamente le linee gote, la cavalleria germanica in fuga travolse la propria stessa fanteria su cui poi piombarono i cavalieri romani compiendo un’autentica strage mentre la veloce cavalleria ausiliaria, composta principalmente da unni e bulgari si lanciava all’insediamento della cavalleria pesante gota ormai allo sbando. Sul campo restarono oltre 6000 uomini fra cui lo stesso Totila anche se le fonti danno aneddoti discordanti sulla morte del re. Per quanto i goti resistettero ancora alcuni anni la battaglia di Tagina questa segnò la fine del regno ostrogoto come potenza militare dando il via alla riannessione dell’Italia nell’orbita imperiale.

   La battaglia di Tagina è in qualche modo posta sullo spartiacque fra due mondi, ultima battaglia dell’antichità e prima del medioevo. Dal punto di vista strategico rappresenta per certi aspetti la nemesi di Adrianopoli, il ritorno trionfante di una fanteria professionale disciplinata e compatta, erede delle armate legionarie dell’antica Roma sui popoli di tradizione equestre ed in questo appare come uno degli ultimi colpi di coda dell’antichità mentre il futuro sarebbe stato delle cavallerie, al contempo segnando la definitiva caduta del regno ostrogoto che era stata parte integrante della civilitas romana tardo-antica apriva le porte a nuove invasione come quella longobarda che avrebbero traghettato definitivamente la penisola nel medioevo. In qualche modo la battaglia sembra emergere come simbolo stesso del difficile trapasso fra i due momenti storici vissuto dalla penisola italiana, incapace di uscire

totalmente dall’antichità come di entrare a pieno titolo nel medioevo.

Schema della battaglia di Tagina

Schema della battaglia di Tagina

 

Ricostruzione grafica della cavalleria tardo-romana

Ricostruzione grafica della cavalleria tardo-romana

totalmente dall’antichità come di entrare a pieno titolo nel medioevo.

 

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  Una serie di telefilm attualmente trasmessa da un noto canale satellitare sta fornendo una visione decisamente “originale” delle vicende del secondo Quattrocento italiano, e se è legittimo che in ambito artistico si possa procedere a riscritture più o meno personali mi sembrava doveroso riassumere un quadro corretto dei fatti rivolto agli studenti o a coloro che cercheranno informazioni evitando che le ricostruzioni fanta-storiche del racconto televisivo possano essere ritenute anche solo parzialmente fondate.

   Il fallimento della congiura de Pazzi e con essa delle speranze di Sisto IV di portare la Toscana nell’orbita pontificia non potevano passare inosservate, il Pontefice non era uomo da arrendersi così facilmente e il passo successivo fu l’evolversi della congiura in guerra aperta. Il primo atto fu la scomunica lanciata contro Lorenzo de Medici usando come pretesti l’uccisione di alcuni ecclesiastici coinvolti con la congiura quali l’arcivescovo di Pisa e il legato pontificio Antonio Maffei di Volterra, l’uomo che aveva cercato di uccidere lo stesso Lorenzo. Le operazioni militari furono affiancate e precedute da un’altrettanto dura guerra di propaganda, in risposta alla scomunica pontificia la cancelleria fiorentina rispondeva con il pamplet “Florentina Synodus” in cui l’arcivescovo filo-mediceo di Arezzo Gentile Becchi lanciava infuocate accuse contro la chiesa di Roma e contro Sisto “Vicario del diavolo” e “Lenone della Chiesa” finalizzata ad incrinare l’immagine internazionale del Papato. Sisto non si fece prendere alla sprovvista e rispose dando alle stampe un ulteriore atto d’accuso la “Dissentio inter sanctissimus dominum nostrum papam et florentinos” in cui si demonizzava la figura di Lorenzo e il suo governo della repubblica; Sisto IV si impegno per dare al suo libello la massima diffusione tanto in Italia quanto in Europa. Si tratta di uno dei primi casi di uso a scopo propagandistico della recente invenzione della stampa.

  In una prima fase la coalizione filo-fiorentina – cui aderisco Milano e alcuni stati minori dell’area padana – sembra poter avere facile gioco dei nemici ma è indebolita dai contrasti fra i due comandanti sul campo Ercole d’Este e Federico Gonzaga in lotta più per il prestigio personale più per la vittoria sul nemico e di questa situazione un comandante esperto e spregiudicato come Federico da Montefeltro non poteva che giovarsene tanto più che una pestilenza diffusa in Toscana nell’estate del 1478 indebolì ulteriormente le difese.

  L’offensiva d’autunno scatenata da Federico con metodi particolarmente efferati – e in gran parte in violazione delle regole di guerra del tempo – come l’uso sistematico dell’artiglieria (Federico disponeva di quattro spaventosa bombarde pesanti appositamente acquistate in Ungheria)  e originali esperimenti di guerra chimica (l’uso di immergere i proiettili in sostanze tossiche era ipotizzato anche dai fiorentini) porta ad una rapida caduta di tutte le piazzeforti medicee in Toscana: Castel San Savino, Pioggio Imperiale e Colle Val d’Elsa, ultimo baluardo mediceo caduto solo dopo due settimane di pesanti bombardamenti il 13 novembre 1479.

   La situazione di Firenze sembrava disperata, alle sconfitte militari si aggiungevano le difficoltà diplomatiche con il colpo di stato a Milano che di fatto segnava la definitiva caduta di Cicco Simonetta, il cancelliere di Francesco Sforza e primo sostenitore della causa fiorentina e il passaggio di potere a favore di Ludovico il Moro schierato con la coalizione filo-pontificia. A salvare la città sono le divisioni del campo nemico dove sempre maggiore era la tensione fra Federico di Montefeltro attento stratega e l’impetuoso e spesso sconsiderato Alfonso d’Aragona, il figlio del re di Napoli che gli era stato affiancato al comando e soprattutto l’ambigua strategia delle scelte dello stesso Duca d’Urbino.

   Nonostante le pressioni pontificie e l’irruenza di Alfonso Federico infatti rifiuta fermamente di attaccare e occupare Firenze, le ragioni sono molteplici e vi si uniscono verosimilmente un pian politico ed uno strettamente personale. Sul piano strategico il Montefeltro aveva interesse ad umiliare la potenza fiorentina per ridurla a più miti consigli ma non puntava a distruggerla, sapeva benissimo che sarebbe stato più facile trattare con un Lorenzo messo alle strette che con Girolamo Riario ormai convinto di essere l’onnipotenze signore di tutta l’Italia centrale inoltre al Duca non sfuggiva il fatto che l’ambizione di Sisto non si sarebbe limitata a Firenze e una volta controllata la Toscana si sarebbe rivolto verso gli stati ancora liberi dell’Italia centrale e Urbino era esattamente su quella traiettoria, la caduta di Firenze sarebbe stata un pericoloso precedente per il proprio ducato.

   Sul piano personale non bisogna mai scordare che in Federico albergavano due anime e al guerriero spesso spietato si assommavano il mecenate e l’umanista. Botteghe fiorentine lavoravano regolarmente per sue committenze ed ovviamente non voleva che queste fossero compromesse inoltre aveva ben chiaro come il saccheggio di Firenze avrebbe rappresentato un colpo mortale per la sua immagine di amante degli studia humanitatis, meglio a quel punto risparmiare la città e presentarsi al mondo come l’estremo difensore della civiltà fiorentina.

  Sappiamo che nel’autunno del 1479 Lorenzo scrisse una supplica di pace ad Urbino cui il Duca rispose in modo evasivo, lasciando aperte possibilità di ulteriori trattative. Non si può escludere un ruolo urbinate nell’apertura dei negoziati fra Firenze e Napoli che viene attuandosi negli stessi mesi come attesta una lettera del Medici all’ambasciatore fiorentino a Milano in cui afferma la sua volontà di “gettarsi nelle braccia del Re, mostrandone che questa via solo ho di salvare la città e me”. A dicembre cominciano le testimonianze di uno scambio di lettere fra Lorenzo, re Ferrante e Alfonso di Calabria dai toni spesso decisamente amichevoli. Sicuro della protezione regia Lorenzo parte ai primi di dicembre da Pisa – l’ultima lettera a Ferrante precedente la partenza è del 6 dicembre – e grazie alla scorta di alcune navi napoletana riesce ad eludere il controllo della flotta pontificia e a sbarcare sano e salvo a Napoli 13 giorni dopo.

  Lorenzo sapeva trattarsi di una scommessa rischiosa, già al porto il profilo del Maschio Angioino dominava la città come un segno di potenza reso ancor più oscuro dalla leggenda popolare, probabilmente mantenuta in vita dallo stesso Ferrante, dell’abitudine del Re di conservare i cadaveri imbalsamati dei suoi nemici nei sotterranei del castello. A Napoli Lorenzo è ad un tempo un ospite e un prigioniero, trattato con tutti i riguardi ma al contempo continuamente sorvegliato. Il signore di Firenze viene alloggiato presso Palazzo Carafa ma trascorreva molto tempo nei giardini di Castel Capuano, palazzo di Ippolita Sforza figlia del grande Francesco e sposa di Alfonso. Donna raffinata e coltissima disponeva di uno studiolo ed una biblioteca personale e verosimilmente era lei la destinataria dei preziosi codici portati in dono da Firenze. I negoziati si protrassero per settimane e Lorenzo faticò non poco per piegare la resistenza Giustini, un fuoriuscito fiorentino ora al servizio del Papa, poi con un colpo a sorpresa il Medici lasciò Napoli 28 febbraio 1480 quando apparentemente nulla era concluso ma Lorenzo sapeva che il miglior modo per concludere un affare è fingere di disinteressarsene. Il 6 marzo l’accordo veniva raggiunto fra lo stesso Giustini – totalmente graziato da Lorenzo per il suo ruolo nella congiura – Isabella Sforza e l’ambasciatore fiorentino Niccolò Michelozzi.

  Le condizioni dell’accordo erano pesantissime: circa 60.000 ducati da versare ad Alfonso di Calabria, la liberazione dei congiurati ancora detenuti a Volterra, l’assoldamento a scopo di garanzia della flotta napoletana. Il popolo fiorentino non gradì ovviamente queste condizioni tanto più che i soldi necessari andavano presi dal bilancio pubblico avendo il soggiorno napoletano svuotato le disponibilità finanziarie dei Medici in quanto Lorenzo per ingraziarsi la nobiltà napoletana avevano speso enormi cifre e regalie e corruzione e fu necessario imporre alla città un autentico pugno di ferro per stroncare i disordini; il 10 aprile venne istituito il collegio dei settanta composto da uomini di provata fede medicea che segnava un significativo slittamento in chiave monarchica dell’assetto costituzionale della repubblica.

  Ma se la situazione era pesante a Firenze l’annuncio della pace era stato a Roma un fulmine a ciel sereno, Sisto IV si era sentito tradito da Ferrante e meditava vendetta ma le cose per il pontefice andavano di male in peggio, Federico a Viterbo tentava di sganciarsi dal legame con Roma conscio di poter essere additato come il principale responsabile dell’accordo mettendosi sotto protezione delle autorità cittadine inoltre un nuovo fronte di guerra si apriva per il Papato, l’eterna contesa delle saline dell’Adriatico con gli Estensi di Ferrara solo che questa volta diventava l’occasione che i suoi nemici aspettavano per isolarlo.

   IL 7 marzo 1482 scade la condotta del Duca d’Urbino con il Papa, il Montefeltro è immediatamente assunto dai ferraresi per difendere la loro città delle truppe del Papa, la cifra offerta era esorbitante – 119.166 ducati – ma privava Sisto del suo miglior capitano e venne pagato in solido dalla nuova coalizione che vedeva al fianco di Ferrara anche Firenze, Napoli e Milano. I fatti della Guerra di Ferrara esulano dal presente intervento ma appare evidente come a questo punto la strategia di Sisto fosse definitivamente crollata e si stesso ricomponendo il fragile equilibrio che legava i vari stati italiani.

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   Per millenni le grotte hanno suscitato nell’uomo una sorta di timore reverenziale, spazio limitaneo fra il nostro mondo e un mondo altero – quello degli spiriti, dei mostri, degli Dei inferi – sono rimaste fra i luoghi meno conosciuti del pianeta, sfruttate solo nei loro tratti iniziali per molteplici scopi senza mai spingersi oltre agli spazi in qualche modo illuminati dalla luce del giorno verso quel regno di buoi e mistero che si apriva alle loro spalle. Pochi sono i casi di esplorazioni più all’interno tanto nell’antichità quanto nel medioevo e nella prima età moderna ed in genere sempre strettamente legate ad attività metallurgiche o alla raccolta di oggetti spersi dai millenni come nella Germania del XVI secolo quanto alcuni intrepidi si avventuravano in quei recessi alla ricerca delle ossa del mitico unicorno, in realtà ossa fossili di ursus spaeleus o di altri animali della megalofauna glaciale.

   Le cose cambiarono solo con il progredire della rivoluzione scientifica nel XVII secolo. Il padre di questa nuova è un chirurgo del Somerset John Beaumont. Nel 1674 un gruppo di minatori intenti in scavi alla ricerca di piombo intercettarono una grotta sulle pendici del Mendip Hills. Il medico chiamato per controllare convinse alcuni minatori a seguirlo – probabilmente dove avergli promesso un buon compenso in denaro – questi dopo aver strisciato per alcuni stretti cunicoli giunsero ad un pozzo, Beaumont si fece legare e calare nell’apertura scoprendo una grande sala contenente ricche vene di piombo. L’impresa del medico inglese ebbe però pochissima eco e nonostante questi continuasse a visitare diverse grotte nella regione solo i possibili ritorni minerari attrassero qualche interessamento.

   La nascita un più vasto e diffuso interesse per queste formazioni non sarebbe infatti avvenuta in Inghilterra ma sul continente, in una delle aree più ricche di queste strutture naturali, le montagne del carso fra Friuli e Slovenia, allora parte integrante dell’Impero asburgico.

  Protagonista di quest’avventura è una figura originale e decisamente fuori da ogni schema, Johan Valvasor, un barone sloveno che risiedeva in un castello sulle pendici del Carso a circa 80 km da Trieste. A partire dal 1670 Valvasor fu preso da un’autentica smania per le grotte visitando e documentando oltre 70 cavità della regione carsica e pubblicando i risultati delle sue esplorazioni in quattro ponderosi volumi – per un totale di oltre 2800 pagine – arricchiti di piante e illustrazioni. Le descrizioni di Valvasor sono spesso fantasiose e il barone ha un’evidente tendenza ad esaltare le proprie imprese ingigantendo dimensioni e pericoli mentre le illustrazioni rinunciano ad ogni verosimiglianza cedendo al gusto barocco della meraviglia e trasformando le concrezioni in grovigli di mostri e gargouille ma questo non deve far passare sotto silenzio i meriti dello stesso in cui la vastità dei complessi esplorati si unisce allo studio, all’epoca assolutamente originale dei corsi d’acqua sotterranei; all’intuizione dell’esistenza di collegamenti fra i vari complessi fino alla scoperta di numerosi specie animali totalmente sconosciute alla scienza come quella di un piccolo animaletto cieco dall’aspetto rettiliforme, privo di occhi e dal colore rosato che Valvasor descrive con minuzia di dettagli e che – rifacendosi alle leggende locali che attribuivano ad un drago vivente nelle profondità le periodiche intermittenze del fiume Bella – interpretò come un cucciolo di drago. In realtà si trattava del Proteus anginus, una salamandra cieca perfettamente adattata alle condizioni della vita in grotta. Il nuovo animale suscito un vivace interesse nella cultura europea del tempo tanto che l’arciduca Giovanni d’Austria si fece costruire una grotta artificiale per poterne allevare alcuni esemplari.

  L’esperienza di Valvasor fu ripresa nel secolo seguente questa volta all’interno di un grande progetto pubblico e alla luce delle nuove aperture della cultura illuminista. Nel 1746 il giovane matematico viennese Joseph Nagel ricevette da Maria Teresa l’incarico di esplorare e cartografare le principali grotte dell’Impero. Accompagnato dal pittore italiano Carlo Beduzzi incaricato delle illustrazioni Nagel segui sul Carso le indicazioni di Valvasor arricchendole però con la scoperta di un gran numero di cavità ed inoltre per la prima volta esplorò analoghi complessi in Boemia e Moravia nei quali nessuno si era mai avventurato. Tanto sul piano scientifico quanto su quello della rappresentazione il lavoro di Nagel e Beduzzi segna una netta evoluzione rispetto alla pubblicazione di Valvasor, i due misurano e documentano con attenzione ogni grotta e le illustrazioni rinunciano ad ogni carattere fantastico e fiabesco per cercare di rendere nel modo più reale possibile quanto effettivamente visto nelle singole grotte. Purtroppo i risultati non vennero mai dati alle stampe e Nagel si dimostrò più interessato a sfruttare i propri successi per crearsi una posizione a corte che a sistemare l’opera per la pubblicazione. riuscendo per altro brillantemente nel proprio scopo fino ad ottenere incarichi di grande prestigio: primo matematico di corte, poi curatore delle raccolte scientifiche imperiali e infine direttore del dipartimento di Scienze fisiche dell’Università imperiale di Vienna.

   Fra le grotte studiate prima da Valvasor e poi da Nagel vi era l’Aldesberger sul carso sloveno, poi grotta di Pustumia quando la regione entrò a far parte del regno d’Italia ed infine Pastojma Jama con la nascita della Jugoslavia. Questa grotta aveva sempre goduto di uno stato particolare, posta sulla principale strada di collegamento fra Trieste e Vienna e caratterizzata da un ingresso ampio e luminoso era sempre stata sempre frequentata diventando fin dal medioevo spazio di intrattenimento per i nobili locali. Nel 1818 venne organizzata una visita dell’Imperatore Francesco I e per l’occasione si procedette a lavori di risistemazione, durante questi interventi venne scoperto un passaggio che conduceva a nuove stanze molto più grandi di quelle conosciute fino a quel momento e coperte di splendide incrostazioni.

  Un funzionario locale Josip Jeršinovič si incarico di organizzare i primi percorsi di visita. La grotta – prima al mondo – fu dotata di passerelle per essere visitata in tranquillità mentre i visitatori venivano dotati di torce durante la visita cui fece seguito l’istallazione di lampadari in cristallo con lampade ad olio il cui fumo risultava meno fastidioso di quelle delle torce. Per proteggere la grotta da ladri e vandali questa fu chiusa con un cancello nelle ore notturne e venne introdotto il pagamento di un biglietto per chi fosse interessato a visitarla. I tempi erano maturi, la nascente borghesia cominciava a viaggiare per diporto e le nuove generazioni di europei che facevano propria la sensibilità romantica non potevano che farsi sedurre da questo mondo misterioso e oscuro dove la natura rivaleggiava con l’arte più raffinata come creatrice di bellezza. Straordinaria documentazione di quegli anni gli acquerelli di Alois Schaffenrath ci testimoniano le suggestive atmosfere di quelle visite.

   Negli anni seguenti la grotta fu ripetutamente esplorata e venne scoperte nuove sezioni – in particolare con le ricerche di Adolf Schmidl a partire dal 1850 e la costruzione della ferrovia nel 18957 trasformò Postumia in una delle principali attrazioni turistiche dell’Impero austro-ungarico mentre altrove altre grotte venivano esplorate e aperte al pubblico ma questo appartiene ad un’altra storia rispetto a quella che qui si voleva ora raccontare.

Immagine di grotta dall'opera di Johan Valvasor 1670

Alois Schaffenrath: Veduta delle grotte di Postumia

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 La grande guerra di liberazione nazionale, porto nel 1634 alla liberazione della Russia dall’occupazione polacca e all’ascesa sul trono di Mikhail I Romanov, discendente di una nobile famiglia di boiardi da cui proveniva la prima moglie di Ivan IV; la lotta contro gli invasori stranieri, in specie polacchi e svedesi durò ancora a lungo così come la stabilizzazione del potere, minato dai contrasti interni e dalle rivolte contadine e cosacche, ma ormai la strada per il futuro della Russia era stata segnata, e non si sarebbe tornati indietro.

  La ritrovata stabilità politica diede nuovo slancio al dibattito culturale, le menti più aperte si rendevano conto come i torbidi avessero impedito alla Russia di partecipare al grande sviluppo culturale vissuto dall’Europa nel corso del XVII secolo, e di come il divario fra questa e la Russia si fosse enormemente accresciuto; si fece strada un partito decisamente filo-occidentale e filo-europeo i cui maggiori rappresentanti furono i principi A. L. Ordin-Naščokin e V. V. Golicyn, il cui potere andò crescendo negli ultimi anni di regno di Aleksej Mikhailovič e durante la reggenza di Sof’ia, ponendo le basi per le grandi riforme petrine.

  In questo contesto di rinnovamento culturale e di avvicinamento all’occidente anche l’interesse per le antichità trovò nuova linfa, sia come conseguenza imitativa del modello delle collezioni dell’Europa barocca, sia per il suo ruolo di giustificazione all’imperialismo russo verso le steppe meridionale e verso la Siberia, ma su questo ritorneremo in seguito.

  Il momento fondante di questo nuovo corso sarà l’età di Pëtr I Alekseevič, il grande fondatore della nuova Russia anche in campo culturale, ma alcune significative premesse sono già rintracciabili per gli anni precedenti la sua ascesa al potere. Il primo dato relativo al ritrovamento di materiale, molto probabilmente prezioso, in un Kurgan siberiano risale ad un documento del 1669, pubblicato da N. Witsen nel 1785. L’interesse per i ritrovamenti coinvolge in modo sempre maggiore l’autorità centrale, nel 1680 lo zar Aleksej I Mikhailovič ordina che le ossa di un gigante (forse un mammuth), ritrovate nella regione di Char’kov venissero scavate, misurate e descritte.

  Le testimonianze ricordate rappresentano la preistoria dell’antiquaria e del collezionismo russo, che presenta una precisa data di nascita: il 1715.

  La nascita di quella che diventerà “la collezione siberiana” e a tutt’oggi dibattuta ed esistono a riguardo due tesi contrapposte, la più diffusa pone l’attenzione sul governatore della Siberia, Metvei P. Gagarin e sostiene la formazione della collezione a Tobolsk, capitale del governatorato, e successive spedizioni a Pietroburgo a partire dal 1715. L’ipotesi è suffragata da numerose lettere fra lo Zar e Gagarin, con precise richieste da parte del sovrano riferite sia al ritrovamento di nuovi materiali, sia alla lotta contro le spoliazioni clandestine dei tumuli.

  Esiste un’altra versione sull’origine della “collezione siberiana” di Pëtr I Alekseevič derivante da una informazione non verificabile fornita da I. I. Golikov e relativa al dono fatto da un ricco imprenditore minerario Nikita Demidov alla zarina Caterina I in occasione della nascita di un figlio nel 1715. La teoria, probabilmente fantasioso, trova comunque l’appoggio di V. Schiltz ed a il merito di introdurre una figura come quella di Demidov, di certo non secondaria in questi processi.  

  Nikita Demidov, il “Potëmkin siberiano” come lo definiscono alcune fonti, incarna perfettamente la figura dell’avventuriero settecentesco, brillante, ben inserito a corte, proprietario di miniere negli Urali, commissionario imperiale per lo sfruttamento minerario in Siberia, collezionista e trafficante di reperti antichi, una vita vissuta sul filo della legalità, venne infine condannato a morte per estorsione e impiccato nel 1721. I suoi legami con i “tombaroli” dell’epoca e la mancanza di qualunque scrupolo ne facevano il mezzo ideale per procacciarsi il maggior numero di opere in breve tempo, rispettando le sempre più pressanti richieste dello Zar.

  L’interesse di Pëtr I Alekseevič per gli splendidi materiali che regolarmente gli vengono inviati dai suoi agenti siberiani porta lo Zar a promulgare le prime leggi di tutela, una serie di ukase a partire dal 1718 stabiliscono la proprietà regia per i reperti scavati nei kurgan siberiani e introducono pene estremamente severe finalizzate alla salvaguardia degli oggetti. La normativa ottiene però il risultato opposto, le minacce contenute negli ukase portano ad una distruzione sistematica dei reperti al momento del loro ritrovamento, che vengono fusi e venduti a peso d’oro. Ciò che si è conservato nella “collezione siberiana” e una minima parte di ciò che è stato realmente trovato. In oltre noi non conosciamo minimamente l’effettiva consistenza della collezione al tempo di Pëtr I Alekseevič, in quanto la Kunstkamera, dove i reperti furono collocati nel 1726, andò completamente distrutta da un incendio nel 1746, da cui si salvò solo una parte delle raccolte, quella pubblicata da N. Witsen nel 1785.

I materiali della collezione provengono da ogni angolo del mare d’erba delle steppe, la documentazione dell’epoca ci aiuta poco a comprendere la provenienza, limitandosi a indicare Tobolsk e Tomsk, centri di smistamento ma non certo di origine dei materiali. Da queste città dovevano partire vere e proprie carovane che si avventuravano per giorni e giorni in quelle terre ancora mal conosciute, alla ricerca di reperti, fino ai confini dell’impero e anche oltre, in quella terra di nessuno che erano le steppe sud-orientali dei Bashkiri e dei Kazhaki. Alcuni materiali riportano all’Altai, alla regione della Tuva, altri alla Siberia occidentale, come risulta dal confronto con i materiali della necropoli recentemente scavata a Tiutrinskji, altri ancora di produzione achemenide o più genericamente iranica rimandano all’Iran orientale e al Tesoro dell’Oxus; altri provengono sicuramente dalle steppe kazake e dall’Asia centrale, altri ancora si confrontano con reperti di epoca sarmatica diffusi da Odros fino al Dnepr, ma di probabile origine centroasiatica.

Nonostante la pluralità di provenienze la “collezione siberiana” presenta una notevole omogeneità di materiali, attribuibile a precisi criteri di scelta. Si tratta esclusivamente di oggetti aurei, ritenuti i più degni di entrare nelle collezioni imperiali, spesso di grandi dimensioni. Prevalgono nettamente le grandi placche orientali a soggetto animalistico, a volte arricchite da pietre dure ricercanti effetti policromi, frequenti le scene di lotta mentre mancano completamente le placchetta a forma di cervo, animale totemico dei nomadi iranici e diffusissime in tutto il mondo dei nomadi, la cui esclusione deve essere conseguente a criteri di scelta che purtroppo ci sfuggono completamente. Tra i pezzi più significativi, autentiche pietre miliari per la ricostruzione dell’arte dei nomadi delle steppe orientali: l’ornamento a forma di pantera da Kelermes (VII-VI a.C.), le placche orientali in oro e lapislazzuli con lotte di animali (IV-III a.C.); un grande torques in oro turchese e corallo di provenienza centroasiatica (V-IV a.C.).

  Fra tutti emerge per la sua assoluta eccezionalità la placca del “riposo del guerriero” (tav. 6a), insolita oasi di pace nel violento universo dell’arte dei nomadi, rappresenta una scena mitica, probabilmente una ierogamia eroica, unica raffigurazione artistica di un costume, e di un mito fondante, attestato nelle fonti da Erodoto a tutto il medioevo.

  L’idea di fondo che reggeva la “collezione siberiana” sfugge ancor oggi agli studiosi, molto probabilmente convergevano molti fattori a suscitare l’interesse di Pëtr I Alekseevič per le antichità siberiane: il fascino dell’oro che sempre fu presente nell’animo degli Zar, in tal senso veri eredi dei basilei di Costantinopoli; la volontà di creare un gabinetto di meraviglie all’occidentale, come gli aveva suggerito Leibniz; una naturale connivenza fra lo spirito del sovrano e la suggestione di quegli oggetti; o ancora quello che V. Schitlz a definito “l’appropriazione dello spazio”, vaga intuizione di la corrispondenza fra quelle forme e l’ideale stesso del sovrano. Una suggestione ideale sembra unire quelle forme forgiate nell’oro con le architetture che il giovane Rastrelli realizza per la nuova capitale sognata dallo zar, l’estensione delle facciate arginata nelle curve e nell’oro, i muri trasformati in membrature quasi viventi che si realizzano solo nella relazione con lo spazio naturale circostante, il diffondersi di un bestiario reale e fantastico (leoni, grifoni, chimere) chiamato a popolare la nuova capitale e dal quale non sembra estranea la suggestione dell’arte animalistica dei nomadi.

Non si può infine escludere una valenza politica, per quanto l’effettivo senso di quegli oggetti verrà riconosciuto solo dopo la conquista russa delle steppe pontiche e specialmente dopo la scoperta, nel 1830, del kurgan di Kul’Oba è comunque ipotizzabile che quei materiali così simili, pur provenendo da territori fra loro tanto distanti, suggerissero l’idea di un passato comune, di una comune civiltà estesa su tutte le steppe, di cui la Russia si sentiva come unica erede storica, i reperti venivano a fornire una legittimazione storica dell’imperialismo russo verso le steppe orientali e meridionali che le armate di Pëtr I Alekseevič contendevano ai nomadi orientali e alla Sublime Porta. 

Il collezionismo petrino non si volse solo alle antichità delle steppe asiatiche, la scelta occidentale dello zar influì anche sulle scelte in campo artistico e culturale; prescindendo dalle acquisizioni di arte moderna e contemporanea o di quelle curiosità che tanta affascinavano l’Europa barocca, conviene portare la nostra attenzione sulle antichità classiche acquistate dallo Zar, non molte ma estremamente significative.

Il primo oggetto degno di nota è un dono, il “nappo del re di Danimarca”, una grande coppa in oro e smalti, decorata con cammei antichi, donata nel 1716 da Frederik I di Danimarca allo Zar; la coppa venne smontata per ordine di Caterina II Alekseevna per ricavarne le gemme, l’immagine originale ci è conservata da un acquerello dipinto nel 1730 da Ottmar Ellinger.

L’avvicinamento all’Europa fu, come sempre per la Russia, in primo luogo un avvicinamento all’Italia, nel 1716 Savva Raguzinskji, un funzionario di origine polacca, fu inviato come ambasciatore e agente commerciale a Roma e Venezia; i suoi incarichi riguardavano principalmente l’acquisto di argenterie e la realizzazione di un centinaio di sculture, commissionate a numerose botteghe romane e veneziane, destinate ad abbellire il giardino del “Palazzo d’Estate”.

Fra le altre giunsero da Roma anche alcune statue antiche, si tratta di due Afroditi, una priva di particolar interesse, prodotto dell’efficiente sistema delle botteghe copistiche romane, l’altra un autentico capolavoro della copistica antica, la cosiddetta “Venere di Tauride” dal palazzo pietroburghese in cui era conservata prima del trasferimento all’Ermitage, rinvenuta a Roma nel 1718 venne immediatamente acquistata da Raguzinskji ed inviata in Russia via terra su uno speciale carro a sospensioni appositamente realizzato e non via mare, come era di prassi.  La statua raffigura un’Afrodite nuda, i capelli fermati da una benda, le vesti appoggiate su un pilastrino collocato alla sua destra, si tratta di una variante protoellenistica dell’”Afrodite Cnidia” di Prassitele restituita da una copia di altissimo livello, probabilmente di età adrianea.

Le collezioni imperiali, interessate da fenomeni di continuo accrescimento, servirono da modello a numerosi esponenti dell’aristocrazia della capitale per la creazione di raccolte private, oltre a quella già ricordata di Miller le principali sono quelle di Aleksander Menšikov e Jakov Bruce, in cui le antichità convivevano con opere d’arte moderna e con curiosità antropologiche e naturalistiche secondo il gusto caratteristico delle Wünderkammer barocche.

 Fibula scito-siberiana

Pietro I Romanov il grande

 

 

 

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   Il panorama figurativo della Russia pre-cristiana appare a prima vista come una desolante assenza. Presso le tribù slave destinate a dar vita ai popoli rusici non si trova nulla di quel rutilante splendore d’oro e di gemme che accompagna le culture dei nomadi iranici e turco-altaici delle steppe nei bassopiani pontici come nell’Asia Centrale e nell’Altaj. Sembra non esserci nulla o quasi di quel mondo simbolico ricco e proteiforme che le popolazioni nomadi hanno creato nel corso dei millenni e cui hanno saputo dar forma in modo spesso originale nonostante l’innegabile influenza delle grandi civiltà sedentarie – greca, persiana, centro-asiatica, cinese – nella formazione del linguaggio figurativo delle steppe.

   Questa povertà deve però spingerci a guardare più in profondità, a ricercare le labili tracce di una cultura figurativa per noi quasi totalmente perduta ma non per questo inesistente. Le ragioni di questa povertà vanno probabilmente ricondotte a due ambiti distinti: l’effettiva assenza di un’autentica cultura figurativa per lunghi periodi della storia antica russa e l’uso generalizzato nelle produzioni artigianali di materiali come il legno, le pellicce e il cuoio di cui quelle terre avevano infinità dovizia ma la cui scarsa conservabilità ha significato per noi una perdita praticamente completa.

   Intorno al VIII-IX secolo –quando si configura l’identità delle future genti russe – il pantheon antico-slavo non sembra ancora essere stato oggetto di sviluppi in senso antropomorfo. Le divinità appaiono ancora come entità puramente astratte e polimorfe che si manifestavano attraverso i fenomeni naturali, prive di una forma rappresentativa umana o anche solo simbolica. Alcuni indizi sembrano però indicare che la trasformazione delle antiche divinità slave in un pantheon organizzato, composto da figure divine ben definite e rappresentabili fosse in opera nei momenti subito precedenti la cristianizzazione. Una cronaca relativa al principe Vladimir di Kijev – quindi a cavallo fra la fine e del X e i primi decenni dell’XI secolo – ricordo come il principe avesse fatto realizzare un insieme di idoli raffiguranti le divinità della città. La fonte è alquanto imprecisa e generica e quasi non fornisce indizi sull’aspetto di queste immagini – solo per Perum ricorda la presenza di un “baffo dorato” come elemento di riconoscimento – anche ipotizzando fossero ancora fra loro sostanzialmente indistinte si tratta in ogni caso del prezioso indizio sulla formazione di un pantheon organizzato e rappresentabile nella città madre degli antichi russi, processo foriero di grandi sviluppi ma troncato quasi subito dalla conversione all’ortodossia bizantina.

   Una preziosa reliquia di questo processo culturale si è fortunatamente salvata all’estrema periferia occidentale del mondo russo dove all’uso generalizzato del legno – è in questo materiale verosimilmente con l’aggiunta di componenti metalliche che dobbiamo immaginare le divinità di Vladimir – si affianca quello della pietra influenzato forse dalla diffusione della scultura lapidea pre-romanica nell’Europa centrale e nell’area carpatico-danubiana. Lungo il corso del fiume Zbruč, un affluente del Dnestr nell’Ucraina Occidentale si è infatti ritrovato un pilastro votivo datato al X secolo (oggi conservato a Cracovia) che rimane l’unica immagine cultuale nota del paganesimo russo e noto alla letteratura archeologica come “Idolo Zbručskij”. La scultura si organizza come un pilastro quadrangolare sormontato che nella parte alta prende figura umana da un’erma quadrifronte, i quattro lati presentano un ricco immaginario figurativo di difficile lettura in cui si attestano figure umane – forse divinità – tête coupé, l’immagine di un cavallo. La parte superiore delle singole facce è invece trasformata in una figura umana con indicazione degli arti superiori reggenti attributi e culmina in un restringimento che su ciascun lato presenta l’immagine di un volto umano in stretta relazione con il corpo sottostante il tutto sormontato da un coronamento a forma di cappello svasato a tesa larga. L’interpretazione dell’oggetto è molto dibattuta, fra gli studiosi ancora non vi accordo neppure sulla divinità rappresentata Perun o Svjatovit ma è innegabile il suo valore di preziosa testimonianza di una realtà scultore che dobbiamo immaginare decisamente più diffusa – immagini simili dovevano essere frequenti nei templi – ma di cui non abbiamo attualmente altra testimonianza materiale.

   Il pilastro Zbručskij può forse essere pensato come elemento d’arredo di un edificio di culto. A lungo totalmente sconosciuti i templi pagani della Russia cominciano oggi ad essere meglio noti grazie alla ricerca archeologica. Datato al X secolo il grande tempio di Perun a Novgorod appare particolarmente arcaico nella struttura. Al centro del complesso sacro vi è una piattaforma ellittica – elemento comune a tutti i templi antico-russi noti – al centro del quale era verosimilmente infitto un palo – o un idolo – elemento di collegamento fra i vari piani del creato. Intorno alla piattaforma era scavato un ampio fossato polilobato all’interno del quale si sono ritrovate tracce di combustione relative a riti sacrificali.

   Tipologicamente più evoluto appare un piccolo tempio anonimo a Kijev. Questi presenta un recinto rettilineo in pietra che definisce lo spazio consacrato – non sappiamo se fossero presenti alzati anche parziali in materiale deperibile. Il modello potrebbe derivare da contatti con il mondo coloniale bizantino ma all’interno della struttura rettilinea si ritrova la piattaforma ellittica vista a Novgorod è che doveva essere un elemento connotante gli antichi templi rusici. Una struttura lapidea tangente il lato corto orientale svolgeva probabilmente funzioni di altare.

   Nulla è sopravvissuto in ambito pittorico per il periodo che in questione, questo non rende però certamente condivisibile l’apodittica affermazione di G. K. Vagner nel suo pur fondamentale studio sull’arte della Rus kievita per cui i russi pagani non avrebbero esercitato la pittura perché “non avevano nulla da dipingere”. L’assenza di un’idea antropomorfa delle divinità non esclude di per se l’esistenza di una pittura anche sacra ma soprattutto non si può ridurre l’espressione figurativa solo ai contesti templari. Un prezioso indizio al riguardo ci viene da una testimonianza successiva ma che può aiutarci ad immaginare la situazione anche per il IX-X secolo.

   In due vani di servizio della chiesa di Santa Sofia a Kijev – per l’esattezza i vani destinati ad accogliere le rampe di scale che collegavano la cattedrale con il palazzo del gran principe – si conserva uno straordinario ciclo di affreschi profani – l’unico noto per la Russia medioevale – raffigurante le processioni di cavalieri, i musici e i giocolieri che accompagnavano il principe. Il ciclo si data intorno al 1040 e se per molti aspetti riprende elementi dell’iconografia imperiale bizantina e delle processioni dei basilei nel circo (stando alla lettura di V. Sarabianov) questo viene arricchito con elementi chiarimenti derivati dal folklore russo – come i danzatori con maschere ferine per cui non si può escludere una derivazione più o meno diretta dai rituali pagani ancora celebrati al tempo. Il dato più significativo è però la conferma dell’esistenza di una pittura palaziale per noi totalmente perduta in cui con buona verosimiglianza trovavano spazio le storie mitiche ed eroiche dell’epica nazionale analogamente a quanto noto in complessi di analoghe funzioni ad esempio nell’Asia Centrale. La totale perdita di questa pittura è principalmente dovuto all’uso generalizzato del legno nell’architettura civile russa il che – unito alle distruzioni delle invasioni mongole del XIII-XIV secolo – ha portato ad una scomparsa praticamente completa di tutta l’architettura civile pre-rinascimentale nel paese.

   Rispetto alle “arti maggiori” le testimonianze dell’artigianato artistico, specie per quanto riguarda la lavorazione dei metalli, sono più cospicue anche se non raggiungono il fasto attestato presso molti popoli nomadi. Inoltre escludendo gli esemplari provenienti da contesti archeologici certi si tratta di materiali di difficile datazione in quanto il repertorio decorativo e simbolico è continuato a lungo anche dopo la cristianizzazione.

   I materiali più antichi – a partire dal VII secolo – sono principalmente ricche fibule in oro con decorazione geometrica a granulazione derivata da modelli orientali e più rari esemplari con decorazione animalistica non ignora di stilemi sassanidi – grifoni e simurgh araldicamente disposti ai lati dell’albero della vita. Nelle regioni settentrionali come Novgorod si assiste a partire dall’VIII secolo allo sviluppo di uno stile animalistico caratterizzato da stretti contatti con le prime produzioni vichinghe. Questo stile si diffonde in tutta la regione del Ladoga e a partire dal IX secolo anche nella Russia meridionale come attesta un corno caprino da Černigov decorato con una lamina d’argento a rilievo con scene di caccia.

   La documentazione di Kijev è in genere posteriore e si estende per tutto l’XI secolo ma si assiste ad una continuità diretta tanto sul piano stilistico sia su quello delle immagini. Per quanto siano per noi di ostica lettura paiono doversi attribuire a cicli epici o mitologici le storie che decorano i naruči bracciali in argento lavorati a sbalzo. La ricca produzione di gioielli – collare, fibbie per cintura, fibule, ferma trecce – porta avanti un linguaggio fatto di motivi animalistici reali o fantastici, di creature mostruose, di alberi della vita sicuramente collegato all’antica epica pagana. Straordinario al riguardo un kolt – catena e pendente in oro tipici dell’antico costume slavo, venivano portati dalle donne intrecciate fra i capelli o fermati al copricapo – con la raffigurazione di due uccelli con testa umana in smalto cloisonné su fondo oro. Datato agli inizi del XII secolo viene di norma interpretato come immagine di sirene secondo l’iconografia classica mediata da Bisanzio, mi pare però possibile avanzare l’ipotesi che vi siano raffigurati gli uccelli sacri del folklore slavo Alkonost e Sirin.

   Soltanto con gli inizi del XIII secolo l’affermazione di soggetti cristiani anche negli oggetti di ornamento personale – fino a quel momento la loro presenza pare confinata all’ambito liturgico – segna la scomparsa di questa produzione orafa e con essa delle ultime forme espressive della Rus’ pagana destinate a venir travolte dal corso implacabile dei secoli. La pur limitata e frammentaria documentazione ci fornisce però indizi di una non trascurabile vitalità artistica e culturale che ci si augura nuove scoperte archeologiche possano rendere ai nostri occhi più ricca e nitida. 

pilastro Zbručskij

 

Kolt kievita

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