“Idomeneo” è l’opera che segna il raggiungimento della piena maturità del genio mozartiano, l’opera con cui il giovane salisburghese stravolge dall’interno la struttura dell’opera seria settecentesca aprendo squarci di inaudita modernità. Il libretto di Varesco molto bello in se – alcuni dei versi sono fra i più belli di tutta la storia del melodramma – era comunque molto ancorato alle convenzioni del genere, convenzioni che invece Mozart spazza via con l’irruenza di un libecciata primaverile.
La ripresa torinese non ha dato però pienamente ragione alla statura dell’opera, in gran parte per colpa di una regia decisamente molto deludente. Davide Livermore ha sicuramente talento e in passato ha presentato sul palcoscenico torinese spettacoli di notevole interesse – il suo “Die Entführung aus dem Serail” resta fra le poche regie “moderne” veramente godibili viste in questi anni – ma questa volta lo spettacolo è stato totalmente mancato.
La vicenda risultava chiusa in una spazio unitario, ampie pareti decorate da bolle d’acqua ad evocare l’elemento marino centrale nell’opera, peccato che l’effetto risultasse decisamente stancante e noioso, in oltre l’ambiente subacqueo con effetti da Sirenetta disneyana non pare molto in linea con l’universo mozartiano. Per il resto la scena era composta solo da scarni elementi destinati a descrivere un’umanità rovinata: una vecchia muscle-car americana con tanto di coda a pinne; il frontone di un tempio greco in rovina; una vecchia televisione; un letto a baldacchino scompaginato dal vento; un lampione stradale. Unica modifica della scena nel terzo atto quando gli stessi elementi apparivano stravolti dalla furia del mare scatenata da Nettuno. Una fissità in totale disaccordo con la volontà di drammatizzazione condotta da Mozart sul libretto. Il tutto in un ambiente molto cupo e opprimente, anche nei momenti dove la situazione teatrale e l’atmosfera musicale vanno in direzione diversa.
La povertà delle scene era accompagnata da una scarsa efficacia della parte propriamente registica. Certo un’abile mano si riconosceva in alcuni elementi riusciti: l’identificazione fra Nettuno e Idomeneo metafora del Dio come creazione della follia umana; l’immagine del naufragio con Idomeneo sollevato in aria e intendo a muoversi come un naufrago fra le onde e ancor più suggestive le comparse di bianco vestite che Ilia tenta di abbracciare ma che sfuggivano al suo contatto, elegante rappresentazione dei fantasmi dei famigliari massacrati nel giorno fatale di Troia. Ma si trattava di scarsi elementi in una regia confusa, dibattuta fra la staticità e l’esagitazione, con movimenti mal definiti – molto modesta la gestione del coro sempre uguale quale fosse la situazione drammatica – e soluzioni poco convincenti. Deludenti e alquanto banalotte le proiezioni come la mano di Nettuno che agita le acque per scatenare il maremoto. In passato Livermore aveva mostrato molto di meglio anche in questo ambito.
Costumi anonimi per gli uomini – i soliti pastrani – unica particolarità i soprabiti in plexiglas chiamati a rafforzare la dimensione marina; più personalizzati quelle delle donne: Ilia vestita – giustamente – da principessa orientale mentre Elettra trasformata in una mangia uomini con lunga chioma tizianesca, abito rosso e spacco vertiginoso, una via di mezzo fra Jessica Rabbit e via Gradoli.
Sul versante musicale le cose andavano decisamente meglio. Personalmente ho trovato di grande interesse il tenore americano Matthew Polenzani, voce di autentico tenore mozartiano, squillante e sonora, per nulla femminea, giustamente drammatica. Ottima la linea di canto – solo qualche minima difficoltà nelle colorature di “fuor dal mare” eseguita nella versione completa; recitativi scanditi con sicurezza, buona provincia italiana. Dobbiamo ringraziare il Regio di aver portato in Italia questa stella del Metropolitan in un titolo che trovo gli risulti molto congeniale.
Altro punto di forza del cast si è rivelata la giovane rumena Ruxandra Donose. Mezzosoprano dal timbro chiaro, quasi sopranile, particolarmente congeniale al giovane principe cretese; ha sfoggiato una qualità di canto veramente considerevole. La linea vocale è sempre fluida, omogenea, di estrema pulizia; l’interprete è appassionata e convincente. L’unico limite sta in un volume abbastanza limitato, specie nelle note gravi. Bravissimo Alessandro Liberatore nella grande aria di Arbace nel terzo atto.
Meno convincenti i soprani, ma in questo ambito bisogna considerare gli spostamenti di cast sopravvenuti al progetto originale. Eva Mei era potenzialmente una Ilia ideale, passata ad Elettra si trova ad affrontare un personaggio che gli è sicuramente meno congeniale. La Mei è cantante sensibile e il risultato è comunque molto soddisfacente, la scelta è stata quella di mettere in maggior evidenza la parti più liriche e cantabili – splendida al riguardo l’aria del secondo atto “Idol mio, se ritroso” culmine dell’interpretazione delle Mei – rispetto a quelli più scopertamente drammatici affrontati comunque in modo decisamente apprezzabile. Il personaggio era inoltre decisamente penalizzato dalla regia che lo affrontava in un’ottica apertamente ironica travisandolo totalmente, non si può ridurre Elettra ad una macchietta che prende a borsettate Arbace e appena può tenta di approfittare di Idamante.
Decisamente debole invece la Ilia di Annick Massis. Voce troppo leggera per il ruolo, timbro spento, accento perennemente querulo. La parte di Ilia è forse la più compiuta dell’opera e dispiace un approccio così superficiale. Certo la Massis è subentrata in seconda battuta ma la prova è stata comunque deludente.
Il giovane direttore ceco Tomáš Netopil ha guidato l’orchestra del Regio con sicurezza e ottimo passo teatrale seppur senza particolari colpi d’ala e come sempre molto buona la prova del coro diretto da Roberto Gabbiani.