Da un certo punto di vista il “Mosè in Egitto” allestito da Graham Vick (con scene e costumi di Stuart Nunn) rappresentava l’esatto opposto dell’”Adelaide di Borgogna” di Pier’Alli, tanto questa era un totale nulla dal punto di vista registico tanto lo spettacolo firmato dall’inglese si presentava caratterizzata da una presenza eccessivamente invasiva della regia.
Vick parte da un’idea sicuramente forte: la sostanziale negatività del monoteismo e la declina alla luce della cronaca quotidiana delle guerre medio-orientali. L’impianto scenico è un palazzo reale decisamente kitsch, che ricorda da presso certi grandi alberghi della regione, parzialmente sventrato dai bombardamenti. Il palazzo è a sua volta diviso in due parti, una più lussuosa abitata dagli egiziani e una più misera, spesso sotterranea destinata agli ebrei.
I costumi richiamano per gli egiziani un regime militare arabo, potrebbe essere l’Egitto di Mubarak comela Siriadi Assad mentre gli ebrei sono connotati più nella loro realtà di subordinati sociali che per la loro natura etnica anche se compaiono alcuni tratti fortemente caratterizzanti specie per Mosè ed Aronne; restava invece scarsamente comprensibile l’hjiab delle donne ebraiche specie in confronto con le egiziane – che andrebbero immaginate come mussulmane – vestite in modo decisamente più occidentale con sul capo solamente leggeri scialli bianchi disinvoltamente portati. Faraone alterna abiti diplomatici occidentali e divise militari, Osiride veste con un cardigan bianco e la kephiah palestinese sul capo; Mosè ricorda centri terroristi jiadisti con la giacca mimetica portata su una tunica e la lunga barba.
Elemento portante di Vick è la totale eliminazione della sfera divina dalla vicenda: Dio è solo una bandiera impugnata dagli uomini per giustificare le proprie guerre. Scompare quindi qualunque richiamo all’elemento soprannaturale e le piaghe d’Egitto sono riportate tutte alla fera umana e trasformate in azioni terroristiche. I risultati sono stati però molto altalenanti, se ottiene sicuramente un notevole effetto la tempesta di fuoco con i servi ebrei che aprovono i grembiali da lavoro mostrando sotto di essi le cinture esplosive degli shahid; la morte dei primogeniti viene immaginata come un attacco con gas nervini che dovrebbe uccidere gli egiziani mentre gli ebrei si salverebbero con maschere antigas perde di efficace, di maschere in scena ve ne sono solo due e in posizione molto marginale del palcoscenico mentre gli altri muoiono o sopravvivono in modo assolutamente casuale e ben poco chiaro. Molto poco convincente anche l’episodio delle tenebre ridotto ad una manomissione dell’impianto elettrico decisamente meno spaventosa di un oscuramento del Sole e il fulmine che colpisce Osiride sostituito da un lampadario appositamente manomesso che rammenta Agatha Christie o ancor meglio le parodie del giallo classico con un effetto decisamente più comico che impressionante. Infine il passaggio del Mar Rosso era sostituito dall’abbattimento di un muro in cemento – simile a quello costruito intorno a Ramallah – cui seguiva l’apparizione di un carro armato israeliano che faceva fuoco uccidendo i soldati egiziani all’inseguimento.
Vick conosce molto bene il mestiere e la capacità di curare al meglio la messinscena si riconosce chiaramente ma nonostante questo lo spettacolo non convince per molte ragioni. Se l’idea dell’innata negatività del monoteismo è pienamente condivisibile sul piano filosofico ed etico è però altrettanto estranea all’universo della vicenda. Quella di Mosè è una vicenda mito-storica strettamente connessa con la costruzione di un’identità etnico-religiosa; questo comporta a mio parere due elementi fondamentali la cui assenza nella regia pesarese comportava una sostanziale incomprensione dell’opera stessa:
– La vicenda di Mosè appartiene a quei miti archetipici che fondano l’identità di un popolo e non casualmente presenta tratti comuni a storie analoghe di altre regioni mediterranee e levantine. Per sua natura esso può svolgersi solo in un altrove temporale, in un passato inteso come tempo mitico di costruzione dell’identità. Attualizzarlo, potarlo nel presente significa privarlo di questa componente essenziale e quindi svuotarlo del suo significato più profondo. Inoltre Vick sembra arrestarsi dall’ultimo passo. Se si voleva evocare il conflitto israelo-palestnese si poteva andare fino in fondo rovesciando i rapporti ed identificando gli egiziani con Israele e gli ebrei conla Palestina.Invecesi opta per una soluzione di compromesso presentando una realtà totalmente immaginaria in cui gli ebrei sono dominati da un dittatore arabo in un paese che per voler essere tutto (le citazioni andavano da Gaza a Guantanamo, dall’Iraq alla Cecenia) finisce per non esser più nulla impedendo anche la partecipazione emotiva che potrebbe accompagnare il richiamo alla realtà contingente.
– Come tutti i racconti mitici la storia di Mosè si basa su una realtà che non può essere quella semplicemente terrena. Mosè è il mezzo attraverso cui Dio agisce; la presenza del sacro, del miracolo, dell’intervento divino nel mondo è uno dei tratti fondanti questo linguaggio. Mosè è lo strumento di Dio e privato di questo perde la sua stessa essenza. Vick cerca di rovesciare i parametri riducendo Dio a strumento, a vessillo brandito da Mosè per i propri fini terreni ma se queste riflessioni è ovviamente condivisibile sul piano storico-sociale non lo è su quello storico-mitologico e impone una sostanziale incomprensione della natura stessa del racconto.
Ultima considerazione – questa volta di natura prettamente tecnica – riguarda la presenza eccessivamente invasiva di rumori di scena ed elementi di disturbo. La platea era continuamente utilizzata da figuranti e coristi raffiguranti di volta in volta parenti di desaparecidos alla ricerca dei propri cari, terroristi, soldati egiziani in un continuo correre e agitarsi decisamente fastidioso ma non nel senso voluto dal regista – che pensava così di immergere il pubblico in un clima di tensione – ma in quello derivante dal continuo disturbo della fruizione musicale che in un’opera dovrebbe essere comunque la componente dominante.
Uno spettacolo quindi sicuramente ben realizzato sul piano della tecnica registica ma che a mio parere si può per molti aspetti definire fallimentare o almeno molto poco convincente. Pubblico prevedibilmente spaccato con sonore contestazioni cui andrebbero sommati tutti coloro che nelle riprese evitano di contestare scaricando sulle incolpevoli masse artistiche le colpe del regista categoria cui appartiene anche lo scrivente.
La parte musicale – pur non indimenticabile – dava sicuramente abito a meno tensioni. Un primo merito va sicuramente riconosciuto a Roberto Abbado la cui direzione si è segnalata per la ricerca di una suggestiva bellezza sonora e per una non comune capacità di accompagnare il canto. Il direttore opta per tempi distesi, ieratici ma è anche capace di improvvisi colpi d’ala dove richiesto. A tratti si sarebbe forse desiderata una maggior imponenza sonora ma questo non inficia la piena ammirazione per quella che si rivelata sicuramente la miglior prova offerta dal Direttore nella ormai lunga presenza al ROF. Abbado in questo è stato splendidamente sostenuto dalla prova magistrale offerta dall’orchestra e dal coro del Teatro Comunale di Bologna, quest’ultimo sotto la guida di Lorenzo Fratini.
Sul piano vocale autentico mattatore della serata è stato Alex Esposito nei panni di Faraone. E’ ormai da qualche anno che si segue con sommo interesse la carriera del basso-baritono bergamasco riconoscendovi palesi miglioramenti ad ogni nuova apparizione. Nel presente caso la presente esibizione è stata superlativa da ogni punto di vista. Vocalmente impeccabile in tutta la gamma, perfetto nella scansione drammatica dei declamati, sicurissimo nei passaggi più scopertamente belcantistici con un’autentica vetta nella strepitosa esecuzione di “Cade dal ciglio un velo”. Ma se notevolissimo è il cantante ancor superiore è l’interprete capace di rendere con assoluta naturalezza un personaggio contorto ed esitante – per molti aspetti autentico corrispettivo rossiniano del Macbeth verdiano – in cui le passioni si susseguono contrastanti e mutevoli e in cui la protervia nasconde sempre un senso di sostanziale fragilità; tutti elementi che la lettura di Esposito esalta con una naturalezza ed una completa adesione al discorso musicale da farne una delle più suggestive letture ascoltate in questi anni e non solo nel repertorio rossiniano.
Altro punto di forza del cast andava sicuramente riconosciuto in Dmitry Korchak. Il tenore bielorusso sfoggia una voce squillante, luminosa che unita ad un’ottima tecnica gli permetto di salire con facilità nella zona acuta. Le colorature sono sgranate con pulizia e convinzione, l’interprete è convincente. Nell’insieme un’ottima prova specie considerando che non si tratta di un ruolo naturalmente ideale per i suoi mezzi vocali.
Meno convincente il protagonista. Riccardo Zanellato manca dell’imponente cavata vocale richiesta per Mosè, la voce è a tratti poco sonora nel registro basso e l’interprete spesso poco rifinito, certo la regia che trasformava Mosè in una sorta di Bin Laden ebreo monomaniacalmente finalizzato ai propri obbiettivi politici non era l’ideale per approfondire certi tratti di maggior umanità che pure la scrittura rossiniana presenta. In quest’ottica una certa una certa durezza era insita nella concezione del personaggio.
Altalenante la prova di Sonia Ganassi. In primo luogo la voce è – a mio parere – poco adatta per il ruolo di Elcia, priva di quello squillo più chiaramente sopranile che la giovane età del personaggio sembrerebbe richiedere. Inoltre la cantante non doveva essere in splendida forma il che spiega l’atteggiamento fin troppo prudente riscontrabile nel I atto e particolarmente evidente nel duetto “Ah se puoi così lasciarmi” dove erano evidenti diverse difficoltà specie a confronto con l’ottima prova offerta da Korchak.La Ganassiresta in ogni caso cantante di alto livello artistico e nel corso della recita è andata decisamente crescendo nel corso dell’opera come attestano tanto il diafano, quasi disincarnato attacco di “Mi manca la voce” sia la prova offerta nel gran cimento rappresentato dalla scena solistica del II atto. Resta purtroppo da segnalare l’ormai annosa difficoltà nelle agilità di forza che nel corso degli anni appare aggravarsi progressivamente.
Negativa senza attenuanti la prova di Olga Senderskaya come Amaltea. Voce secca, di scarsissima attrattiva e tecnica decisamente precaria; sostanzialmente mezzi da comprimaria totalmente insufficienti per la parte pur pietosamente privata (soprattutto per il pubblico) dell’impervia “La mia smarrita pace”.
Da segnalare le prove offerte dal tenore Yijie Shi (Aronne)e del mezzosoprano Claudia Amarù (Amenofi), corretta e funzionale quella di Enea Scala (Mambre)