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Archive for the ‘Società e politica’ Category

Il clima di grandi speranze portato dall’offensiva alleata nell’Italia centrale nell’estate del 1944 diede l’occasione alle formazioni partigiane del nord della penisola di cercare di scuotere con le proprie forze il gioco nazifascista, in ogni angolo dell’Italia occupata fiorirono iniziative di questo tenore che dall’Emilia alla Liguria, dalla Carnia alle Langhe portarono alla nascita delle repubbliche partigiane, il più luminoso sussurro di dignità di un paese umiliato da vent’anni di grottesca dittatura. Se tutte queste esperienze furono unite dal sincero sentire democratica e dal sogno reso ancor più luminoso dalla sua natura per molti versi utopica di potersi liberare una volte per tutte dalle catene fasciste quella sorta in Val d’Ossola si distinse per la maturità politica che seppe esprimere in quei drammatici momenti.

L’8 settembre 1944 le formazioni partigiane guidate da Alfredo Di Dio, Bruno Rutto e Dionigi Superti imposero la resa alle forze nazi-fasciste di stanza a Domodossola, i tedeschi accettarono la trattativa – mediata dall’arciprete Luigi Pellanda – mentre i fascisti provarono a resistere ma stretti dall’attacco partigiano furono rapidamente costretti a capitolare. Nel giro di pochi giorni il nuovo governo si trovava a controllare quasi duemila chilometri quadrati in un’area strategica di passaggio verso la Svizzera e diede atto ad un progetto politico capace di stupire il mondo.

Alla guida della repubblica venne costituita una giunta di governo formata da esponenti comunisti, socialisti, azionisti, democristiani e liberali entrata in carica il 9 settembre sotto la guida del professor Ettore Tibaldi di matrice socialista mentre un altro socialista Carlo Lightowler fu eletto sindaco. Ad essa si affiancavo collaboratori provenienti dalle frange più elevate dell’antifascismo militante e che avrebbero avuto un ruolo non piccolo nei dibattiti costituzionali successivi alla guerra come Umberto Terracini – segretario generale della futura costituente – Ezio Vigorelli, Piero Malvestiti. Un’intera futura classe dirigente si stava formando in quell’esperienza esaltante e convulsa.

A differenze di altre analoghe esperienze la giunta ossolana mostrò fin da subito una non comune capacità di far fronte alle esigenze della popolazione. Per primo si cerco di intervenire sulla disastrosa situazione dei rifornimenti alimentari, venne costituito un apposito servizio annonario coinvolgendo in un primo tempo la popolazione civile con la raccolta di eventuali scorte ancora presenti sul territorio e poi sfruttando la posizione geografica la riapertura di relazioni commerciali con la Svizzera. Un primo treno di provviste organizzate dalla Croce Rossa giunse a Domodossola il 22 settembre ma il progetto era di gran lunga più sistematico e prevedeva la creazione di una regolare rete commerciale regolare in cui prodotti industriali ossolani avrebbero pagato alla Svizzera i rifornimenti alimentari. Questo comportava un’autentica politica industriale con la riorganizzazione della produzione in parte destinata come detto all’esportazione e in parte alle forniture militari per i difensori. Le frequenti visite di esponenti politici elvetici di livello testimoniano l’efficacia della politica mantenuta dalla Repubblica partigiana nelle relazioni internazionali.

L’attività economica fu affiancata da un sistematico progetto di riorganizzazione politica. I singoli comuni della valle furono dotati di giunte di cinque elementi – sindaco con quattro assessori – provenienti da tutte le forze politiche affiancate da quattro consiglieri di nomina popolare; i singoli enti godevano di piena autonomia e il comitato centrale di Domodossola manteneva per se solo poteri di ratifica. In tal modo si cercava di creare la maggior partecipazione popolare e il maggior rigore democratico possibile in quella situazione.

Particolare cura fu data alla riorganizzazione della giustizia e della sicurezza in modo da prendere le maggiori distanze dal sistema di abusi della dittatura. Particolare ruolo ebbe Ezio Vigorelli incaricato di condurre i processi per reati politici e sostenitori di una linea fortemente garantista, non vi furono vendette o persecuzioni politiche ma regolari inchieste precedute da appositi mandati di comparizione mentre gli arresti erano limitati a coloro che si erano resi complici di tradimento e atti di violenza contro i patrioti ed in ogni caso andava garantito il rispetto della dignità di ogni prigioniero in voluta contrapposizione ai metodi fascisti. Non venne mai applicata la condanna a morte e venne abolito il lavoro forzato anche per gli internati nel campo di prigionia di Druogno in quanto stando all’espressione dello stesso Vigorelli “Il lavoro controvoglia non ha alcun valore rieducativo”. Com’ebbe a scrivere al riguardo Alessandro Levi “Questo rarissimo caso d’una guerra paesana che non degenera in una sciagurata sequela di violenze da ambo le parti, va segnalato, a mio avviso, come l’esempio della più difficile vittoria, di quella cioè, sopra i propri più istintivi sentimenti e risentimenti. Se un tale esempio fosse stato, e fosse tuttora, per ogni dove risaputo e seguito, più facile quella riforma del costume civile, che ogni uomo, pensoso delle sorti di questo nostro povero paese, deve contribuire ad attuare come necessaria ed urgente.”

L’attenzione alla giustizia e alla clemenza insieme all’efficacia del controllo territoriale svolto da nuove forze di Polizia estranee ai metodi repressivi fascisti furono fra le ragioni che spiegano l’assenza di disordini civili nella Repubblica ossolana nel corso della sua breve esperienza storica.

Il destino di questa straordinaria esperienza era però segnato sul piano militare e il Proclama Alexander del 13 novembre 1944 calava come una pietra tombale sulle repubbliche partigiane. La necessità di riorganizzazione dopo le pesanti perdite subite nello sfondamento della linea gotica – cui si aggiunge il pericolo rappresentato dalla disperata controffensiva tedesca nelle Ardenne – imponeva agli alleati un freno all’azione ma questo lasciava libere le mani alla rappresaglia nazi-fascista contro le forze democratiche del nord Italia. Abbandonata a se stessa nonostante le sempre più pressanti richieste di aiuto la Repubblica dell’Ossola aveva i giorni contati. Il 10 ottobre i nazi-fascisti lanciarono la controffensiva ma la resistenza delle formazioni partigiane fu eroica, in tredici giorni di aspri combattimenti le formazioni patriottiche riuscirono a infliggere pesanti perdite agli invasori e a garantire la smobilitazione delle popolazioni civili che con ogni mezzo lasciavano le valli cercando asilo in Svizzera o si univano alle formazioni combattenti. Lo scontro era impari con 3000 partigiani armati alla leggera a fronteggiare circa 5000 nemici dotati di tre cannoni d’assedio, di cinque carri armati e di una decina di autoblindo, le prime colonne fasciste entrarono a Domodossola il 17 ottobre ma fino al 23 la resistenza continuò nella valle. Quella che gli invasori si trovarono di fronte era una città spopolata, oltre 20000 persone hanno abbandonato le loro case tanto per sfuggire alle vendette dei vincitori quanto perché non più disposti a risprofondare nello sterco fascista dopo aver conosciuto la libertà mentre i gruppi combattenti riparavano verso la Valsesia dove si univano alle formazioni locali per riprendere l’offensiva all’inizio del 1945.

La repubblica era durato un battito di ciglia ma era stata un’esperienza indimenticabile ed infinitamente formativa per tutti coloro che vi avevano partecipato. Seppur annacquate dagli inevitabili compromessi della politica le istanze di vera democrazia e condivisa libertà seminati in quei giorni avrebbero rappresentato il terreno di coltura da cui sarebbero nata la Costituzione Repubblicana. Buon 25 aprile.

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   In passato su questa pagina si era parlato di politica, vista la situazione attuale mi ero promesso di evitare l’argomento ma una foto mi ha colpito molto facendomi riflettere al riguardo. La fotografia è quella riportata sotto e mostra un dettaglio della manifestazione organizzata alla Leopolda per la candidatura di Matteo Renzi alle primarie del PD, trovo che poche immagini descrivano con altrettanta evidenza il degrado della società italiana – la politica è un riflesso della società e non può essere vista come un corpo estraneo ad essa – e soprattutto il rischio che la sinistra corre in questo frangente storico.

  Il sindaco di Firenze è sicuramente un buon comunicatore, più in imbonitore che un vero oratore ma il pubblico avvezzo a decenni di propaganda televisiva trova in lui esattamente quello che cerca. Ma qui sta il punto sostanziale di quello che mi pare essere il problema: l’eccessiva vicinanza del candidato a certi modelli culturali che hanno imperato nell’Italia dell’ultimo ventennio ma che la sinistra dovrebbe sentire come estranei.

  Da molti – troppi – punti di vista Renzi appare come la perfetta incarnazione del modello culturale-antropolgico berlusconiano, il simbolo fattosi carne di quell’impossibilità di uscire dal berlusconismo anche dopo Berlusconi perché esso è divenuto parte integrante dell’italiano medio. In questi mesi Renzi ha mostrato una capacità diabolica di essere sempre sul punto caldo o meglio di dare l’impressione di esserci in quanto almeno personalmente non ho ben chiara una sua posizione che sia una in qualunque settore, ad un’analisi più attenta sembra infatti straordinariamente abile a toccare ogni argomento ma senza mai approfondirlo veramente sfiorandolo appena e scivolandone subito via ma dando l’impressione di essersene interessato e dicendo più o meno sempre quello che le masse popolari attendono di sentirsi dire.

   Se l’atteggiamento è palesemente berlusconiano – le stesse manifestazioni renziane sono molto più prossime alle convention della prima Forza Italia che ha un normale congresso di partito – anche sul piano strettamente politico appare evidente la filiazione di Renzi da quell’ambito culturale. Le considerazioni di Cuperlo sull’assenza delle bandiere del partito possono non essere state poste nel migliore dei modi ma toccano un tema centrale dell’idea di potere di Renzi. Un’idea che prevede il superamento del partito come struttura fondante del dibattito democratico e concentra tutto sulla natura carismatica del leader. In quest’ottica non solo non esiste più la tradizione storica della sinistra – di cui non restava il minimo segno – ma spariva anche lo stesso PD alla segreteria del quale si candidava, restava solo Renzi, sempre Renzi, fortissimamente Renzi. Ed è difficile trovare un’idea del potere più profondamente berlusconiana di questa senza considerare che credo in nessun paese al mondo si avanzi la propria candidatura alla guida di un partito evitando accuratamente che compaia anche per sbaglio il simbolo del partito medesimo.  

   Verosimilmente – almeno a parere dello scrivente – è da questa profonda concezione che deriva la stessa battaglia di Renzi a favore di un maggioritario puro, battaglia quanto mai anacronistica in un momento dove ovunque in Europa si assiste ad una frammentazione del quadro politico ed in Italia si è ormai assistito al superamento dello schema bipolare della cosiddetta “seconda repubblica” a favore di quello che è un proporzionale di fatto. Il maggioritario è però l’ambito ideale per una leadership carismatica e totalizzante che idealmente unisce direttamente eletto ed elettori (versione aggiornata ma sostanzialmente analoga di quella sovrano-sudditi nelle monarchie di antico regime) prescindendo da tutte quelle componenti propriamente politiche su cui si reggono le democrazie evolute. Anche in questo appare evidente la filiazione di Renzi da Berlusconi e la proposta di ampliare a livello nazionale la legge usata per le elezioni municipali – fortemente penalizzante nei confronti delle minoranze – riflette ulteriormente questa volontà di accentramento del potere.

   Non ho spazio ne tempo per commentare in dettaglio i discorsi di questi giorni, se non constatare il senso di vuoto che li dominava, quel portare sistematicamente altrove l’ascoltatore per evitare di farlo riflettere sulla superficialità di molti interventi – Crozza al riguardo ha colto in modo strepitoso la natura del personaggio. Mi ha colpito però questa frase “la sinistra che non cambia è destra” (cito a memoria, il senso era quello possono cambiare qualche parola) il che porta a riflettere sull’idea stessa di sinistra. Semplificando al massimo nei modelli occidentali a partire dalla Rivoluzione francese si intende con sinistra quella parte che difende gli interessi dei ceti subalterni e delle masse popolari e lavoratrici e con destra quella che sostiene le posizioni dei ceti economicamente dominanti e in ultimo delle borghesie capitaliste. Il cambiamento in se non è un valore né di destra né di sinistra, è un concetto astratto mentre sarà la direzione data a quel cambiamento a dargli una connotazione politica. Un cambiamento finalizzato a ridurre i diritti acquisiti e gli strumenti di tutela dei ceti subalterni non potrà mai essere di sinistra mentre sarà di sinistra la difesa anche dura di quegli stessi diritti. L’idea che il cambiamento sia un’idea di sinistra in se è estremamente pericoloso perché apre facilmente la strada a posizioni liberiste cui si fornisce un’apparente giustificazione ideologica.

   Se il cambiamento fosse in se di sinistra non ci potranno mai esserci governi più di sinistra di quelli berlusconiani che hanno provato a stravolgere totalmente il sistema sociale italiano, ovvio che questa è una provocazione in quanto quei cambiamenti miravano ad un rafforzamento delle classi dominanti su quelle subalterne ma è una provocazione non troppo lontana dalla realtà se si accetta letteralmente la dichiarazione di Renzi (specie considerando il suo appoggio dato in un passato non troppo lontano a certi modelli di cambiamento, come quello propugnato da Sergio Marchionne in ambito sindacale che tutto possono definirsi fuorché di sinistra).

   L’altro grande cambiamento che Renzi prospetta è sul piano simbolico, è il cambiamento dei simboli, dei riferimenti ideali e culturali ed anche in questo caso si assiste ad una centralità dell’immaginario popolar-televisivo chiamato a sostituire le icone dell’immaginario di sinistra. Ad un pantheon ideale fatto di Marx, Egels, Gramsci e Pasolini ne viene contrapposto uno considerato più attuale in cui compaiono Baricco, Gori (l’uomo che ha portato in Italia il “Grande fratello”), Jovanotti e Briatore. Oltre che poco di sinistra mi sembra qualitativamente molto squallida come proposta.

   Ad aver capito la natura profonda del personaggio è stato non a caso Berlusconi che mostrando come da par suo un fiuto non comune aveva visto nel sindaco di Firenze il suo erede naturale e aveva cercato inutilmente di portarlo dalla sua parte. In lui probabilmente il Cavaliere ha visto davvero una scintilla di quello che era stato lui negli anni migliori e forse un vero erede cosa che non sembrano essere né il tentennante Alfano, né i delfini più o meno presunti lanciati e bruciati nel giro di qualche settimana (da Samorì a Fitto) né tanto meno la figlia Marina saggiamente più interessata alle aziende che ad un partito da troppo tempo impupato in attesa di una sofferta metamorfosi.

   A scanso di equivoci non penso che Renzi sia in qualche modo legato a Berlusconi e di suo è fermamente convinto di essere l’uomo giusto per batterlo ma allo stesso tempo incarna appieno il ventennio berlusconiano di cui è figlio, in lui sembra prendere corpo quello spauracchio del berlusconismo dopo Berlusconi da tanti evocato in forme vaghe e mal definite ma che ora cominciamo a vedere concretamente come categoria antropologica presente anche all’interno della sinistra.

   Renzi probabilmente vincerà perché sugli italiani di ogni colore politico ha sempre presa il fascino dell’uomo solo al comando, del leader a cui affidarsi declinando dai propri dover civici ridotti al mugugno da mercato rionale ma questa vittoria apre scenari inquietanti sulla deriva culturale dell’Italia dove di fronte alla morsa delle destre – quella liberal-plutocratica di un Berlusconi ancora non vinto e quella antimoderna, demagogica e sostanzialmente nazi-fascista del Movimento 5 stelle la cui vera natura è sempre più chiara sotto il velo di una fin troppo gridata neutralità antipolitica (ma la storia insegna che l’antipolitica non è priva di colore ma è propria delle destre più estreme e violente) – il centro-sinistra rischierebbe di perdere la propria anima in cambio dell’illusione di una vittoria. Ormai cammina sul filo del baratro del berlusconismo, un minimo passo errato può gettarla in un abisso senza ritorno. 

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  Nell’ottobre del 1962 durante l’aratura di un campo a Madonna del Poggio, frazione di San Giovanni in Persiceto (BO) vennero alla luce alcuni scheletri. I primi corpi intercettati da una ruspa furono sconvolti ma in seguito i rimanenti vennero estratti da due serie di sepolture parallele, una delle quali conteneva anche un teschio di cavallo.

   Immediatamente intorno ai corpi si scatenò una violenta polemica. I familiari dei repubblichini di Salò accusarono apertamente i partigiani della presunta strage e l’Arciprete di Persiceto organizzò addirittura funerali solenni per le vittime della barbarie comunista accusando apertamente il Sindaco (appartenente al PCI) di corresponsabilità in quelle uccisioni. Addirittura il Giudice Istruttore di Bologna decretò che le ossa dovevano essere recenti perché in caso contrario “sarebbero affiorate molto prima”.  Da quel momento la presunta strage di Madonna del Poggio è divenuta un cardine della propaganda della destra neofascista e uno dei più significativi esempi di quel “sangue dei vinti” tanto esaltato da una certa pubblicistica. Ancora nel 2005 Gianfranco Stella nel volume “I lunghi mesi del ’45 in Emilia Romagna” accusa apertamente i partigiani della strage.

   Eppure che qualcosa non tornasse doveva essere evidente da subito. Quando mai in una fossa comune di guerra i corpi sono deposti allineati, in fosse singole e disposti tutti con il medesimo orientamento; come mai fra i presunti fascisti vi erano ossa sicuramente pertinenti a sepolture infantili nonché a probabili sepolture femminili; cosa ci faceva una testa mozza di cavallo ad accompagnare uno dei corpi? Eppure nel clima surriscaldato di quegli anni nessuno pose attenzione a questi dettagli più che evidenti e tutto andò a contribuire a quel processo di demonizzazione della Resistenza che con sempre maggior decisione le destre neo e post-fasciste hanno portato avanti specie negli ultimi decenni.

   Il grande merito di aver fatto chiarezza sulla questione spetta – vorrei aggiungere ancora una volta – all’ANPI, in questo caso la sede di Persiceto, che notando la pietà con cui erano stati sepolti quei corpi ha chiesto che potessero essere analizzati. A far propria quella ricerca è stato il Centro di datazione al radiocarbonio di Lecce che ha ottenuto i campioni da analizzare.

   I risultati hanno spazzato via come polvere al vento cinquant’anni di calunnie fasciste. Le ossa risultavano datate ad un periodo compreso  fra l’800 e il 1100 d.C., se si considera il possibile inquinamento dei reperti in occasione del recupero del 1962 si può pensare ad una cronologia anche precedente – il contatto con materiali posteriori può abbassare i dati rilevati. Le presunte vittime dei partigiani erano stato sepolte nel cuore del Medioevo.

   La scoperta è per altro di notevole interesse archeologico fornendo significative informazioni sul popolamento della zona, verosimilmente in relazione all’abitato scavato negli anni 90 dall’Università di Venezia non lontano da Sant’Agata bolognese e cronologicamente coevo agli scheletri di Madonna del Poggio. La presenza della testa di cavallo sembrerebbe potersi ricondurre a forme deposizionali delle culture delle steppe fatte proprie dai longobardi nel periodo di permanenza in Pannonia e comuni nelle prime fasi successive alla conquista della penisola. Colpisce come questo rituale sia sopravvissuto in queste aree periferiche in un periodo così avanzato.

   L’unione del sincero impegno democratico e anti-fascista dell’ANPI unito al rigore della ricerca archeo-antropologica è riuscita a far trionfare la verità sulle menzogne della propaganda di destra. Una bella storia per celebrare il 25 Aprile. 

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   Da alcuni giorni penso di scrivere qualche cosa sull’esito elettorale ma ho faticato a trovare il modo giusto per scriverlo. Prima l’incredulità di fronte ad un voto che fin da subito sembrava gettare il paese nel baratro dell’instabilità e al contempo lasciava molti dubbi sulla natura del Movimento 5 stelle, sicura forza emergente del panorama politica. I giorni seguenti hanno solo accresciuto queste sensazioni sia per quanto riguarda la complessità della situazione generale sia per quanto riguarda la natura ambigua del movimento di Grillo in cui ogni giorno trascorso rivelava aspetti sempre più inquietanti. A questo punto ciò che sembra rendersi necessaria è proprio una riflessione su quest’ultimo elemento e sulle componenti che non rendono per nulla tranquillizzante l’ascesa di una forza con queste caratteristiche.

   Bisogno riconoscere a Grillo e a Casaleggio – veri burattinai di tutta l’operazione – di aver saputo cogliere meglio di chiunque altro le tensioni del paese e di essere riusciti ad indirizzare verso un progetto politico. Resta però da considerare una cosa. Un aspetto è riconoscere i problemi esistenti – e per di più continuare a gettar benzina sul fuoco per trasformare una fiammella in un rogo – un altro aspetto è proporre soluzioni a questi problemi e qui fin dal primo acchito appariva evidente l’inadeguatezza della proposta grillina.

  Se si prova a guardare agli ultimi vent’anni e alla causa profonda del fallimento del modello berlusconiano – e di quello rappresentato da tutte quelle forze politiche di destra come di sinistra che l’hanno seguito su questo cammino – bisogna necessariamente giungere ad una conclusione profonda. La vera causa di questo fallimento non è nella natura spesso grottesca e nei disturbanti eccessi di Silvio Berlusconi o di alcuni leader di quella parte politica (sui quali non voglio entrare anche perché troppo spesso eccessivamente rimarcati) ma nella costatazione che l’idea di fondo della cosiddetta “rivoluzione liberale” è fallita. “Forza Italia” era nata sull’onda di tangentopoli e aveva portato avanti un’idea di rinnovo della classe dirigente che puntava con la sostituzione della vecchia classe politica professionale con esponenti della società civile e del mondo produttivo, visti come portatori di valori sani contrapposti al fallimento della vecchia classe dirigente.

   Quel progetto è fallito proprio per l’impossibilità di sostituire il “mestiere della politica” con capacità e competenze non inferiori ma di certo diverse. La cosiddetta “Società civile” (termine per altro orrendo a mio parere) in questo caso ha dimostrato come l’improvvisazione, anche se nobilmente motivata, non è in grado di sostituire la specifica competenza nell’ars politica.

  Di fronte a questa costatazione qual è la proposta proveniente dal Movimento 5 Stelle? La sostituzione in toto delle classi dirigenti – ormai sprezzantemente ribattezzate casta come se fossero un corpo sociale esterno al paese – con nuovi esponenti della solita “società civile” ovvero di curare il male con la stessa malattia. Anzi una malattia peggiore perché agli esponenti del progetto berlusconiano, professionisti e imprenditori – una componente vitale e fortemente propositiva della società – si sostituiscono gli sfaccendati in certa di stipendio senza lavorare, i gruppi para-terroristi No-Tav, gli sbandati dei centri sociali di destra e sinistra; persone che non si vorrebbero avere come vicine di posto in treno e alle quali si pensa di affidare la salvezza dal paese.

   La settimana post-elettorale ha se possibile peggiorato ancora il quadro e il Movimento si è distinto – in modo sempre più negativo – su due aspetti che di fatto coincidono in quello che sembra l’inquietante progetto finale dei due burattinai.

   Il primo aspetto è il livello di abissale impreparazione di molti attivisti, le cui singole uscite – impossibili da riportar tutte in questa sede – hanno riempito le prime pagine dei giornali lasciando gli sbigottiti lettori sul punto di rimpiangere quel fine intellettuale di Renzo “Trota” Bossi. Una girandola di dichiarazioni in cui la profonda ignoranza della realtà istituzionale – il senatore che ignorava persino la sede del Senato – si univa ad una mancanza totale di cultura storica – la sostanziale “bontà del fascismo” propugnata dal Capogruppo alla Camera Onorevole Lombardi – fino ai puri deliri sulla massoneria militante, il nuovo ordine mondiale e i microcip di controllo sostenuti da Parlamentari che affermano candidamente che la loro fonte di ispirazione politica sono alcuni filmetti complottisti da quattro soldi, talmente grotteschi da risultar quasi comici nella loro ostentata seriosità.

  Il secondo aspetto è l’emergere sempre più forte di tendenze antidemocratiche all’interno del Movimento stesso e dell’utilizzo in modo estremamente strumentale dei media per ottenere il proprio scopo. Si noti al riguardo l’insistito richiamo alla dimensione post-ideologica dello stesso. Chiunque abbia però un minimo di conoscenza storico-politica sa bene che la politica non può essere a-ideologica perché nel miglior dei casi si ridurrebbe a mera amministrazione – mentre il compito della politica è quello di contribuire a costruire una propria idea di società – oppure diventa solo strumento per giustificare derive di matrice autoritaria. Si ricordi che l’insistenza su questo elemento, il tema del “né di destra né di sinistra” è stato sistematicamente cavalcato dalle dittature di estrema destra della prima parte del Novecento come cuneo con cui penetrare nelle strutture dello stato liberale. Non sarà casuale che molti dei punti strategici del movimento – dall’annichilimento della libertà di stampa all’abolizione dei sindacati – ricordino molto da presso quelli dei fascismi storici.

   L’impressione di fondo è quella di una smodata bramosia di potere da parte di alcuni individui alle spalle dei quali si muovono ombre alquanto nebulose ma di certo non rassicuranti. Molte fonti giornalistiche hanno evidenziato gli ambigui rapporti dell’ideologo Casaleggio con la JPMorgan, importante banca d’affari statunitense legata alla famiglia Rockefeller e il totale appoggio allo stesso da parte di un altro gruppo bancario alquanto fumoso come Morgan Stanley sembrano più di un indizio sul ruolo della grande finanza americana alle spalle del Movimento 5 Stelle; poteri finanziari che hanno tutto l’interesse a far fallire il progetto politico europeo in modo da garantire il totale monopolio statunitense nel mondo economico occidentale e – casualmente – fra i programmi del Movimento vi è una possibile uscita dell’Italia dall’euro con il conseguente crollo dell’intero sistema economico comunitario che tanto farebbe comodo sull’altra sponda dell’Atlantico.

   Il risultato di questa situazione è una forza sostanzialmente non democratica – il controllo dei capi sulle stesse rappresentanze parlamentari giunge a livelli di autentico plagio – caratterizzata dall’uso sistematico dell’aggressione verbale, dell’insulto, della deformazione fin del nome dell’avversario (identificato manicheisticamente come il male e quindi oggetto di una deformazione che giunge a negarne persino il rispetto umano) e dalla sistematica diffusione di notizie false o manipolate allo scopo di creare un consenso basato solamente sull’odio verso il diverso comunque sentito al fine di portare avanti – almeno stando a quanto gli indizi lasciano sospettare – interessi strettamente legati ai grandi poteri finanziario-speculativi internazionali.

Un quadro che si prospetta decisamente fosco e sul quale varrebbe la pena di riflettere la prossima volta cui saremo chiamati alle urne, prossima volta che si prospetta molto vicina. 

Grillo? No grazie

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“Prepariamoci, tutto ciò mi puzza di faccende molto più gravi. E soprattutto sento odore della tirannide di Ippia. Ho paura che certi Spartani, convenuti in casa di Clistene, aizzino queste donne nemiche degli Dei a prendersi i nostri soldi, il salario che è la mia vita” protesta il coro dei vecchi nella “Lisistrata” aristofanesca (614-625). Una protesta non casuale e che lungi dal risolversi in una facile battuta testimonia il fondo di cupa incertezza che aleggia sulla commedia.

  Andata in scena alle Dionisie del 411 (dal 7 all’11 aprile secondo il calcolo di Merritt) “Lisistrata” è infatti la testimonianza più eloquente del clima di complotto che si respirava ad Atene in quei giorni. Se da un lato risente del clima di tensione conseguente allo scandalo delle erme del 415 dall’altro – e in modo ancor più significativo – prevede e quasi accompagna il colpo di stato oligarchico già in corso in quei giorni ed esploso del maggio dello stesso anno. Sotto i toni della parodia dell’allarmismo democratico “Tutto questo, cittadini, è una trama per la tirannide. Ma non ce la faranno! Starò in guardia. Porterò la spada in un ramo di mirto, starò in armi, vicino alla statua di Aristogitone” (626-635) e dell’assurda vicenda del colpo di stato delle donne – il non-soggetto per antonomasia insieme agli schiavi della democrazia ateniese – Aristofane nasconde l’allarme per la situazione politica in corso.

   Ritornando al tema del salario questo non è assolutamente casuale né si riduce ad una semplice parodia dell’avidità dei vecchi ma viene a toccare un punto chiave del dibattito politico di quel momento e uno dei punti programmatici fondamentali della congiura oligarchica: l’abrogazione del salario (Μισθός) per le cariche pubbliche. Nei presi precedenti il colpo di stato il tema era già stato fatto circolare dalle eterie (come ricorda Tucidide VIII 63,3) e rappresentava uno degli strumenti più forti di pressione sul demo già colpito dagli omicidi politici e dal sempre più aggressivo atteggiamento dei gruppi oligarchici nelle assemblee.

  L’abolizione del salario significa infliggere il colpo mortale alla democrazia in quanto si tradurrebbe in un’interdizione da qualunque impegno pubblico di tutti coloro che non sono in grado di mantenersi senza dover lavorare. E’ il sogno di chiunque voglia limitare la distribuzione del potere e ridurre – se non totalmente eliminare – la funzione regolatrice della politica nei confronti dell’eccessiva concentrazione di potere delle élites economiche nei confronti delle masse subalterne lasciandole libera di concentrare nelle stesse mani tanto entrambi i poteri. In tal senso non era in errore la retorica democratica che identificava l’oligarchia con la tirannide anche se i due fenomeni nel mondo greco sono completamente distinti.

  Il provvedimento fu tra i primi ad essere attuato dopo il colpo di stato e la reintroduzione del salario rappresentò il pieno ritorno alla democrazia dopo il rapido tracollo dei Quattrocento – travolti dalla reazione democratica della flotta di Samo e dalla loro ingenua fiducia nell’aiuto spartano – e la fase di transizione rappresentata dal governo dei Cinquemila a guida dei moderati teramaniani.

  Il tema dell’eliminazione del salario tornò in auge nel 404 quanto venne semplicemente imposto dal nuovo governo oligarchico – quello dei Trenta – per il quale non era neppur più necessaria la propaganda preliminare dei congiurati del 411 in quanto sufficiente risultava l’appoggio delle armi spartane.

  Qualcuno dei lettori potrebbe chiedersi come mai tornare su una tematica apparentemente così legata alle peculiarità della democrazia ateniese del V secolo a.C. In realtà mi sembra che il tema stia tornando di preoccupante attualità e in forme neppur troppo diverse da quelle che accompagnarono i tentativi di rivoluzione oligarchica sopra ricordati. Basta navigare a caso in rete per incontrare messaggi dal tenore decisamente inquietante, almeno per chi non è totalmente digiuno di nozioni storico politiche.

  Tra le componenti più apertamente demagogiche si incontra sempre più di frequente la richiesta di abrogare qualunque forma di retribuzione per le cariche pubbliche sostituita da un vagheggiato “volontariato politico” presentato come soluzione ai problemi di corruzione ed eccesso di spesa che caratterizzano oggi la politica italiana. La giustificazione moralizzante non è nuova e si ritrova anzi proprio nella ricordata propaganda che accompagno il colpo di stato del 411 nel nome di un ritorno ad un’originaria purezza che la venalità della democrazia periclea aveva compromesso.

   Una sostanziale differenza sembra essere nella natura dei movimenti proponitrici, che oggi cercano di presentarsi in forme iper-democratiche se non apertamente pauperistiche in contrario contro la presenta oligarchia rappresentata dalle classi politiche esistenti. Anche a questo riguardo vanno però notati due elementi che smascherano sostanzialmente il gioco.

   Il primo luogo anche le ideologie oligarchiche antiche non mancavano di tratti progressisti, in alcuni casi assolutamente rivoluzionari rispetto al modello presente.

   L’attacco alla polis democratica è spesso condotto proprio sul terreno dei diritti individuali, acquisendo quella forma che è stata definita da Luciano Canfora “egualitarismo antidemocratico”. Sul piano teorico non possono passare inosservate di Antifonte uno dei maggiori leader dei Quattrocento. I frammenti conservati del suo trattato “Sulla verità” presentano il più spregiudicato atto di accusa contro il modello schiavistico e contro l’ideologia xenofoba della città greca che il mondo antico ci abbia tramandato: “Noi rispettiamo e veneriamo ciò che è di nobile origine, ma chi è di natali oscuri lo respingiamo, e ci comportiamo gli uni verso gli altri come barbari, poiché siamo di natura assolutamente uguale, sia Greci che barbari. Basti osservare le necessità naturali di tutti gli uomini. Nessuno di noi può essere definito né come greco né come barbaro. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici” (VS, 87 B44 fr. B). E dallo stesso ambiente Alcidamente, lo scolaro di Gorgia proclamerà senza mezzi termini: “La divinità ci ha fatto tutti liberi, nessuno schiavo la Natura ha generato” (Commoentaria in Aristotelem Graeca, XII.2).

   Le esperienze egualitarie dei futuri oligarchi non si limitavano però alla sola speculazione teorica spostandosi in alcuni casi sull’esercizio pratico. E’ il caso di Aminia – uno dei Quattrocento – che durante un periodo di esilio si pose a capo delle insurrezioni dei penesti – gli iloti tessali – come ricorda Aristofane ne “Le Vespe” e negli anni successivi la stessa esperienza sarà ripetuta da Crizia per cui la lotta anti-schiavile in Tessaglia sarà il punto di maturazione politica saldandosi con l’ostilità famigliare verso la democrazia proprio nel nome della condanna della natura escludente di quest’ultima.

   Gli esempi citati esemplificano la possibile presenza di tendenze progressiste nei fautori di regimi oligarchici autoritari, componente che va tenuto conta anche nelle attuali campagne demagogiche dove la maggior differenza sta nel livello della riflessione politica che oggi si riduce sostanzialmente a becera demagogia lontanissima dell’alto livello di teoresi politica degli antichi.

   L’altro aspetto da considerare è la natura sociale dei propugnatori di queste radicali riforme. Oggi come allora i sostenitori della volontarietà dell’azione politica sono in genere personaggi estremamente ricchi, per i quali la politica non ha nessun valore di ascensore sociale ma serve solamente a cristallizzare le proprie posizioni di privilegio.

  I tentativi oligarchici furono rapidamente assorbiti dal radicato spirito democratico degli ateniesi del V secolo. Quell’allarmismo democratico cui bonariamente irride Aristofane servì a far scattare immediata la reazione, prima nel 411 a.C. con l’ammutinamento della flotta di Samo e l’istituzione di un governo democratico e in esilio e poi nel 403 con l’organizzazione della resistenza democratica intorno a Trasibulo. Quello che preoccupa oggi – e che segna la maggior differenza rispetto ai casi antichi – è l’impressione di una passività delle masse, di una sfiducia diffusa nella democrazia che potrebbe fare il gioco degli aspiranti oligarchi anche se individualmente più che epigoni appaiono penose caricature di figure grandiose nella loro fosca tragicità come Frinico e Crizia.

   Le crisi della democrazia vissute da Atene in quello scorcio di tempo mantengono la loro natura di modelli di riferimento per comprendere molto dell’attuale politica italiana, anche in questo caso i nostri antenati ci indicano come leggere la realtà in cui ci troviamo, sta solo a noi essere capaci di ascoltarli e di meditare sul loro insegnamento. 

veduta ideale di Atene

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Domani sarà il 4 novembre, festa della vittoria nel primo conflitto mondiale, celebrazione che negli ultimi anni è tornata alquanto in auge con la recrudescenza di fenomeni nazionalistici nel nostro paese. Festa nei confronti della quale mi paiono legittimi serissimi dubbi.

  In primo luogo lascia perplessi la dimensione festiva con cui si vuole caratterizzare una giornata che dovrebbe essere solo destinata al ricordo di milioni di vittime innocenti e di riflessione sulla follia della guerra. Eppure “L’inutile strage” come la definì Benedetto XV continua ad essere celebrata come un momento glorioso e festoso, una sorta di celebrazione dei peggiori istinti di un nazionalismo da Italietta mai totalmente scomparso e risorto con forza in questi anni.

 Di fronte a questo una domanda sorge spontanea: perché festeggiare il 4 novembre? e soprattutto cosa ci sarebbe da festeggiare in questa data? Se la risposta sono i milioni di giovani rimasti nelle trincee del Carso come nel fango delle Ardenne o della Masuria; il fallimento delle grandi speranze della cultura positivista nella sua marcia verso un mondo migliore da costruire con la pace sulla strada indicata dalle prime conferenze sul disarmo globale; la sostituzione degli scoppiettanti fuochi della vacua ma gioiosa “belle époque” con il lugubre rombo del cannone allora lascio volentieri questo giorno a chi considera questo come qualche cosa da festeggiare.

  Non pare esserci nulla di festoso nell’indicibile massacro di quegli anni e ancor meno nella scia di tragedie lasciate da quella follia. Le maceria materiali e morali lasciate dal primo conflitto mondiale – cui si aggiunge in Italia lo sdegno per la “vittoria mutilata” – aprirono la strada all’ascesa dei regimi nazi-fascisti e con essi alla strada verso il secondo conflitto mondiale, le pagine più lugubri e infauste della storia umana. Un’immane tragedia che apre la strada ad una ancora più immane e mostruosa.

  Forse sarebbe ora di abbassare le bandiere insanguinate, di deporre infine tutte le armi, lasciando che questo diventi un giorno di ricordo e di lutto per tante vite e tanti sogni spezzati non profanato dalla bolsa vanagloria dei discorsi e delle parate militari, esaltazione di quella stessa follia che troppe vite a già portato con sé.

 

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“Le parole sono importanti” tuonava Nanni Moretti in un’indimenticabile scena di “Palombella rossa” che rimane uno dei momenti più geniali del cinema italiano degli ultimi decenni. La citazione morettina cade a puntino per riflettere sull’uso improprio del linguaggio ormai divenuto una costante del giornalismo italiano alla ricerca di una semplificazione ad effetto che porta a compiere autentiche abnormità. L’ultima moda al riguardo è quella della P seguite dal numero di ordinanza per indicare qualunque gruppo di persone che trami nell’ombra per l’ottenimento di scopi personali. Il riferimento è ovviamente al celebre caso della loggia massonica P2 emerso negli anni 80. Vi sono però profonde differenze che è il caso di sottolineare. La loggia Propaganda 2 nasceva, infatti, come “loggia coperta” all’interno del Grande Oriente d’Italia e si rifaceva nel nome ad una precedente loggia con analoga organizzazione segreta, la loggia Propaganda Massonica (poi identificata come Propaganda 1) fondata nel 1887 da Giuseppe Mazzoni e poi diretta da Adriano Lemmi e che fu pesantemente coinvolta nello scandalo della Banca Romana del 1893. Anche la loggia P2 nacque in seno alla massoneria ufficiale nel 1969 per poi staccarsene in un processo di degenerazione progressiva che trasformò la loggia da strumento di superamento delle divisioni e raccordo fra le varie anime della massoneria italiana in un’organizzazione dalle finalità sovversive quale fu scoperta dalla commissione di indagine del 1981 (preceduta per altro dalla sospensione da parte del Grand’Oriente nel 1976). Quello che è emerso con le recenti indagini delinea un quadro che ha ben poco da vedere con questa situazione identificando piuttosto spregiudicati faccendieri – definiti impropriamente lobbysti prendendo a prestito un termine che definisce una funzione ben diversa e ufficialmente riconosciuta nel mondo anglosassone – che cercavano di indirizzare a proprio vantaggio l’attività politico-amministrativa e nel caso della “cosiddetta P4” un gabinetto segreto della Presidenza del Consiglio incaricato di portar avanti quelli che Bacon avrebbe definito “Arcana Imperi”. In ogni caso nessuna loggia costituita ufficialmente, nessun diretto legame con la massoneria. Forse sarebbe il caso di usare i termini P3 e P4 per quello che erano fino a qualche mese fa, ovvero modelli da competizione prodotti dalla Ferrari negli anni 60 e non creare confusione fra organizzazioni che ben poco hanno a che vedere fra di loro. Un precedente a questa ondata di uno improprio dell’italiano fu la moda del termine – poli esplosa a partire dai primi anni novanta. Tutto nacque con Tangentopoli, la città delle tangenti, come simbolicamente veniva indicata la Milano craxiana di quegli anni. Qui l’uso del termine era ancora corretto ma in breve si assistette ad una totale degenerazione. Il termine – poli passò dal significato proprio di “città” a quello di “inchiesta”, “indagine” specie se in relazione a scandali legati alla cosa pubblica. Ed ecco un fiorire di affittopoli (nel senso di inchiesta sugli affitti), sanitopoli (inchiesta sulla sanità) persino Moggiopoli (inchiesta su Moggi salvo a volerla leggere nel senso di un Moggi diventato sindaco e quindi città di Moggi). Un fiorire di termini coniati ad hoc e di un pessimo italiano che ha contagiato il paese e di cui i media sono i primi responsabili. Per altro il richiamo alla P2 porta con se all’uso improprio che normalmente si fa di un altro termine, ovvero “massonico” ormai ridotto a quintessenza di ogni nefandezza. La storia della massoneria è stata qualcosa di ben diverso da qualche deviazione di percorso. Dalla sua derivazione dalle scuole neoplatoniche e dai circoli criptopagani tardo-antichi sopravvissuti come un torrente carsico lungo tutta la storia bizantina per poi rinascere nell’Italia rinascimentale – fondamentale sembra in tal senso il ruolo del Bessarione, già discepolo di Giorgio Pletone a Mistrà – al passaggio in Inghilterra quando l’intolleranza controriformista portava all’inevitabile fine i circoli neoplatonici del bel paese (la tesi già avanzata da Ragon nel 1859 e stata recentemente ripresa da Moreno Neri e implicitamente da Silvia Ronchey) fino al suo contributo all’illuminismo e poi ai risorgimenti europei (massoni furono fra gli altri Boyle, Newton, Mozart, Garibaldi, Debussy) meriterebbe decisamente miglior considerazione. Il linguaggio non è però mai neutrale e le scelte rispondono spesso a fini specifici. L’uso dispregiativo del termine massonico non è forse casuale, esso sfrutta l’immagine negativa che l’opinione pubblica si è fatta della Massoneria dopo il caso P2 per continuare a screditare un’organizzazione notoriamente ostile alla Chiesa Cattolica che di questo paese è spesso il vero, incognito deus ex-machina. Da quel punto di vista esso corrisponde alla riduzione alla sola sfera negativa del termine “bizantino” strettamente legata alla delegittimazione di quel mondo da parte della Chiesa Cattolica. Da molti punti di vista massonico e bizantino rappresentano due facce della stessa medaglia, l’idea di una laicità sostanziale che si esprime in una netta separazione fra la sfera politica e quella religiosa (sulla dimensione sostanzialmente laica dello stato bizantino da ultima Silvia Ronchey) contro la quale si è sempre snodata la storia del cattolicesimo. Faciloneria e malafede le parole sono importanti come giustamente ci ricordava Moretti, usiamole nel modo migliore.

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   Di colpo il mondo sembra essere ritornato indietro di secoli e i moderni mezzi di comunicazione non sembrano aver altro scopo che celebrare liturgie di sapore medioevale: prima un matrimonio principesco od ora la beatificazione a furor di popolo di un Pontefice.

   Se sul primo poco c’è da dire, fin troppo ovvio che il sapore fiabesco di certe storie accenda l’immaginazione collettiva, più interessante è dare un’occhiata al secondo evento sul quale si allungano ombre a tratti inquietanti.

   La beatificazione di Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, riporta, infatti, l’attenzione su una figura quanto mai controversa e bifronte, caratterizzata da aspetti spesso tutt’altro che luminosi che la rapidità della beatificazione – e si prevede un’altrettanto rapida canonizzazione –ripropongono all’attenzione.

   Quella di Wojtyla è sicuramente una vicenda emblematica dell’attuale società globale costruita sulla comunicazione. L’avventura di uno straordinario animale da palcoscenico, un istrione geniale che sfoggiando con assoluta naturalezza la maschera della bonarietà ha irretito milioni di persone in tutto il mondo, un pifferaio magico capace di muovere folle oceaniche con il solo richiamo del suo innegabile carisma.

  Se però si evita di farsi sedurre dal personaggio e si prova a guardare appena sotto la superficie appaiono evidenti le contraddizioni profonde che lo hanno sempre caratterizzato. Wojtyla è stato l’uomo del ritorno all’ordine della Chiesa, la figura cui si è affidato il compito non facile di seppellire se non definitivamente di certo per lungo tempo le istanze di riforma emerse dal Concilio Vaticano II e le richieste sempre più pressanti provenienti dalla base del mondo cattolico in relazione alla necessità di riavvicinarela Chiesaalla realtà del secolo.

  Giovanni Paolo II asceso al trono pontificio in circostanze quanto meno misteriose e in ogni caso capaci di evocare il torbido clima del Papato rinascimentale (l’improvvisa e inspiegabile morte di Giovanni Paolo I) si è rivelato la carta vincente in questo progetto. L’intera esperienza wojtyliana si è retta su questa ipocrisia di fondo, sulla finzione di un’ apparente modernizzazione di natura sostanzialmente liturgica che non veniva a toccare i dogmi più spinosi lasciati aperti dal Concilio ma li nascondeva con la visibilità mediatica di una modernità esibita di abiti sgargianti e canzonette pop che calavano come una chiassosa pietra tombale sul rapporto fra Chiesa e modernità specie in quei settori verso i quali l’avversione del Pontefice era a stento mascherata dal gioco istrionico come il ruolo delle donne nella Chiesa e più latamente nella società o la funzione delle strutture conciliari nel governo della Chiesa uscite apparentemente rafforzate dal Concilio ma schiacchiate dalla concezione del potere portata avanti dal pontefice: quella di una monarchia pontificia assoluta di matrice neo-medioevale.

   Quella di Wojtyla fu una continua battaglia contro la modernità in tutti i suoi aspetti essenziali intesi come ostacolo al progetto di riorganizzazione del mondo intorno alla Chiesa cattolica e al suo principe-pastore. Ecco quindi la crociata anti-illuminista, sistematicamente riproposta nel corso di tutto il suo pontificato rispetto alla quale le altre battaglie appaiono come diretta conseguenza: la sostanziale opposizione al progresso medico-scientifico, l’autonomia delle coscienze in relazione ai temi cosiddetti “eticamente sensibili”; la necessità di una comprensione dei fenomeni culturali nella loro pluralità e quindi al relativismo culturale tutte ferocemente osteggiate.  

  Ovviamente Wojtyla non ha mai affrontato direttamente queste questioni sviluppando una strategia più subdola e per molti aspetti più efficacie finalizzata a sgretolare le fondamenta della modernità senza renderne esplicito il tentativo con posizioni troppo plateali che rischiavano di suscitare reazioni sdegnate e, qualora fosse necessario, lasciando spazio a figure secondarie che potevano esprimere con più chiarezza posizioni condivise anche dal Papa senza però compromettere la sua figura. Nella sua azione diretta si nota invece sempre una capacità di agire su piani differenti, una doppiezza celata dal bonario sorriso. Così nei confronti dell’omosessualità: ‎”L’attività omosessuale, da distinguersi dalla tendenza omosessuale, è moralmente malvagia.” dove la condanna è totale al di la dell’apparente intenzione conciliatoria oppure su un versante più strettamente politico come il tema a lui tanto caro del dialogo ecumenico, certo percorso come da nessun pontefice prima di lui ma sempre nel segno di una superiorità morale – e politica – spettante alla Chiesa cattolica che sembrava puntare più alla fagocitazione che al dialogo alla pari non solo nei confronti delle confessioni non cristiane (definite “forme deficitarie di fede”) ma anche nei confronti dei cristiani non cattolici come attestano le crescenti tensioni con le Chiese ortodosse e riformate.

  Se le questioni teologiche riguardano principalmentela Chiesa– ma non solo nel momento in cui si cerca di trasformarle in obblighi giuridici attraverso forze politiche conniventi – i rapporti politici hanno decisamente maggior rilevanza pubblica e in questi casi le scelte del pontefice hanno sempre mostrato un sostanziale appoggio alle posizioni più biecamente conservatrici. Al limite dell’imbarazzante l’incontro con il dittatore cileno Augusto Pinochet ormai riconosciuto universalmente come spietato macellaio ma sempre fraternamente accolto da Giovanni Paolo II.

   Ma molto spinoso appare tutto il rapporto con la realtà politica sudamericana che trovo la più chiara presa di posizione nei confronti della Teologia della Liberazione, l’insieme dei movimenti cattolici impegnati in America Latina contro lo spietato sfruttamento delle classi subalterne e contro le dittature militari che insanguinavano il continente. Per ben due volte Giovanni Paolo II (affiancato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger) condannò esplicitamente il movimento (“Libertatis nuntius” 1984 e “Libertatis Coscentia” 1986) in quando influenzato da postulati marxisti e quindi incompatibile con il Cattolicesimo. Inutile dire come tale condanna si presentasse come un neppur troppo celato appoggio ai regimi fascisti combattuti dai teologi della liberazione. Non casualmente Monsignor Oscar Romero venuto a Roma per chiedere aiuto già nel 1979 fu lasciato completamente solo nelle mani dei fascisti salvadoregni che lo assassinarono il 24 marzo 1980. Assassinio che non ha modificato le posizioni vaticane, Monsignor Romero è infatti commemorato come martire da anglicani, luterani e vetero-cattolici ma ancora indicizzato dal cattolicesimo romano.

   Pochi esempi fra i tanti che si potrebbero ricordare. Altro terreno in cui è più volte emersa la natura profondamente reazionaria di Karol Wojtyla è stato quelle delle canonizzazioni. Il Pontefice è stato come posseduto da una bulimia di santificazione ha spesso portato agli onori degli altari – o almeno cercato di portare – personaggi decisamente controversi. Si pensi ai tentativi di canonizzazione di Pio IX, l’ultima Papa-Re; e di Pio XII i cui rapporti con il nazifascismo restano una delle pagine più oscure e più controverse del novecento ma anche quella – riuscita – di Josè Maria Escrivà il franchista fondatore dell’Opus Dei.

   L’ultimo capitolo riguarda non direttamente il Pontefice ma il sistema vaticano nel suo complesso, ma rimane innegabile che nella sua attività accentratrice il Papa non poteva non sapere – e verosimilmente controllare e dirigere. Si entra qui in alcune delle pagine più oscure della storia recente, per molti aspetti ancora da chiarire anche sul piano giudiziario e non solo su quello storico ma tutte accomunate dal ruolo centrale delle autorità vaticane nell’insabbiamento, nel depistaggio, nella protezione dei colpevoli. Una parte consistente è legata al caso IOR, la banca vaticana, al suo ambiguo direttore il cardinal Paul Casimir Marcinkus e ai suoi rapporti con il faccendiere Michele Sindona (membro della loggia massonica deviata P2 e legato ad ambienti mafiosi). Marcinkus – già in contrasto con Albino Luciani – fin dal 1972 fu sempre protetto da Wojtyla, nominato arcivescovo nel 1981 e tenuto al riparo fra le mura leonine dalla giustizia internazionale che cominciava ad indagare sui loschi affari del vescovo faccendiere. La vicenda Marcinkus si lega per altro a doppio filo con altri misteri di quegli anni come l’omicidio del banchiere Roberto Calvi (anche lui legato alla P2) o la scomparsa di Emanuela Orlando.

   Sempre nell’ambito degli insabbiamenti e delle coperture vanno ricordati inoltre l’attività di protezione nei confronti di Marcial Maciel, il potente fondatore del movimento integralista “Legionari di Cristo” accusato di ripetuti abusi sessuali su minori e fedeli nonche conclamato poligamo e più generalmente la cortina fumogena sollevata sui casi di pedofilia che sempre più frequentemente hanno scossola Chiesacattolica.

   Quello che sorprende di fronte alla beatificazione così fulminea di un personaggio tanto complesso per il quale sarebbero stati necessari tempi più distesi di approfondimento è il generale entusiasmo che ha accompagnato l’evento non solo fra le masse dei fedeli. Un assordante silenzio ha come avvolto le voci di contestazione che avrebbero dovuto levarsi numerose non tanto da chi come il sottoscritto può guardare all’evento con il distacco di un interesse puramente storico e politico ma soprattutto dall’interno del mondo cattolico per chi l’atto ha sicuramente più forte pregnanza mentre la macchina della propaganda celebrativa rendeva inascoltate le poche voci che gridavano dal deserto fossero quella del più colto – e meno allineato – teologo dei nostri giorni Hans Küng o quelle di quei preti di frontiera che vivendo nella società si rendono conto di quanto la Chiesa– in gran parte per diretta responsabilità di Giovanni Paolo II – si sia chiusa sempre più in una turris eburnea priva di qualunque rapporto con il reale.

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  Ci ha lasciato Mario Monicelli. La mano stenta a scriverlo, la mente ad accettarlo, gli occhi ad asciugare le lacrime. Monicelli era per tutti una presenta quasi metafisica, la coscienza critica e sarcastica di un’Italia stracciona ed eroica ad un tempo che nessuno aveva saputo raccontare come lui.

  Viareggino, classe 1915, figlio di un giornalista, si forma negli anni Trenta fra la natia Viareggio e Milano dove stringe amicizia con Giacomo Forzano, figlio del commediografo e librettista Gioacchino, fondatore di alcuni studi cinematografici a Tirrenia. Nel 1934 gira il suo primo corto “Cuore rivelatore” e lo stesso anno debutta a Venezia con una trasposizione de “I ragazzi della via Paal”.

  I primi veri successi giungono dopo il secondo conflitto mondiale. Nel 1951 dirige insieme a Steno “Guardi e ladri” che segna anche l’inizio della collaborazione con Totò che resterà un assoluto riferimento per Monicelli. Il primo capolavoro è del 1958: “I soliti ignoti” non solo scrive una pagina fondamentale per la storia del cinema ma crea praticamente ex-novo quel genere detto “commedia all’italiana” che vedrà in Monicelli il maestro assoluto. Sceneggiatura folgorante di Age e Scarpelli, regia semplicemente perfetta, cast insuperabile ed esaltato al meglio con Monicelli che sfrutta Totò per un indimenticabile cameo, estrae un’inattesa vena comica da Vittorio Gassman, crea intorno a Tiberio Murgia l’indimenticabile figura di Ferribotte e rivela al mondo la bellezza di Claudia Cardinale.

  L’anno successivo è segnato da “La grande guerra” con Alberto Sordi e il prediletto Gassman, film che rappresenta l’idea stessa dell’italianità secondo Monicelli. Un popolo di piccoli, meschini, arrivisti e sostanzialmente codardi ma – messo alle strette da un Fato più grande di loro – capace del più estremo eroismo. In oltre Monicelli – coadiuvato dal preziosissimo aiuto della coppia Age e Scarpelli per la sceneggiatura – fonde con maestria assoluta comico e drammatico, farsa e tragedia fino a creare uno dei capolavori assoluti della cinematografica mondiale.

  Nel 1966 realizza “L’armata Brancaleone” – cui farà seguito nel 1979 “Brancaleone alle crociate” – virtuosistico capolavoro di invenzione mediovaleggiante dove una scalcagnata compagnia di mercenari in perenne marcia attraverso l’Italia dell’XI secolo diventa lo specchio degli splendori e miserie dell’italianità come categoria ontologica. Monicelli fonde alla perfezione la più sfrenata fantasia – l’improbabile volgare con cui si esprime l’altrettanto improbabile capitano Brancaleone (un Vittorio Gassman al vertice del suo talento istrionico) – citazioni coltissime – l’albero degli impiccati di Villon – e di altrettanto colte parodie – la rigida frontalità della corte bizantina; il parlare in versi dei nobili siciliani – riuscendo a cogliere forse come nessun altro regista lo spirito profondo del medioevo.

  I successi si susseguono negli anni – nel 1968 tre nomination all’Oscar per “La ragazza con la pistola” – e nel 1975 vede la luce il primo episodio della saga di “Amici miei” – il seguente nel 1982. Al medioevo immaginifico di Brancaleone si sostituisce qui la trasposizione ai tempi nostri dello spirito dei goliardi medievali, di quella toscanità che collega direttamente Monicelli a Boccaccio e l’indimenticabile quartetto Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), Guido Necchi (Duilio del Prete) e Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi) ai più riusciti personaggi del “Decameron”.

  Un momentaneo abbandono nella commedia è rappresentato da “Un borghese piccolo piccolo” (1977, dal romanzo di Vincenzo Cerami) che esprime il senso di tragicità degli anni di piombo.

  Il ritorno alla commedia storica si avrà nel 1981 con “Il marchese del Grillo” protagonista ancora Alberto Sordi dove su un canovaccio di evidente matrice scespiriana Monicelli tratteggia un impietoso e tragicomico affresco della Roma papalina nei convulsi momenti che ruotano attorno all’occupazione francese del 1808.

  Negli anni ottanta seguono alcune pellicole che con spietata ironia scoperchiano l’abisso di miseria che cova nelle famiglie apparentemente più normali – “Speriamo che sia femmina” (1987) e “Parenti serpenti” (1992). L’ultimo lavoro “Le rose del deserto” è stato realizzato nel 2006 a 91 anni.

  Negli ultimi anni si era distinto per lo sprone ripetutamente dato ai giovani a reagire contro le brutture del mondo e contro una società e una politica cui non nascondeva la sua profonda ostilità. Minato da un cancro alla prostata in fase terminale è uscito di scena con il suo stile inconfondibile scegliendo di essere padrone della propria vita fino all’ultimo istante e di fronte ad un destino irrevocabile ha reagito con il disperato eroismo di tanti suoi eroi. L’ultimo colpo del maestro ancora capace di sorprendere e spiazzare, costringendo tutti ad una profonda riflessione sul senso stesso della “vita” e della “libertà”.

  Grazie Mario per quello che ci hai dato in tanti anni, quanto avrebbe ancora bisogno di te questo povero paese che hai saputo leggere come nessun altro; questo paese di pezzenti senz’arte ne parte ma capace di trasformarsi in eroi.

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  L’Unione Euorpea è intervenuta sulla guerra russo-georgiana combattuta lo scorso anno nei territori dell’Ossezia Meridionale. Il documento è di estremo interesse ma non ha avuto nessuna diffusione in Occidente. La notizia è stata però ripotata da un’associazione umanitaria (www.aiutateciasalvareibambini.org ) cui dobbiamo la conoscenza del procedimento. Riporto il testo pubblicato da detto sito ritenendo meriti tutta la considerazione necessaria: 

 

La Commissione d’Inchiesta della UE ha dichiarato che la responsabilità della guerra in Ossezia del Sud ricade sul Presidente della Georgia Saakashvili

Il prossimo 8 agosto si commemorerà il primo anniversario della folle guerra causata dalla Georgia contro il popolo osseto. La nostra Associazione presente dal 2004 in Ossezia del Nord – Alania è subito intervenuta a sostegno della popolazione sfollata attraverso il nostro partner di Mosca ed in seguito consegnando una piccola parte della produzione del DVD interattivo per i bambini di Beslan anche alla popolazione dell’Ossezia del Sud.

Gli interventi umanitari sono esulano dal contesto politico che ha provocato le sofferenze e i drammi che, nel nostro piccolo, cerchiamo di alleviare. Per questo pubblichiamo la notizia esclusa dal circuito mediatico italiano per il solo amore della Verità.

L’amore per la verità che dovrebbe spingere ogni Uomo – ed soprattutto ogni giornalista che non prenda ordini da qualche potenza politica, magari straniera – a spiegare il significato delle cose affinché non accadano più. Affinchè l’Umanità si affranchi dalla guerra, violenza inutile soprattutto sulla popolazione civile indifesa. Come a Zchinvali …

Questa la notizia (www.osetia.ru):

18.06.2009 “La principale responsabilità per il conflitto in Ossezia del Sud nel mese di agosto dello scorso anno ricade sul Presidente georgiano Michail Saakashvili. Questa conclusione è contenuta nella documentazione dei membri della speciale Commissione istituita dall’Unione europea subito dopo la cessazione delle ostilità.
La notizia, non apparsa sulla stampa “libera” italiana al contrario è stata riportata dalla stampa estera in particolare dal giornale tedesco “Der Spiegel”

Uno dei commissari, un analista politico di rilievo da parte di Bruxelles, Bruno Koppieter ritiene che «l’attacco georgiano a Zhkinvali, è potuto accadere grazie al potente sostegno militare dato alla Georgia dalle potenze occidentali». «In questo modo l’Occidente è indirettamente responsabile dello scatenamento del conflitto», – ha sottolineato.

Dello stesso parere l’esperto tedesco in diritto internazionale Otto Luchterhandt, membro della Commissione UE. Lo stesso ha sostenuto che in questo conflitto la Russia ha svolto il diritto di difesa in virtù della Carta delle Nazioni Unite dopo il bombardamento da parte delle forze georgiane delle forze di pace russe in Ossezia del Sud.

La Commissione ha constatato che la mattina del 7 agosto, alla vigilia del conflitto, al confine con l’Ossezia del Sud la Georgia aveva dispiegato, su ordine di Saakashvili una forza composta da 75 carri armati e 12 mila soldati”

Già nel novembre del 2008 il New York Times aveva pubblicato un reportage oggettivo che smontava la versione occidentale dei fatti. Ora, sotto una cortina di ferro di silenzio omertoso, la libera e democratica stampa italiana tace la verità.”

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