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In primo luogo mi scuso per lunga assenza dovuta ad un gravissimo lutto e ai problemi famigliari da esso derivati, riprendo a scrivere per non far morire questo spazio nonostante la situazione sia tutt’altro che risolta.

Poseidone, signore del mare e delle acque, delle profondità marine e delle fonti vivificanti – elemento da non scordare e che favorirà l’assimilazione con culti acquatici e di fecondità indigeni nel mondo provinciale ellenistico e romano – è fra le divinità più antiche e venerate del mondo greco. Fratello di Zeus, quasi ipostasi di quest’ultimo, legato al mondo ctonio – e quindi alla sfera della fecondità terrestre – donatore del cavallo agli uomini (e il cavallo rimanda ancora a una dimensione ctonia) Poseidone compare soggetto di raffigurazioni artistiche fin dalla più alta antichità. Certo la gran parte delle opere ricordate dalle fonti sono perdute – Poseidon di Dedalo, rilievo bronzeo di Gitidas per il tempio di Athena Calkiokos a Sparta, trono di Apollo ad Amicle – ma un riflesso si ritrova nella testa fittile di Asine di età sub-micenea in cui è stato proposto di vedere la più antica immagine del Dio e negli ex-voto del santuario di Artemis Orthia a Sparta alla fine dell’VIII a.e.v.

Con la metà del VI a.e.v. l’iconografia comincia a definirsi con precisione e se i pinakes corinzi ci trasmettono un riflesso della pittura monumentale di Kleantes nel tempio di Artemis Alpheinoeia ad Olimpia e alla grande enciclopedia dell’immaginario arcaico che bisogna guardare con maggiore attenzione, ovvero al vaso François. Qui il Dio partecipa al banchetto delle divinità e si caratterizza per un’assimilazione quasi completa con l’immagine di Zeus – maturo, barbato, vestito con lungo mantello – da cui si differenzia solo per gli attributi. Da quel mondo questo schema sarà ripreso con minime variazioni in tutta la stagione della ceramografia attica a figure nere e in opere scultore come il fregio del Tesoro dei Sifni a Delfi (525 a.e.v.). Poseidone può comparire solo ma più spesso è accompagnato da altre divinità. In primis ovviamente la sposa Anfitrite (vaso di Sophilos, anfora di Amasis), ma anche Atena ed Hermes come su un’hydria da Vulci.

La produzione scultorea comincia a diventare significativa con lo stile severo ma le linee essenziali rimangono quelle già viste nella ceramica. Immagini solenni, stanti, ieratiche, volto barbato, attributi del tridente, del tonno, del delfino. Si varia maggiormente l’abbigliamento – anche nella ceramica e nei coni monetari – dove al lungo mantello di Kleitias si affiancano corti chitoni e sempre con maggior frequenza l’immagine del Dio nudo, con solamente un manto leggero passato intorno alle braccia come sulle emissioni monetarie posidoniati.

Di contro a queste immagini statiche esiste un più limitato gruppo di opera caratterizzate da maggior dinamismo che vedono la partecipazione del Dio ad azioni concitate. Si tratta principalmente di gigantomachie in cui è raffigurato mentre scaglia pietre contro gli avversari.

Al passaggio fra stile severo e classicismo si datano alcune opere fondamentali per l’evoluzione iconografica del Dio. Se resta isolato – ma non per questo meno interessante – il Poseidone sbarbato e quasi efebico di Patrasso – e ricordiamo che anche Hades può comparire in forme giovanili come su alcuni pinakes locresi – a confrontarsi sono il Poseidone di scuola peloponnesiaca ritrovato a Livadostro e quello attico dal capo Artemision. Il primo è il punto di arrivo della tradizione di cui abbiamo fin qui parlato il secondo – se si tratta di Poseidon e non di Zeus, il dubbio resta ma il confronto di ponderazione con le già citate monete di Poseidonia sembra indicare a favore del Dio del mare – apre verso la stagione della piena arte classica. Se la posa è ancora tradizionale – con le braccia levate pronto a scagliare il tridente e se il volto ha tutta la composta nobiltà dei precedenti tardo-arcaici un brivido di frenata energia attraversa tutta la figura, i muscoli fremono già come nelle future opere fidiache e con un gusto quasi mironiano la scultura blocca l’immagine nel momento stesso in cui tutta l’energia caricata sta per esplodere.

Purtroppo la frammentarietà delle sculture partenoniche complica la fruizione della rivoluzione fidiaca. Il Dio compariva almeno due volte, più disteso e in uno schema più tradizionale nel fregio della cella partenonica dove è raffigurato seduto con l’himation avvolto intorno alle gambe – e ancora una volta l’iconografia ribadisce lo strettissimo legame con il fratello Zeus – in piena tensione nel frontone. Il torso superstite ci mostra la muscolatura nella piena torsione di un violento movimento e non si fatica ad immaginare mentre colpisce con tutta la forza la roccia per farne scaturire la polla d’acqua salmastra.

A questi modelli guarderà la generazione post-fidiaca come attestano i rilievi dell’Hephaistaion, dell’Eretteo e del tempio di Atena Nike. Probabilmente influenze fidiache dovevano ritrovarsi anche nei cicli pittorici di Mikon per il Theseion di Atene. Si è proposto di vedervi un’eco in un cratere attico a Bologna con Poseidone sdraiato su una kliné affiancato da Anfitrite mentre dona una corona aurea a Teseo. Lo stesso soggetto ma con figure stanti si ritrova in un cratere del Pittore di Harrow ad Harvard.

La ceramica a figure rosse aumenta in modo significativo il numero dei soggetti raffigurati. Si ritrovano tematiche tradizionali anche se adattate a un diverso gusto espressivo come le scene di gigantomachia su uno stamnos del Pittore di Troilo (ancora di stile severo) o in un’anfora del Pittore di Diogenes con Poseidone che sta per scagliare contro Polybotes l’isola di Nisiro mentre in una coppa di Aristophanes della fine del III è raffigurato mentre trafigge il gigante con il tridente sotto lo sguardo inorridito di Gea. Frequenti anche le immagini più statiche con il Dio affiancato da Anfitrite (stamnos del Pittore di Syleus con le due divinità sedute e Iris fra loro in veste di coppiera che riprende con maggior sobrietà uno schema già affrontato a inizio V secolo dal Pittore di Sosias con non comune esuberanza decorativa). Di gusto tutto partenonico è invece il trattamento della coppia divina su un’anfora apula del Pittore di Thalos ormai intorno alla fine del secolo.

Compaiono però anche nuovi soggetti come il suo ruolo di spettatore della nascita di Afrodite in una pelike attica a Tessalonica (ormai della metà del IV secolo) o le storie degli amori con Amimone che compaiono in Attica (pelike del Pittore di Licaone intorno al 440 a.e.v.) ma che avranno grande fortuna in ambito italiota per tutto il secolo successivo.

Più problematico farsi un quadro preciso della situazione del IV a.e.v. per la scarsità della documentazione. Di un Poseidon di Skopas circondato da nereidi e delfini parla Plinio ricordando un suo trasferimento a Roma, si è proposto di vederne un’eco nel fregio posteriore dell’ara di Domizio Enobarbo. Perduti anche il Poseidon di Prassitele e quello dedicato da Lisippo sull’istmo. Il nome di Lisippo – insieme a quello di Bryaxis – sono stati fatti in relazione alla statua colossale del Museo Lateranense. Probabilmente al modello lisippeo si rifanno le piccole immagini bronzee e le raffigurazioni glittiche che fino ad età romana trasmetteranno l’immagine del Dio nudo, in posizione di riposo con il piede appoggiato su una prua navale e l’aplustre dietro le spalle. Si è proposta una derivazione lisippea anche per la testa Chiaramonti dalla capigliatura resa con un gusto barocco con non esclude la possibilità di scendere in età ellenistica. Probabilmente a un tipo statuario si rifanno anche le numerose emissioni monetarie con il Dio seduto su una roccia con tridente, delfino e prua di nave attestate a Corinto, Nisiro, in Beozia e nelle emissioni di Demetrio Poliorcete.

Alla prima stagione ellenistica si data il Poseidon di Bryaxis servito da modello per la statua colossale di Cherchell già di età imperiale. Sul grande altare di Pergamo il Dio compariva sul carro alla testa delle divinità marine ma si tratta di una delle parti più danneggiate del complesso e la figura del Dio è completamente scomparsa.

L’opera più nota per il periodo ellenistico è però la statua colossale da Melos. Il tipo essenziale è ancora quello della tradizione classica con il Dio stante, barbuto, a torso nudo e con l’himation avvolto intorno alle gambe. L’opera mostra caratteri ecclettici con suggestioni peloponnesiache – nel volto – e pergamene forse attribuibile ai copisti parendo evidente la derivazione dell’esemplare marmoreo da un prototipo bronzeo (come sembra confermare la presenza di elementi ausiliari in funzione di puntelli). Elementi di ponderazione e soprattutto la presenza di monete lagidi in cui la statua compare priva di puntelli spingono a collocare l’originale in ambiente tolemaico, probabilmente negli anni di Tolomeo IV Filopatore. Il gruppo godette di grande fortuna fino ad età imperiale come attesta il Nettuno napoletano di età claudia o il riuso del tipo per statue celebrative di Augusto.

Non rappresentato ma indirettamente evocato è Poseidon a Lyconsoura dove i danzatori con maschere equine raffigurano celebrazioni in onore di Poseidon Ippios che nella tradizione locale è paredro di Demetra e padre di Despoina-Persefone.

Probabilmente alla fine dell’ellenismo si data il cammeo napoletano – già collezione Medici poi Farnese – che reinterpreta con eleganza tutta classicista il tipo fidiaco della contesa per il possesso dell’Attico con le due divinità contrapposte e separate dall’olivo fatto sorgere da Atena sotto il quali si rintana Erichtonios.

Ancora nel II d.C. un gruppo crisoelefantino con Poseidone e Anfitrite su una quadriga era dedicato da Erode Attico a Istmia.

Nethuns e Neptunus

In abito etrusco il Dio compare in alcuni specchi incisi secondo l’iconografia greca. Più originali le emissioni monetarie – Vetulonia, Populonia e Volterra – dove compare imberbe seduto su una roccia da cui sgorga acqua mentre dai tipi greci deriva il tridente come attributo.

Il Nettuno romano pur presentando caratteristiche proprie venne rapidamente reinterpretato alla greca e praticamente non esiste un’iconografia italica autonoma dai modelli classici od ellenistici. In ambito romano – specie nelle emissioni monetali e nella glittica – si preferiscono tipo arcaicizanti con il Dio rigidamente stante, il mantello passato sulle spalle, il tridente e il delfino come attributi. Non è difficile ipotizzare la loro derivazione da modelli italioti.

Il fregio del lato posteriore di Domizio Enobarbo non aggiunge molto alla tradizione locale riproducendo un modello tardo-classico o ellenistico come a tipi greci si rifanno le statue cultuali di età tardo-repubblicana e proto-imperiale.

Nettuno gode di particolare fortuna nella province dove tende a rappresentare l’interpretatio romana di divinità indigene delle acque. E’ probabilmente con questa funzione che compare nelle province gallo-germaniche (colonna istoriata di Magonza di età neroniana) e soprattutto in quelle africane dove il Dio gode di infinita fortuna.

Nettuno – erede qui di un Ba’al acquatico di tradizione punica – è al centro dell’immaginario di popolazioni che conoscono la minaccia della siccità e che quindi hanno una particolare venerazione per l’acqua vivificatrice e per le divinità che la garantiscono.

Le iconografie sono tendenzialmente classiche ma alcuni dettagli fanno emergere una concezione locale. Il nimbo che nelle province africane è attributo delle divinità vivificanti e garanti del rinnovamento della terra adorna il capo del Dio che avanza trionfalmente sulla sua quadriga in un mosaico di La Chebba affiancato dalle personificazioni delle stagioni e dai simboli dei lavori agricoli stagionali. Palese è la prevalenza di un Dio portatore delle acque, garante delle stagioni e della regolarità delle piogge così importante nei semi-aridi climi africani. Ancora nimbato e ancora sul carro ma affiancato da Anfitrite e calato in uno scenario totalmente marino compare nel sontuoso mosaico che decorava il triclinio della casa di Catone a Utica (fine II – inizi III e.v.).

Analogo al nimbo per valore simbolico è in Africa il mantello che si gonfia alle spalle di un Dio circondandone la figura. Così appare Nettuno su una biga lanciata al galoppo su un mosaico severiano da Sousse e ancora alla fine dell’antichità nel ricco mosaico delle terme private di Sidi Ghrib – regione di Cartagine – della fine del IV – inizi V secolo raffiguranti le nozze con Anfitrite. La presenza di simboli così specifici ha fatto avanzare l’ipotesi che questo ciclo musico come alcuni coevi mosaici con Dioniso e Venere Marina rappresentino le ultime attestazioni di una resistenza pagana in Africa dopo l’editto di Teodosio.

Poseidon di Capo Artemision

Poseidon di Melos

Cammeo con contesa fra Poseidone e Atena per il dominio sull’Attica

Mosaico da La Chebba con Nettuno e stagioni

I simboli astrali

I simboli astrali sono presenti con notevolissima frequenza sulle stele del santuario durante tutto il lungo corso della sua vita. Rispetto ai motivi precedentemente descritti essi hanno prevalentemente una funzione ausiliaria, di accompagnamento ai simboli principali. La loro collocazione nelle parti alte della stele (frontone o zona superiore del campo) ha comportato la perdita di molte testimonianze ma dagli esemplari conservati possiamo immaginare una loro presenza quasi sistematica.

Il simbolo più diffuso è formato da un crescente lunare orizzontale, con le corna rivolte verso il basso, sovrastante un disco solare. Il simbolo compare a Cartagine fra la fine del V a.C. e gli inizi del secolo successivo e rimane in uso fino alla distruzione della città, con una frequenza che tende ad accrescersi con il passare del tempo; a Sousse continua ad essere utilizzato in epoca neopunica e scompare soltanto – come tutti gli elementi ausiliari – nell’ultima fase di vita dell’area sacra fra I e II d.C. Ferron ha proposto di vedere nel crescente lunare il simbolo di Tanit e nel disco, inteso come simbolo solare, quello di Baal Hammon. Partendo da questa ipotesi si spiegavano le trasformazioni avute dal simbolo nel corso della sua storia: esclusiva presenza del simbolo solare di matrice egizia; comparsa del crescente in dimensioni analoghe al disco solare; progressiva preminenza acquisita dal simbolo lunare, come conseguenza dell’apparire e dell’affermarsi del culto di Tanit. Successivamente la stessa studiosa francese prese le distanze da questo posizione, notando come non esistano certezze riguardo alla dimensione solare di Baal Hammon.

Con buone possibilità non potremo mai spiegare in dettaglio l’insieme dei significati espressi da questo simbolo, mentre é probabile che le variazioni dei rapporti dimensionali siano dovute più a questioni di gusto che a trasformazioni di natura semantica. Quantitativamente meno diffuso ma più precocemente attestato è il disco solare alato, spesso affiancato da urei, derivato da modelli egiziani probabilmente acquisiti tramite mediazione fenicia. Il disco solare compare fin dalle più antiche stele documentate – fra cui quella celeberrima del “Baal di Sousse – e continua ad essere utilizzato, seppur in modo saltuario, fino ad età neopunicaIl simbolo é generalmente collocato sull’architrave o, in esemplari di età ellenistica, sul frontone triangolare. Questa collocazione nella parte superiore del campo ha probabilmente comportato la perdita di gran parte delle attestazioni che dovevano essere percentualmente molto più numerose.

I simboli astrali sormontano, e con ciò indicano e definiscono, l’oggetto di culto. In un primo tempo la collocazione sull’architrave superiore definiva la sacralità della nicchia nel suo complesso, come astrazione di uno spazio templare. Nelle stele più recenti i simboli sono collocati direttamente all’interno del campo, al di sopra dell’oggetto che si vuole connotare in senso sacrale: “idolo-bottiglia”, elemento centrale della triade betilica. Una lettura di questo tipo permette di spiegare anche alcuni casi particolari che avevano creato problemi al Cintas. E’ il caso di due stele di III a.C. caratterizzata da due simboli astrali – crescente rovesciato su disco – sovrapposti ad una coppia di triadi betiliche e letti dallo studioso francese come indizio di antropomorfizzazione della stele in quanto il loro aspetto poteva ricordare degli occhi.

L’ipotesi non appare più fondata e la stele, nonostante l’insolito aspetto, riproduce semplicemente il modello di valorizzazione dell’elemento sacrale tramite il simbolo astrale. La presenza di una coppia di triadi betiliche porta al raddoppio dei simboli, uno per ciascun elemento centrale. Si possono portare a riguardo confronti con alcune stele moziesi e sarde. In alcuni esemplari i simboli solari sono sostituiti da motivi a rosetta.

 Si tratta di un’evoluzione del simbolo solare attestata anche a Cartagine a partire dal III a.C; gli esemplari hadrumetini hanno cronologia analoga. La trasformazione dei simboli solari in rosette è una caratteristica costante nell’arte tardo e neopunica, specie per quanto riguarda la decorazione di monumenti funerari. In essa convivono la ricerca di una maggior evidenza decorativa con concezioni escatologiche stellari o luni-solari di tradizione pitagorica.

La presenza nel tophet di simboli connotati in chiave funeraria non deve stupire considerando la natura necropolare del santuario. Simboli analoghi compaiono su numerose stele funerarie di età romana provenienti da Aïn Gass

I caducei

L’adozione del caduceo fra i simboli dell’immaginario punico è il prodotto dei frequenti contatti – pacifici o meno – che i cartaginesi intrattenevano con i greci di Sicilia. Per quanto siano state avanzate numerose ipotesi su un’ipotetica origine orientale del simbolo, in particolar modo dalle insegne sacre di tradizione mesopotamica264, nessuna di esse appare convincente. L’origine greca del simbolo sembra confermata da ragioni sia tipologiche che storiche. Pur nelle infinite varianti che può presentare, il caduceo punico sembra riferibile, in origine, al Kerykeion degli ambasciatori greci2. Esso compare a Cartagine in epoca relativamente tarda, non prima del III a.C., momento in cui le iconografie di origine greca tendono a prevalere su quelle di derivazione orientale.

Nel mondo punico l’originaria insegna si carica di valori sacrali: la sua presenza al fianco dei grandi simboli dell’immaginario punico ne ribadisce la natura, analogamente a quanto avviene con i simboli astrali. La generica valenza di sacralità non esclude la sopravvivenza dell’originario legame fra il caduceo e Mercurio, che allo stesso orizzonte cronologico compare a Cartagine.

Hermes-Mercurio riveste, in detto contesto, una divinità indigena, probabilmente Baal Addir, caratterizzata da funzioni analoghe. L’associazione è ancora attestata in epoca romana specie in regioni – come la Numidia – dove il culto del dio punico era molto radicato. Ad Hadrumetum il simbolo è documentato in modo sporadico, esclusivamente su stele di età ellenistica; si tratta di un altro elemento che distingue la documentazione del tophet cittadino da quella dei santuari rurali del territorio (El Kenissia) dove il simbolo compare con estrema frequenza fino alla piena età imperiale. Sono attestate due varianti del simbolo:, un primo tipo, più semplice, presenta una semplice asta verticale sorreggente un motivo ad otto. Si tratta del tipo più diffuso in tutto il mondo punico. Un secondo tipo, più complesso e generalmente caratterizzato da grandi dimensioni, presenta un’asta verticale sorreggente un coronamento a forma di “segno di Tanit”. Si tratta di una variante ben nota a Cartagine e che risulta attestata anche a El Kenissia.

 Simboli particolari

Le stele del tophet di Sousse presentano un numero di simboli ausiliari abbastanza ridotto, specie se confrontate con la ricchezza che caratterizza altri contesti. Mancano completamente l’”idolo a losanga” molto diffuso a Cartagine, a Mozia ed in Sardegna, la mano aperta, i motivi di derivazione marina e le raffigurazioni di oggetti rituali così importanti nella documentazione cartaginese, i particolari anatomici. Non sorprende l’assenza – nel periodo precedente il dominio romano – di simboli di derivazione greca: crateri, ghirlande, bucrani, foglie d’edera, così come di soggetti figurati di stile greco.

Ulteriore testimonianza del monopolio cartaginese sulla regione e della volontà della metropoli di impedire i contatti fra questa ed il mondo esterno. Compaiono con notevole frequenza raffigurazioni di altari e di tavole votive, in genere a gola egizia. La loro funzione è genericamente quella di sorreggere un simbolo – “idolo-bottiglia”, “segno di Tanit”, composizioni betiliche, mentre sono rari, e tardi, i casi in cui godono di una maggior autonomia formale. Prescindendo dalla presenza di altari in più complesse scene narrative si può ricordare una stele neopunica (in cui è raffigurata una base modanata su cui sono raffigurati un altare accesso e due triadi betiliche.

Ad un analogo valore semantico può forse essere riferita una stele di analoga cronologia – I d.C. – recante in fronte la raffigurazione di un letto vuoto. Molto probabilmente si tratta dell’evocazione di una divinità presente ma invisibile, come accadeva con i troni vuoti offerti in dono nei santuari orientali280, modulo rappresentativo forse ripreso per influenza del rituale romano dei lectisternia281. Scarsamente rappresentati – ma non del tutto assenti – sono i motivi di derivazione vegetale. Una stele neopunica) mostra un ramo di palma molto stilizzato, realizzato per semplice incisione, analogo a quelli attestati con estrema frequenza nel santuario rurale di El Kenissia.

La palma è antico simbolo semitico di sacralità ma non si può escludere anche un richiamo alla dimensione funeraria, dovuto ad influenze di derivazione greco-romana. Il fiore di loto, attestato con frequenza a Cartagine, compare a Sousse in un unico esemplare, dove serve da sostegno per un “segno di Tanit”. Sono invece assenti il melograno, attestato con frequenza sia a Cartagine sia in contesti neopunici; e la pigna, sconosciuta ad Hadrumetum ma attestate in stele votive datata dalla metà del II d.C. provenienti da centri minori del territorio.

Un fregio di spighe di grano decora un betilo ovoide collocato su un trono litico e datato al II d.C. L’oggetto, che rappresenta un unicum non solo nella documentazione archeologia hadrumetina ma, probabilmente, in tutta l’Africa punica, va probabilmente interpretato come una raffigurazione aniconica di Baal Hammon in quanto le spighe di grano che lo decorano sembrano potersi collegare a quelle che accompagnano – in mano o sotto forma di corona – le immagini del Dio.

Infine va ricordata un’isolata stele presentante una più complessa immagine, interpretabile come raffigurazione di un tempio semitico all’aria aperta. Si riconoscono lo steccato che definiva lo spazio del temenos, un altare collocato al centro su cui è acceso un fuoco, due palme che, probabilmente, raffigurano in forma simbolica i boschi sacri collocati intorno ai templi; tre quadrupedi – due ai lati ed uno al di sopra dell’altare – richiamanti le offerte sacrificali.

Tutti gli elementi concorrono ad evocare l’aspetto di un’area sacra di tipo semitico, in cui la parte naturale risulta ancora prevalente su quella edificata e non sono ancora presenti tracce di monumentalizzazione. Il santuario hadrumetino aveva, probabilmente, un aspetto non dissimile da quello ricostruibile dalla nella presente stele.

Gli animali

A partire da una cronologia relativamente alta, probabilmente ancora nel corso del III a.C., le raffigurazione zoomorfe compaiono sulle stele di Cartagine. Il bestiario raffigurato è molto ricco e diversificato e vi risultano attestati mammiferi (cane, asino, topo o coniglio, pantera, orso), uccelli (aquila, colomba, gallo, cigno, sparviero, falco), animali marini (delfino, polpo, pesci generici), insetti (cavalletta) ed animali fantastici (scarabei solari, uccelli a testa umana, sfingi).. La fusione fra l’antico rituale orientale e quello romano può essere stato favorito dall’utilizzo di quest’ultimo in rituali in onore di Saturno e Giunone (LIVIUS, XX, 1 18-19; CIL Vi, n. 32323), le divinità romane cui vengono assimilati gli Dei del tophet Baal Hammon e Tanit.

I singoli animali dovevano rispondere a valori simbolici fra loro molto diversi, così come estremamente diversificata doveva essere l’origine delle iconografie. Di fronte alla ricchezza delle testimonianze cartaginesi il quadro offerto dalle stele di Hadrumetum appare estremamente limitato. Le immagini di animali sono completamente assenti dalle stele di età neopunica e su quelle di gran parte del periodo romano. Di fatto la documentazione è limitata a pochi esemplari, databili all’ultima fase di vita del santuario tra la fine I e gli inizi II d.C. Si tratta di esemplari di piccole dimensione, realizzati in un calcare poroso di qualità molto scadente; l’apparato figurativo, eseguito con un rilievo molto sommario, forse successivamente stuccato, presenta raffigurazioni di montoni passanti.

 Gli animali raffigurati hanno la coda grossa e tozza della razza berberina, e probabilmente raffigurano una forma di sacrificio di sostituzione in un momento in cui non sono più attestate pratiche rituali all’interno del santuario. Le stele trovano confronti con esemplari sulcitani di età ellenistica, quindi cronologicamente molto lontani dalle stele di Hadrumetum che appaiono sostanzialmente isolate nel quadro dell’arte neopunica. Figure di ovini vengono riprodotte con notevole frequenza sulle stele votive di età; in esse è raffigurato l’animale offerto in sacrificio secondo stilemi formali derivati dall’arte popolare romano-italica integrata da elementi di tradizione neopunica. In ogni caso non sembra esserci una continuità fra le stele del VI livello del tophet e questi materiali (databili dalla metà del II d.C. a quella del secolo successivo)

 Solo un esemplare da Aïn Gassa presenta fra i vari elementi decorativi, una nicchia ad arco centinato contenente l’immagine di un montone passante schematicamente affine a quelle del tophet. La stele si data fra la fine del II e gli inizi del III d.C.

Raffigurazioni umane

Immagini antropomorfe caratterizzano la fase più antica del tophet hadrumetino.  Al secondo livello del santuario (metà IV a.C.) si datano le celebri stele del “Baal di Sousse”, di Tanit in trono, di Iside-Tanit e quella in stile egittizzante con cariatidi hatoriche, tutte precedentemente descritte. A partire dal III livello (fine IV- inizi III a.C.) le raffigurazioni umane o divine scompaiono completamente dalle stele del tophet di Sousse mentre si afferma in modo esclusivo l’uso di raffigurazioni simboliche. L’assenza delle iconografie ellenizzanti che compaiono a Cartagine ed in Sardegna nel corso dell’età ellenistica si spiega probabilmente in conseguenza del monopolio commerciale di Cartagine, che per la regione si configurava come un autentico divieto di qualunque contatto diretto con l’esterno.

Bisogna attendere l’affermazione del dominio romano, e la conseguente riapertura ai contatti internazionali, per ritrovare sulle stele hadrumetine raffigurazioni umane. Un gruppo di stele  pertinenti al V livello d’uso e datate al I d.C. presenta scene di carattere narrativo raffiguranti momenti del rito sacrificale e realizzate con uno stile, e secondo iconografie, derivate dall’arte romana, specie dai rilievi votivi o funerari di carattere popolare. Non appare comunque necessario appesantire il lavoro con l’analisi dettagliate di queste problematiche Di alcuni di questi animali si ritornerà a parlare in seguito in relazione al loro comparire nell’immaginario funerario di età romana.

Le iconografie presenti sulle singole stele mostrano una certa variabilità, pur rimandando tutte a pratiche sacrificali di natura non cruenta: libagioni, fumigazioni. Il sacrificio di sangue è evocato in una scheda raffigurante un gruppo di tre personaggi recanti un agnello destinato al sacrificio, ma non è mai raffigurato il momento dell’uccisione dell’animale. Le singole stele mostrano momenti successivi della cerimonia e nell’insieme raffigurano l’intero svolgimento del rito. Vi compaiono gruppi di persone che si dirigono verso l’edificio sacro ma il cattivo stato di conservazione ne complica la lettura); offerenti intenti a condurre la vittima al sacrificio; i fedeli riuniti all’interno del santuario; sacerdoti intenti a compiere il rito assistiti da uno o più inservienti.

Si tratta di un gruppo di stele numericamente limitato, molto compatto dal punto di visto stilistico e tecnico, tanto che si possono attribuire ad un’unica bottega. Dal punto di vista stilistico-formale appartengono a pieno diritto all’arte popolare romana e risultano totalmente estranei alla tradizione neopunica locale. La diffusione di questi stilemi va probabilmente connessa alla presenza in città di un conventus di cittadini romani fin dal termine della II guerra punica. Una presenza diretta di italici che deve aver sicuramente influito sulla diffusione in Africa delle tradizione dell’arte popolare romana. La mancanza di iscrizioni impedisce di sapere se i dedicanti fossero italici o indigeni, la collocazione all’interno del tophet, spazio sacro di primaria importanza nella tradizione locale ma sostanzialmente estraneo per gli immigrati italici, fa preferire la seconda ipotesi. Con buone probabilità si tratta di stele dedicate da cittadini di origine locale, punica o libica, ancora legati ai culti tradizionali celebrati nell’area ma ormai completamente romanizzati nell’immaginario rappresentativo.

Stele con Baal Hammon da Sousse

Esempi di stele hadrumentine

Esempi di stele hadrumentine

Betili e triadi betiliche

Il betilo (dal semitico bēt el “casa del Dio” o per derivazione il Dio stesso) rappresenta una forma ancestrale di immagine divina originariamente diffusa in tutto il mondo mediterraneo e, a partire dall’età del ferro, tipica del mondo semitico, specie siro-fenicio. Il betilo è un elemento aniconico di pietra disposto verticalmente nella figura di una “forma animata” di un “essere vivente” che ad un tempo affonda in terra e si leva verso il cielo, traducendo in immagine il senso di comunione cosmica tipico delle religioni primitive. L’immaginario religioso fenicio, sempre dibattuto fra tentazioni figurative e tradizioni aniconiche, vedrà ripetutamente emergere l’immagine del betilo sia nella forma di autentici pilastri o colonne elevati all’interno dei complessi sacri, sia come elemento figurativo su oggetti di funzione sacrale.

I betili compaiono sulle stele del tophet di Cartagine fra la fine del VII e gli inizi del VI a.C., di contro sono sconosciuti a Sousse almeno fino alla metà del IV a.C. e la loro comparsa sembra accompagnare l’affermazione del dominio culturale di Cartagine sulle città costiere del Sahel. Il diffondersi relativamente tardo di questa immagine simbolica comporta l’assenza a Sousse delle tipologie arcaiche e sperimentali, presenti a Cartagine, e l’esclusiva presenza di modelli già pienamente codificati. Fenomeno testimoniato, in primo luogo, dalla rarità delle immagini di betili isolati, presenti come tali solo in alcuni esemplari del IV livello. La tipologia più diffusa è sicuramente rappresentata dalla cosiddetta triade betilica, che compare nel III a.C. e continua almeno fino alla fine del I a.C. inizi del I.d.C. Questa è attestata sia nella forma con i tre betili addossati sia in quella in cui i singoli elementi sono separati fra loro; quasi tutti i casi sono però accomunati dell’elemento centrale più alto di quelli laterali.

L’origine ed il significato della triade betilica è stata a lungo dibattuta e ancor oggi non esistono certezze assolute a riguardo. A lungo queste raffigurazioni sono state viste come l’immagine simbolica di un’ipotetica triade divina rappresentata da un Dio padre in posizione preminente (il betilo più alto), da una Dea madre e da un Dio figlio. Detta ipotesi si scontra però contro numerosi problemi: in primo luogo non sono rare le stele in qui si assiste ad una moltiplicazione del modulo iconografico sulla stessa stele, il che imporrebbe di pensare ad una riproduzione esponenziale della triade divina che lascia quanto meno perplessi, inoltre lo schema compare a Cartagine già alla fine del VII a.C. in un momento in cui non si ha nessuna testimonianza di detti sistemi trinari nel mondo fenicio, la cui affermazione sembra conseguente ai processi di ellenizzazione che caratterizzano la religione punica solo a partire dal V a.C..

Fra tutte le ipotesi avanzate la più convincente pare ancora quella proposta da Cintas in occasione della prima pubblicazione dei materiali del tophet e sostanzialmente accettata dalla Picard e dalla Chaisermartin. Cintas constata la pratica di dedicare troni votivi alle divinità, troni su cui era collocata l’immagine della stessa, od in sostituzione, il betilo. Immagini di questo tipo sono diffuse in tutto il mondo fenicio punico, una statuetta della Cueva d’es Cuiram a Ibiza mostra una Dea assisa su un trono a bracciali rettilinei mentre il celebre “trono di Astarte” del tempio di Eshmoun a Sidone mostra un trono più complesso decorato lateralmente da sfingi mentre l’immagine divina è sostituita da una coppia di betili.

Una fusione dei due schemi si trova in un cippo arcaico da Cartagine in cui due betili sono collocati su un trono analogo a quello della statuetta di Ibiza. Cintas nota che la triade betilica ricorda molto da presso l’immagine di un betilo collocato su un trono visto frontalmente. La gran parte degli esemplari hadrumetini con triade betilica sembra confermare questa interpretazione. Una lettura di questo tipo non crea problemi neanche per le stele che affiancano due o più triadi betiliche e che sono estremamente diffuse negli ultimi livelli. Si tratterebbe di raffigurazioni di più betili posti su troni collocati su un’unica base; la cosa non deve stupire in quanto l’area sacra era dedicata al almeno due divinità: Tanit e Baal Hammon, alle quali potevano affiancarsi divinità ausiliare o ipostasi delle stesse figure principali. Una stele presenta una base su cui sono collocate due triadi betiliche affiancate da un altare, confermando la possibile collocazione di più elementi in un unico spazio. Nelle ultime fasi di vita si assiste ad una progressiva semplificazione del modulo.

Come giustamente notato da Cintas, da questa semplificazione derivano i cosiddetti “idoli-bottiglia” a spalla rettilinea, che probabilmente non sono altro che una triade betilica in cui non sono più indicati gli elementi di divisione interna. L’affermarsi di queste tendenza comporta una sempre maggior commistione semantica fra la “triade betilica” e l’”idolo-bottiglia” tanto da rendere le due immagini difficilmente distinguibili e, apparentemente, fra loro intercambiabili. Inoltre sembra apparire una progressiva perdita di conoscenza del valore primario dei simboli che, nel corso dell’età romana, continuano ad essere riprodotti più come schemi acquisiti che per un preciso valore di significato. A questo fenomeno sembra connettersi la comparsa di nuovi schemi iconografici, come la coppia o la triade di “idoli-bottiglia” ritrovate nell’ultimo livello di vita e che vanno probabilmente riportate al precedente, quindi con una cronologia a cavallo dell’era volgare.

Questo modello principale può presentare numerose varianti, attestate in un numero limitato di esemplari cronologicamente databili soprattutto ad età ellenistico-romano. Il primo tipo e dato dalla presenza di una base su cui sono collocati due betili cui è assimilabile quello a quattro elementi di cui i due centrali più alti di quelli laterali.

Questi schemi non presentano particolari problemi e appaiono come semplici varianti dei precedenti; la possibilità di collocare due betili su un singolo trono è attestata sia a Sidone sia a Cartagine e non sorprende vederla riprodotta ad Hadrumetum. In questo caso non appare invece convincente la proposta avanzata dallo studioso francese di vedere nei due betili le raffigurazioni della divinità e del dedicante; l’uguaglianza dimensionale si scontra con la prassi, generalmente attestata, delle proporzioni gerarchiche per cui l’immagine divina è più grande di quelle umane, appare quindi più probabile vedervi le immagini di due divinità (Tanit e Baal Hammon?) associate su un unico trono. Le altre varianti sembrano più pertinenti alla sfera grafica che a quella simbolica, è il caso degli esemplari in cui i betili hanno coronamento appuntito o triangolare anziché rettilineo, o di quelli in cui gli elementi laterali hanno forma trapezioidale, rastremata verso l’alto, anziché rettangolare.

Apparentemente più problematici alcuni esemplari in cui i tre elementi non sono contigui ma presentano uno spazio divisorio fra loro. La tipologia compare nelle ultime fasi del IV livello e continua agli inizi del successivo, quindi a cavallo fra la metà del II a.C. e gli inizi del secolo successivo. Lo schema, apparentemente autonomo rispetto a quelli sopra descritti, e la ragione delle differenze non hanno avuto finora spiegazione. Potrebbe trattarsi di un modello diverso, derivato dai betili-obelisco attestati a Cartagine oppure una semplice variante grafica del tipo precedente. Sembra possibile pensare, seppur in via ipotetica, ad un’origine differente, frutto della sintesi di diverse tendenze. Probabilmente l’idea originaria va identificata nei betili- obelisco posti su base, spesso collocati in gran numero uno al fianco dell’altro. Nel momento in cui questi vengono riprodotti sulle stele si tende ad organizzarli in gruppi trinari per suggestione dell’iconografia della “triade betilica” dando luogo ad uno schema nuovo, della sintesi di entrambi.

Il segno di “Tanit”

L’origine e le funzioni di quello che è il simbolo più diffuso e più profondamente radicato della civiltà punica sono state a lungo oggetto di dibattito e ancor oggi non si è raggiunta una piena uniformità nell’interpretazione dello stesso. Prima di descrivere come detto segno compaia nelle stele del tophet hadrumetino appare opportuno tracciare un breve profilo sulla storia e sul dibattito relativo al segno, necessario per comprendere l’essenza dello stesso. Nella sua forma più semplice il “segno di Tanit” è formato da una base triangolare (nelle redazioni più tarde trapezoidale) sormontato da un’asta orizzontale e da un elemento circolare. Per comodità le tre parti verranno chiamate “base”, “braccia” e “testa” come già fatto in importanti pubblicazioni sul tema. Il segno compare a Cartagine agli inizi del IV a.C. per quanto appaia probabile un’origine orientale.

La cronologia è confermata dall’assenza del simbolo a Mozia, la cui produzione si interrompe con la conquista greca. L’interpretazione del segno è stata oggetto di un vivace dibattito sulle origini e sul significato dello stesso. Per sintetizzare le varie ipotesi proposte pare ancora opportuno riportare lo schema a suo tempo avanzato da S. Moscati integrandolo con le teorie successivamente avanzate, soprattutto ad opera dello studioso italiano: – Si tratta dello sviluppo del segno egiziano della vita, l’ankh. – Si tratta di una derivazione dell’ancora, emblema della città di Tiro. – Si tratta di una combinazione del betilo e del simbolo solare, divisi fra loro da una falce lunare schematizzata. – Si tratta dell’immagine di un personaggio che prega – Si tratta di un idolo egeo-minoico il cui uso sarebbe sopravvissuto in oriente e ricomparso a Cartagine. – Si tratta di una schematizzazione della “Dea con le mani ai seni”. Questo appare, in sintesi, il quadro delle proposte avanzate fino ad oggi. Se alcune mancano completamente di verosimiglianza come l’idea di una possibile derivazione da un idolo minoico vecchio di un millennio senza che si siano ritrovate tracce intermedie di uso, altre contengono elementi di verità legati alla valenza polimorfa che il simbolo viene ad acquisire nel corso della sua storia.

Per quanto riguarda l’origine del simbolo, e molto probabilmente per buona parte delle evoluzioni successive, l’ipotesi più convincente appare quella proposta da S. Moscati a partire da alcune stele moziesi, ovvero di riconoscere l’origine del “segno di Tanit” nella semplificazione dell’immagine della “Dea con le mani ai seni”. Si tratta di uno schema attestato in Fenicia fin dalla media età del bronzo come attesta il cosiddetto “Tempio degli obelischi” a Byblos. Il segno compare graffito su una statuetta fittile, raffigurante una Dea velata, ritrovata in un relitto affondato al largo del porto di Shave Zyon nel nord della Palestina. La statuetta si data alla prima metà del IV a.C. ed è quindi di poco successiva alle prime testimonianze cartaginesi. Per quanto nulla di sicuro possa essere detto al riguardo il ritrovamento di Sheve Zyon potrebbe indicare una possibile origine orientale del simbolo triangolare della parte inferiore rappresenterebbe una lunga veste a campana che negli esemplari siciliani e sardi generalmente sostituisce la nudità delle immagini orientali. A. M. Bisi ha ritrovato possibili precedenti al “segno di Tanit” nella decorazione di alcune scatolette lapidee cipriote databili alla prima età del ferro e che sembrano rappresentare un anello di passaggio fra le iconografie naturalistiche orientali e quelle simbolico astratte occidentali.

Appare quindi probabile che il segno raffiguri una Dea, o meglio la Dea per eccellenza, che nello spazio del tophet non può che essere Tanit. In tal senso il nome di comodo dato dagli archeologi al simbolo appare pienamente accettabile non solo dal punto di vista convenzionale ma anche da quello del significato del simbolo stesso. Immagine schematizzata della divinità il “segno di Tanit” è il prodotto di quella continua, e spesso contrapposta, dinamica fra iconico ed aniconico che caratterizza l’arte punica nel corso di tutta la sua storia. L’evoluzione successiva del simbolo appare ancora come un prodotto di questa dialettica ora rovesciata nella direzione: dal simbolo all’immagine umana.

Lo sviluppo in chiave antropomorfa che ovunque caratterizza il simbolo in età ellenistica e romana è probabilmente conseguente al suo stesso significato, che doveva essere ancora presente presso le comunità tardo e neopuniche sia nel centro del dominio cartaginese sia nelle più lontane periferie (Cirta, Sabratha). Si tratta in ogni caso di fenomeni secondari, strettamente legati alle condizioni locali in cui si sviluppano, e questo spiega le innumerevoli varianti che il segno viene ad assumere, pur all’interno di un processo sostanzialmente omogeneo nelle linee di fondo. Riportando l’attenzione sulla documentazione del tophet hadrumetino appare subito evidente una presenza limitata – sia numericamente che cronologicamente – del simbolo, la cui fortuna è limitata ad un preciso momento, quello di massima egemonia di Cartagine sui centri costieri del Sahel tunisino. Questa situazione pare isolare Hadrumetum rispetto agli altri centri neopunici in cui il “segno di Tanit” sembra godere di particolare fortuna fino ad età imperiale avanzata. L’assenza nel tophet cittadino risulta ancor più difficile da spiegare visto l’enorme diffusione del simbolo nel santuario rurale di El Kenissia, che faceva capo alla città.

Gli esemplari più antichi presentano il tipo canonico, anche se il corpo è più spesso trapezioidale che triangolare. Il segno può essere collocato su una base oppure fluttuare liberamente nel campo. La tecnica prevede stele semplicemente incise ed altre più complesse lavorate a rilievo. A partire dalla fase finale del IV livello e soprattutto nelle prime fase del V (intorno alla metà del II a.C. e nei decenni successivi), il segno comincia a subire significative trasformazioni.

La tipologia più semplice lascia il campo a varianti che attestano un principio di antropomorfizzazione: la linea orizzontale presenta quasi sempre una piega ad angolo retto a circa metà della sua lunghezza, probabilmente indicante la piegatura del gomito con gli avambracci rivolti verso l’alto nella posizione dell’orante; in alcuni esemplari la piega avviene più avanti, in prossimità di quelle che dobbiamo ipotizzare essere le mani; altrove la fascia orizzontale è sostituita da un arco di cerchio, con le estremità rivolte verso l’alto. La “testa” è ancora di forma circolare, a volte segnata da una doppia linea di profilo; alcuni esemplari cominciano però a presentare varianti che diverranno canoniche nelle produzioni più recenti (attestate, ad esempio, nel santuario rurale di El Kenissia): la “testa” non è più tangente alle “braccia” ma leggermente staccata ed unita al corpo da un elemento di raccordo, che dobbiamo pensare come raffigurazione schematica di un collo; la soluzione compare già in alcuni esemplari della fine del III a.C. ma si generalizza in questa fase. Altri esemplari vedono il cerchio sostituito da un semicerchio o da un motivo ad arco, secondo uno schema che si riscontrerà in modo generalizzato ad El Kenissia (I d.C.).

Con l’uso generalizzato di inquadramenti architettonici, i simboli appaiono sempre collocati su una base, generalmente un altare a gola egizia anche se sono previste varianti, mentre scompaiono totalmente le stele con il segno lasciato libero in un campo vuoto. Lo sviluppo delle inquadrature architettonica porta, in alcuni casi, ad insoliti effetti grafici come una stele in cui il “segno di Tanit” sembra sorreggere, a modo di Telamone, una complessa trabeazione. La progressiva antropomorfizzazione del simbolo non deve però far dimenticare che esso rimane un’immagine della divinità e non pare essere utilizzato per raffigurare oranti od offerenti nonostante l’immagine stessa possa ricordarli. Una conferma in tal senso è offerta da alcuni esemplari in cui essa appare affiancata da simboli che partecipano ad affermare la sua natura divina: è il caso dei simboli astrali posti direttamente al di sopra del segno o dei caducei che lo incorniciano lateralmente. Dal punto di vista tecnico prevale il rilievo, spesso integrato da elementi incisi e risulta attestata anche la semplice incisione.

L’”idolo-bottiglia”

 L’”idolo-bottiglia” è insieme al “segno di Tanit” il motivo iconografico più caratteristico dell’arte punica; a differenza di quest’ultimo, la cui presenza nel tophet di Sousse è alquanto limitata, l’”idolo-bottiglia” è il simbolo in assoluto più diffuso, sia cronologicamente sia percentualmente, sulle stele del santuario. Come per il “segno di Tanit” pare opportuno presentare una breve analisi sull’origine e l’interpretazione del simbolo, in questo caso ancor più complessa e dibattuta rispetto al precedente. Per una questione di comodo si ripropone la sintesi presentata a suo tempo da S. Moscati, integrandole con la successiva proposta, avanzata dallo stesso studioso: – Il motivo deriverebbe dagli “idoli a violino” del neolitico cicladico. – L’immagine sarebbe lo sviluppo di un simulacro aniconico. – Si tratterebbe di un betilo interessato da processi di umanizzazione. – Sarebbe una raffigurazione dell’urna contenente le ceneri. – Si tratterebbe dell’immagine del fanciullo deificato tramite la pratica sacrificale. – Si tratta di una stilizzazione di figure femminili velate di matrice egittizzante.

Da questo schema appaiono evidenti la complessità e le incertezze che accompagnano questo simbolo; probabilmente nessuna fra queste teorie coglie pienamente nel segno e l’origine dell’”idolo-bottiglia” è conseguenza di processi di sintesi molto complessi. La tesi proposta da Moscati di vedere nel simbolo l’astrazione di una divinità femminile, in modo analogo al “segno di Tanit”, sembra la più convincente anche in mancanza di prove certe a riguardo. Un esemplare ha come base un fiore di loto molto stilizzato. L’”idolo-bottiglia” compare a Cartagine alla fine del VI a.C. e la sua fortuna nella metropoli sembra esaurirsi verso la fine del III a.C., di contro in altri centri (come Sousse) continuerà ad essere utilizzato con estrema frequenza fino ad età imperiale. Ritenuto a lungo frutto della speculazione religiosa cartaginese il simbolo parrebbe, in realtà, risalire a modelli orientali come attesta una stele funeraria da Azkiv databile probabilmente agli inizi del VI a.C.. L’origine dell’”idolo-bottiglia” è probabilmente da ricercare nella dialettica fra iconico ed aniconico che pervade la cultura punica e che si è già evocata a riguardo del “segno di Tanit”, in tal senso si muovono sia Moscati che la Picard, pur giungendo a risultati molto diversi. Moscati parte da una stele moziese raffigurante una figura femminile velata con le braccia distese lungo il corpo secondo un’iconografia egittizzante altrove attestata nel mondo punico, il cui profilo è sostanzialmente analogo a quello dell’”idolo-bottiglia”. Partendo da questa suggestione ipotizza uno sviluppo analogo a quello seguito dal “segno di Tanit” riconoscendo possibili passaggi intermedi in stele africane, sarde e siciliane. Pur partendo da presupposti simili molto diverse sono le conclusioni a cui giunge Colette Picard.

La studiosa francese pensa di poter far derivare l’”idolo-bottiglia” da una stilizzazione dell’immagine del fanciullo offerto in sacrificio e divinizzato attraverso la pratica sacrificale. La studiosa porta come prove la stretta somiglianza fra il profilo dell’idolo cartaginese e le immagini di bambini in fasce offerti come ex voto in santuari etrusco italici, specie a Vulci. Un’ulteriore conferma a detta teoria verrebbe, stando alle considerazioni della Picard, dal progressivo ridursi fino alla scomparsa dell’”idolo-bottiglia” a partire dal IV a.C. in concomitanza con la riduzione percentuale di ossa umane nelle urne del tophet e al diffondersi dei sacrifici di sostituzione.

 Con la cessazione dei sacrifici umani sarebbe scomparso anche l’”idolo-bottiglia” in quanto immagine simbolica dell’infante offerto agli Dei. Ad una più approfondita analisi l’ipotesi della Picard sembra poggiare su basi prive di sostanziale solidità e presenta numerosi passaggi non pienamente convincenti. A lasciare perplessi non è tanto la piena adesione all’ipotesi sacrificale che potrebbe essere agevolmente aggirata pensando all’immagine del bambino prematuramente morto, deificato dal rituale iniziatico-funerario, senza cambiare sostanzialmente gli elementi in gioco, quanti gli stessi elementi di fondo che sorreggono la teoria. In primo luogo i confronti additati rimandano a contesti storico-culturali molto diversi rispetto a quello punico. Gli stretti contatti esistenti fra Cartagine e gli etruschi non bastano a spiegare influenze così dirette e soprattutto risulta difficile credere che uno dei simboli più profondamente radicati nell’immaginario punico – connesso a pratiche rituali fortemente caratterizzate come componente primaria della propria identità – possa derivare da modelli etruschi.

L’altro punto avanzato dalla studiosa francese è la sostanziale coincidenza cronologica fra la diffusione dell’”idolo-bottiglia” e la presenza di ossa umane combuste nelle urne del tophet e della sostanziale scomparsa del simbolo a partire dalla fine del III inizi – II a.C. in concomitanza con l’affermarsi dei sacrifici di sostituzione. L’ipotesi viene però facilmente contraddetta se si amplia lo sguardo ad altri centri al di fuori di Cartagine. In questi contesti – a cominciare proprio da Sousse – non solo il simbolo non sparisce all’inizio del II a.C. ma si afferma con sempre maggior convinzione fino ad assumere una posizione di assoluto dominio statistico in età neopunica.

 Quest’ultimo elemento tende a togliere fondamento alle già fragili basi di questa proposta. Allo stato attuale della ricerca appare preferibile accettare, pur con tutte le incertezze del caso, l’ipotesi avanzata da Moscati. Con il passare del tempo l’immagine subisce profonde trasformazioni orientate generalmente in due direzioni: la riconquista della dimensione antropica e la confusione con la raffigurazione di un contenitore. Una terza via, caratteristica del tophet di Hadrumetum è la fusione con lo schema della triade betilica. A Sousse il simbolo compare a partire dal III livello del tophet (fine del IV – inizi III a.C.), momento in cui gli schemi simbolici di origine cartaginese si diffondono in città. Lo schema presenta generalmente la forma di un vaso a collo stretto, spesso terminante in un elemento circolare, con spalle arrotondate e collo rastremato. Di notevole interesse un esemplare caratterizzato dall’incisione di un motivo a X nel quale si è voluto vedere la stilizzazione di un elemento di vestiario e quindi una traccia dell’origine antropica del simbolo.

Le successive fasi del IV livello e quelle del successivo (III-I a.C.) non mostrano particolari trasformazioni del simbolo che viene riprodotto in forme sempre più stereotipate; le possibili variazioni: altezza del collo, larghezza della base o delle spalle, sembrano dovute più alle differenze di stile e qualità delle singole botteghe che a variazioni di significato. Da questa produzione standardizzata si distingue un esemplare il cui profilo assume un’insolita forma a campana, che può ricordare il profilo di una figura ammantata (III a.C.). Il simbolo subirà profonde trasformazioni nelle stele datate alle più tarde fasi di vita del santuario (I a.C. – II d.C.), trasformazioni profonde che investono la stessa semantica del simbolo e che sembrano documentare – a differenza di quanto attestato per il “segno di Tanit” – la perdita degli originali valori simbolici.

Emblematico in tal senso un gruppo di stele in cui il simbolo è inteso ormai come l’immagine di un vaso. Il profilo può essere perfettamente analogo a quello delle urne usate nel livello, oppure corrispondere a quelli dei balsamari o degli unguentaria usati nelle pratiche rituali. L’evoluzione più caratteristica è però quella che porta ad un “idolo-bottiglia” caratterizzato da corpo rettangolare, privo di rastremazione verso il basso, spalle rettilinee, collo marcato generalmente chiuso da un tratto orizzontale. Il nuovo simbolo ha in realtà solo una generica somiglianza con l’”idolo-bottiglia” tradizionale – con il quale è però probabile potesse venir frequentemente confuso – e presenta un’origine completamente diversa. Nasce infatti per semplificazione della triade betilica con la scomparsa delle linee verticali che delimitavano i singoli elementi. Il punto di arrivo di questo processo sono alcune stele con coppie o triadi di “idolibottiglia” testimonianza evidente della sostanziale corrispondenza fra l’idolo e la triade betilica nelle ultime fasi di vita del santuario.

NB Le fotografie hanno valenza indicativa e posso raffigurare stele provenienti da altri santuari tophet (in specie Cartagine e Mozia) per cui esiste miglior documentazione fotografica.

Stele con “Segno di Tanit”. (Tophet di Cartagine)

Stele betilica (tophet di Cartagine)

Stele con “Idolo Bottiglia” (tophet di Mozia)

Dramma lirico in quattro atti Libretto di Temistocle Solera dall’omonimo poema di Tommaso Grossi
Musica di Giuseppe Verdi

Arvino                                 Giuseppe Gipali
Pagano                                Alex Esposito
Viclinda                               Lavinia Bini
Giselda                                Angela Meade
Pirro                                    Antonio Di Matteo
Priore                                  Joshua Sanders
Acciano                               Giuseppe Capoferri
Oronte                                 Francesco Meli
Sofia                                    Alexandra Zabala
              
Direttore d’orchestra   Michele Mariotti
Regia                               Stefano Mazzonis di Pralafera
Scene                               Jean-Guy Lecat
Costumi                          Fernand Ruiz
Luci                                 Franco Marri
Maestro del coro          Andrea Secchi
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Nuovo allestimento
in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège

 

I lombardi alla prima crociata” tornano al Regio dopo un’assenza di ben novantadue anni, quasi incredibile se si pensa alla popolarità che almeno alcuni brani di quest’opera hanno sempre avuto anche presso il grande pubblico e vi torna con uno spettacolo bifronte fra plausi per la resa musicale e perplessità per quella visiva.

Conviene togliersi subito le dolenti note. I miei lettori sapranno che sia sempre stato sostanzialmente a favore delle regie tradizionali, rispettose dei libretti e delle coordinate storico-geografiche ma quella proposta non è tanto una produzione tradizionale quanto una produzione deludente, di una tradizione che diventa mera oleografia (per altro senza neppur riuscire in questo) rinunciando a essere teatro. Le scene sono quinte architettoniche dipinte con qualche accenno romanico (per il I atto) o islamico (nel prosieguo della vicenda) troppo povere ed essenziali per riuscire a trasmettere l’incanto dei fondali dipinti di un tempo a prescindere dalle necessità di riadattamento di un allestimento nato a Liegi per “Jerusalem” e qui riutilizzato per la precedente versione italiana non sempre corrispondente negli ambienti al rifacimento francese. Sontuosi e a loro modo apprezzabili i costumi di Fernand Ruiz ma totalmente impropri per la vicenda che risultava trasportata dal Levante medioevale in un immaginario di paese da saga fantasy dove i saraceni assomigliavano ad una sorta di elfi dagli improbabili copricapi (ma in fondo tutta la regia mostrava slittamenti in tal senso basti ricordare come i tre anni trascorsi nel deserto trasformino l’aitante e giovanile Pagano del I atto in Gandalf il grigio); costumi più adatti a”Oberon” o “A Midsummer Night’s Dream” (per limitarsi a cercare paragoni nobilitanti) che alle atmosfere di Grossi e Verdi. Parlare di regia è poi quasi superfluo riducendosi questa a poche trovare il più delle volte non felici: Pirro che incombe minaccioso su Pagano nel finale prima anziché stargli prigioniero accanto, la battaglia sostituita dalla proiezione di un estratto del “Aleksandr Nevskij” di Ėjzenštejn (difficile trovare quale cosa di più antitetico allo spirito del momento), il ricomparire di tutti – defunti compresi – a celebrare la vittoria finale ma in fondo si sa che a cartoonia non muore mai nessuno, il bellissimo effetto dell’epifania di Gerusalemme previsto per il finale anticipato al III atto e quindi totalmente bruciato.

Fortunatamente la qualità della parte musicale faceva rapidamente dimenticare le pecche di quella visiva. Michele Mariotti non teme una certa asprezza della partitura e non si tira indietro davanti ad una struttura granitica, fatta di contrasti violenti come quelli dei rilievi romanici illuminati dalle torce nelle cattedrali del tempo ma al contempo mantiene sempre la giusta traiettoria e riesce a far risaltare per contrasto quei momenti in cui la scrittura verdiana tende a distendersi e raffinarsi (interludio nel III atto, accompagnamento di alcune arie).

Difficile immaginare Oronte migliore di Francesco Meli. La voce è semplicemente splendida per qualità naturali ed arricchita da un’emissione esemplare che ne fa risaltare al meglio tutte le sonorità. La linea di canto è curatissima così come il gioco dinamico, la cura per i dettagli del fraseggio, il perfetto controllo del fiato e della schietta comunicativa della miglior tradizione tenorile italiana. Il risultato è un Oronte di un lirismo nobile e appassionato che trova il su momento più alto nel duetto del III atto, splendido per intensità ed eleganza di canto.

Al suo fianco Alex Esposito è l’interprete ideale per Pagano. La voce da autentico basso-baritono gli permette di dominare una tessitura particolarmente scomoda nella sua ambiguità, ancora legata a quelle tipologie vocali primo ottocentesche che in seguito verranno superate anche per gli sviluppi del melodramma verdiano. E proprio la lunga esperienza belcantista permette a Esposito di cogliere pienamente la natura di Pagano sia sul versante vocale che su quello interpretativo tratteggiando un personaggio complesso e tormentato, protervo e dolente ma sempre nobile, elegante, senza nessuna inutile platealità. Le prove di Mariotti, Meli ed Esposito confermano ulteriormente come la formazione e la prassi belcantista siano essenziali per cogliere l’autenticità delle opere giovanili di Verdi.

La Giselda di Angela Meade lascia invece qualche maggior dubbio. La voce è impressionante per robustezza e presenza tale da permettergli di superare con la più apparente facilità una delle parti più impervie pensate da Verdi ma questo straordinario materiale naturale avrebbe bisogno di un controllo maggiore riscontrandosi un vibrato non troppo piacevole e una tendenza in alcuni passaggi a sconfinare nell’urlo. Rispetto ai colleghi l’interprete è più generica, più a suo agio nei momenti più concitati ed estremi (il punto più alto della sua prova è stato sicuramente il “No!… Giusta causa non è d’iddio”) che in quelli più lirici dove si notava una certa mancanza di morbidezza resa ancor più evidente dalla lezione offerta in tal senso da Meli.

Bella presenza vocale e ottimo squillo l’Arvino di Giuseppe Gipali, efficace pur con un’emissione correggibile il Pirro di  Antonio Di Matteo e autentico lusso la presenza di Lavinia Bini (Viclinda) e Alexandra Zabala (Sofia). Completavano il cast Giuseppe Capoferri (Acciano) e Joshua Sanders (Il priore di Milano). Quasi superfluo ribadire l’ottima prova del coro, molto impegnato e a cui Verdi affida alcune delle pagine più celebri dell’opera. 

Autentico trionfo per tutti gli interpreti, una giornata di sole musicale fra le cupe tenebre che si addensano all’orizzonte per il futuro del Teatro Regio.

I Lombardi [1798]

I Lombardi [1979]

I Lombardi [1942]

I Lombardi [2185]

Imagines Deorum. Nike

Dea della vittoria – la concezione di considerarla una personificazione poi oggetto di culto cara agli studiosi del XIX secolo appare poco convincente – dispensatrice di dolcezze (come la definisce Bacchilide) Nike ha sempre avuto un’importanza secondaria nel culto (autonomo solo da ellenistica) ma una centralità assoluta nell’immaginario figurativo. Fra le divinità olimpiche e quella la cui iconografia rimane più costante nel tempo e nello spazio nonostante il cambiare degli stili. Una giovane donna con quattro – poi due – ali indossante lunghe vesti che il vento fa aderire al corpo.

Gli elementi essenziali li ritroviamo già nell’attestazione più antica, quella in marmo da Delos opera di Archermos. L’idea del rapido volo è reso qui con il tipico schema arcaico della corsa in ginocchio con il corpo in veduta laterale e le ali e il volto resi frontalmente. La Dea indossa una lunga veste con cintura e un diadema fra i capelli, le quattro ali falcate – due più grandi e due più piccole – sono derivate da prototipi anatolici o fenici. Questo schema ritornerà a lungo nel corso del VI a.C. e con poche varianti lo si ritrova ad esempio in un gruppo di Nikai dall’acropoli di Atene dove però la solidità originaria si stempera nella raffinatezza attica con cui sono resi panneggi e chiome. Ancora intorno al 490 a.C. non doveva essere molto diverso lo schema della Nike votiva eretta a Maratona per celebrare la vittoria sui persiani.

Limitata e spessa incerta la sua presenza nella ceramica dipinta dove spesso è difficile distinguerla da altre figure femminili alate come Iride. La sua figura appare però certa su una coppa laconica da Cirene dove in volo accompagna un cavaliere e su uno skyphos tardo-corinzio di analogo soggetto.

E’ invece proprio la pittura vascolare che a partire dallo stile severo ci attesta le nuove e più originali concezioni della figura eco di soluzioni adottata in primis dalla grande pittura e solo faticosamente fatte proprie dalla plastica. La libertà che la pittura concede permette di superare gli schematismi dell’arte arcaica per far muove la Dea con assoluta liberta nel suo spazio aereo. Il Pittore di Berlino è il capofila di questa nuova tendenza, nella sua produzione Nike compare con regolarità – almeno dieci volte da sola – e con un gran numero di attributi che specificano il tipo di vittoria di cui è apportatrice dall’alloro delle vittorie militari alla cetra per i vincitori degli agoni musicali. In altri casi assiste altre divinità in pratiche rituali e sacrificali facendo propri come attributi la phiale e il thymiatherion. Le Nikai del pittore di Berlino fluttuano con naturalezza nello spazio, senza più le costrizioni delle loro consorelle arcaiche.

La lezione del Pittore di Berlino è fatta propria da tutta una generazione di ceramografi fra stile severo e prima classicità sia quando è stante sia quando compare all’interno di scene più complesse. Il Pittore di Argo la raffigura con la coppa e il kerykeion fra Zeus e Poseidon mentre in una coppa di Brygos entra a far pare del cerchio delle divinità eleusine; infine in un’hydria del Pittore di Leningrado incorona i vincitori di una gara di vasai. Maggiormente connessa al valore militare della vittoria una coppa di Douris a Berlino dove appare ad un guerriero o l’esemplare ricordato da Beazley in cui è armata con scudo ed elmo. Insolita la Nike aptera del Pittore di Euergides che forse trasmette l’iconografia della statua di culto del tempio di Atena-Nike sull’Acropoli ricordata da Pausania (I, 22, 4) dove l’assenza delle ali era connessa alla sua identificazione come ipostasi di Atena.

La plastica degli inizi del V a.C. rinnova la tradizione arcaica senza rompere completamente con essa come attesta la Nike di Callimaco. Un primo superamento della corsa in ginocchio a favore del gesto dell’atterraggio si ritrova in una Nike da Paros con il piede poggiato a terra e le vesti fluttuanti a rendere il tema e in un esemplare del Museo Capitolino di provenienza magno greca che però conservano ancora una certa durezza di tradizione arcaica.

Probabilmente al pieno stile severo si data l’introduzione del tipo della Nike auriga ricordato a Cirene (opera di Kratisthenes) e Olimpia (Pythagoras di Reggio) destinato a enorme fortuna nella ceramografia e nelle arti minori fino a tutta l’età ellenistica (orecchini da Taranto e dal Chersoneso Taurico).

Come per quasi tutti i soggetti divini saranno i cantieri fidiaci a dare il più significativo colpo d’ala all’evoluzione del tema. Purtroppo gran parte delle opere sono conosciute solo in modo indiretto, così le Nikai che accompagnavano Atena e Zeus nelle statue criso-elefantine di Atene e Olimpia dotate di corone auree removibili. L’immagine di Nike in scala ridotta rispetto ad altra divinità diverrà una formula comune nei rilievi e nella ceramografia attica della seconda metà del V e del IV a.C. forse proprio per suggestione del paradigma fidiaco. Conservata è invece la figura sul frontone orientale del Partenone dove compariva fra Zeus ed Hera vestita con peplo fermato da una cintura anziché dal più canonico chitone con mantello.

Nei decenni successivi Paionos di Mende con la Nike di Olimpia celebrante la vittoria dei messeni e dei naupatti su Sparta riprende lo schema già visto nella Nike di Paros portandolo a perfezione assoluta (essendo già stata trattata in dettaglio si rimanda a https://infernemland.wordpress.com/2014/01/06/le-contese-della-bellezza-commissioni-artistiche-e-lotta-politica-nella-grecia-del-v-a-c/).

La documentazione epigrafica attesta una serie di Nikai erette sull’acropoli ateniese fra il 434 e il 410 a.C., di queste nulla si conosce sul piano iconografico ma si può pensare che abbiano influenzato le figure del fregio di Atena Nike realizzate fra il 409 e il 406 a.C. dove appaiono in funzione di sacrificanti.

La plastica del IV a.C. non presenza particolari novità rispetto a quella del secolo precedente di cui continua a rielaborare le creazioni principali. Le Nikai acroteriali del tempio di Epidauro attribuibili alla bottega di Timotheos rielaborano con gusto marieristico la Nike di Paionios mentre la base attica dalla Via dei Tripodi di Atena presenta solenni Nikai con patere in cui ancora traspare un gusto post-fidiaco.

Nell’ultima ceramica figurata appare soprattutto in relazione ad altre divinità, si afferma il tipo della Nike auriga per Zeus ma anche per Eracle in occasione della sua apoteosi e sempre al fianco dell’eroe appare in un Aryballos da Melos con il giardino delle Esperidi. Su un’anfora sempre da Melos affianca Zeus nella gigantomachia. Nello stile fiorito tardo attico viene a volte associata alla sfera di Afrodite di cui guida il carro con cui la Dea si reca al giudizio di Paride quasi a incarnare il potere vittorioso della bellezza femminile. In ambito apulo compaiono busti di Nike con piccole ali sporgenti dalle spalle.

Un’importante serie di novità si afferma invece in età ellenistica. Se a Pergamo la figura di Nike che incorona Atena sul fregio della gigantomachia deriva ancora da motivi di piena età classica riletti con il gusto virtuosistico del tempo sarà a Rodi che lieviteranno le maggiori novità.

L’immagine simbolo della Dea per l’età ellenistica è infatti quella eretta dai rodi a Samotracia per celebrare la vittoria all’Eurimedonte contro Antioco III. Posta su una base a forma di prora rostrata la Nike sembra guidare la nave alla battaglia, il vento marino agita il panneggio facendolo aderire al corpo che emerge in tutta la sua sontuosa bellezza mentre la curva delle ali – ormai pienamente realistiche e lontane da ogni astrazione tipologica – si allungano domando alla figura un senso di irresistibile slancio. Concezione simile – anche nella struttura del monumento navale di sostegno – presenterà la successiva Nike dell’agorà di Cirene. La fortuna del soggetto è confermata dalle numerose copie o varianti attestate nella piccola plastica – fra cui un esemplare a torso nudo nei Musei Vaticani – nonché negli acroteri del Monumento dei Tori a Delos.

Era invece rappresentata in volo la Nike di Megara ma se l’impianto è ancora tardo classico totalmente nuovo è il trattamento del panneggio barocco e impetuoso. Al tardo ellenismo neo-attico si data invece l’introduzione di un tipo arcaicizzante che avrà grande fortuna nei monumenti dei Citaredi e che sarà ripreso con una certa frequenza in età romana.

VICTORIA

Rare le attestazioni della figura nell’Italia pre-romana e in Etruria, su alcuni specchi etruschi appare insolitamente nuda per associazione con figure alate della tradizione locale come le Lase.

La Vittoria romana raramente si distacca dai tipi elaborati in età ellenistica. Tali rimangono l’abbigliamento, il tipo delle ali, gli attributi con l’aggiunta del ramo di palma – già conosciuto dall’arte greca ma ora usato con maggior frequenza – e del trofeo di armi. Il legame con la sfera militare e la libertà di collocazione spaziale ne fanno uno dei soggetti preferiti per la decorazione di archi trionfali e monumenti onorifici fino alla fine della classicità e oltre giungendo con variazioni di stile più che di sostanza fino alla prima arte bizantina – colonna di Onorio – attraverso tutta l’età imperiale romana: archi di Tito, Settimio Severo e Costantino.

Alla consacrazione augustea della statua di Victoria nella Curia Augusta risale l’introduzione del tipo della Vittoria in equilibrio con un solo piede sul globo terrestre che a partire da Probo verrà adottato anche come insegna imperiale. La versione più fedele – purtroppo mutila degli attributi – è stata riconosciuta in una statuetta da Cirta mentre l’esemplare di Kassel da Fossombrone pur presentando alcune varianti di impostazione conserva il globo d’appoggio.

Una caratteristica dell’epoca romana è la trasformazione in Vittoria di immagini originariamente diverse, il caso più noto è quello dell’Afrodite di Brescia trasformata in Vittoria in epoca flavia con l’aggiunta delle ali (vedi https://infernemland.wordpress.com/2014/04/17/lafrodite-vittoria-di-brescia-qualche-considerazione/) il cui tipo ricompare anche sulla colonna traiana e sulla base dei decennali di Diocleziano. Altra tipologia oggetto di simile adattamento è quella delle saltantes Lacaenae di Kallimachos che appaiono trasformare in Vittorie su candelabri e decorazioni di corazze.

Nike di Archermos da Delos

Nike con cetra da un’hydria del Pittore di Berlino.

Nike dei Rodi dal santuario del Grandi Dei a Samotracia

Immagine della Vittoria (tipo Afrodite Vittoria di Brescia), particolare del rilievi della Colonna Traiana

Il Foro: considerazioni generali

 Il foro risulta posizionato al centro dell’area urbana, in stretta connessione con il sistema viario. Il decumanus maximus, tratto urbano della via Emilia Gallica proveniente da Verona verso Milano, attraverso il foro, dividendo l’area sacra sopraelevata occupata dal Capitolium dalla piazza del foro; a sud della basilica doveva collegarsi al cardo maximus, che proseguiva verso Cremona. La posizione del foro, in stretta connessione con i principali assi viari della regione, è collegata al ruolo commerciale di primaria importanza che la città doveva avere fin da età protostorica.

 All’inizio del II secolo a.C. venne costruito un primo tempio monumentale, nell’area successivamente occupata dal santuario tardorepubblicano, e infine dal Capitolium flavio, forse in occasione del primo trattato fra i Cenomani e Roma (194 a.C.). Si trattava di un edificio in opera quadrata con atrio scoperto lastricato ; una struttura di questa monumentalità richiedeva per la sua fruizione uno spazio aperto antistante, questo testimonierebbe la destinazione a spazio aperto pubblico di quest’area già al tempo dell’oppidum gallico.

 I dati archeologici  raccolti testimoniano che l’edificio venne demolito in occasione della costruzione del santuario tardo repubblicano, probabilmente intorno alla metà del I secolo a.C..

 In età augustea la città fu interessata da numerose iniziative edilicie che riguardarono anche l’area del foro: interventi di restauro nel santuario repubblicano, la pavimentazione della piazza , il teatro, la possibile costruzione di portici e botteghe ai lati della piazza e forse la primitiva basilica .

 L’aspetto definitivo della piazza verrà raggiunto in età flavia. La quota della terrazza templare, su cui viene costruito il nuovo Capitolium viene rialzato di circa 3 m, lo stesso innalzamento riguarda la platea forense. La piazza del foro viene completamente isolata rispetto alla circolazione viaria, i portici del tempio e quelli della piazza si collegano fra loro, rispecchiando la volontà di riunire in un locus celeberrimus tutti gli organismi civili e cultuali della città .

 Tale concezione era enfatizzata dalla naturale pendenza dell’area, sul lato sud la luminosa basilica-portico introduce nella piazza forense, che sale progressivamente verso il decumanus maximus, una serie di raccordi collega le varie sezioni del portico, quindi la terrazza del Capitolium elevata di 8 m rispetto alla piazza, al fondo la sagoma del colle Cidneo anch’esso coronato da un edificio templare. E’ stato giustamente osservato che questa disposizione “ rivela la componente pergamena nella cultura degli urbanisti operanti in Transpadana” ; tanto da far definire il complesso bresciano “il più ellenistico dell’Italia settentrionale” .

La platea forense

La platea forense si presenta come un rettangolo, fortemente allungato in senso N, dalle dimensioni di 120 m X 40 m, ed un rapporto di 1:3; gli scavi recenti hanno confermato l’intuizione di Frova sull’arcaicità delle dimensioni del foro bresciano; questo parrebbe confermare l’antichità dello spazio bresciano, forse già presente nell’insediamento gallico, con una prima monumentalizazzione risalente ad età augustea.

Le strutture archeologicamente note sono quelle del radicale intervento di epoca flavia, ma scavi recenti hanno riportato in evidenza, ad E del podio del Capitolium, resti di un robusto battuto di pietre e malta, che potrebbe essere interpretato come il pavimento della piazza in età augustea.

La piazza iniziava a nord, con un dislivello di 8 m dalla terrazza capitolina, dalla quale di discendeva al livello del decumanus maximus, con una scalinata larga almeno 6 m, e forse divisa in due rampe.  Procedendo verso Sud la piazza presenta un dislivello di altri 4,50 m, probabilmente risolto con piani di raccordo.

La piazza era cinta da portici, che collegandosi con quelli della terrazza templare, trasformavano la piazza in uno spazio chiuso, aperto solo al traffico pedonale, e dominato dalla monumentale struttura del Capitolium. Questo genere di soluzione trova origine nel modello di alcune piazze ellenistiche in cui portici e tempio risultano strettamente connessi, si vedano il mercato nord di Mileto e il santuario di Zeus Soter a Megalopoli. In epoca flavia questa concezione dello spazio trova un significativo riscontro nel Forum Pacis, la cui costruzione e leggermente posteriore al complesso bresciano. La viabilità era garantita da due fornici, in corrispondenza del decumanus maximus, rialzati di tre gradini rispetto alla strada e quindi preclusi al traffico veicolare, sul lato sud la basilica poteva forse servire come ingresso monumentale al foro. I fornici si presentavano come arcate su pilastri che interrompevano il ritmo orizzontale dell’architrave del colonnato, con una soluzione che trova confronti solo nelle più ardite sperimentazioni delle vie colonnate di Apamea e Palmyra.

Il portico era formato da colonne monolitiche in cipollino (diametro 0.67 m, altezza con base e capitello 6.33 m, intercolumnio 2,90 m); la trabeazione in un unico pezzo per ciascun intercolumnio (3,23 m), era ornata di lacunari e presentava una cornice aggettante tanto all’interno quanto all’esterno. In corrispondenza delle colonne la trabeazione presenta un maggior aggetto; motivo nuovo introdotto dall’architettura flavia che articola le membrature architettoniche e situa le colonne su plinto addossate alla parete con leggero stacco in modo che l’architrave e la cornice vi girino sopra per poi riprendere il normale andamento del muro.

Questo risalto è stato interpretato dal Gabelman come testimonianza di un ordine superiore sull’esempio di Zara; questa ricostruzione si scontra però con la necessità di raccordo con i portici della terrazza capitolina; più probabile la presenza di un attico come proposto da Mirabella Roberti e condiviso da Frova.

Gli architravi sono a tre fasce, senza ornamenti; i lacunari presentano un fiorone centrale e gli steli fiancheggiati da semipalmette, uscenti dal cespo d’acanto nascente dall’imposta della colonna; i frammenti scultorei di architrave sono certamente pertinenti al portico dalla modanatura del risalto, corrispondente al colonnato.

Alle spalle del colonnato era un portico (5 m di profondita), sul quale si apriva una serie di tabernae, l’unico vano pertinente ad esse fino ad ora rinvenuto aveva una profondita di 7, 40 m, la larghezza attualmente visibile è di 5,50 m. Presentavano pavimento in cocciopesto rivestito da lastre e perimetrali interni in corsi di sesquipedali; null’altro si può dire, allo stato attuale delle ricerche di dette strutture.

Recenti scavi hanno rivelato, al di sotto dei portici di età flavia, resti di strutture in blocchi ben squadrati, nonché frammenti di intonaco dipinto e di un mosaico policromo, forse pertinenti alle strutture di epoca augustea.

All’interno di un isolato, collocato ad ovest del foro, ma strettamente connesso ad esso, sono emersi i resti di un grande edificio termale: strutture complesse pertinenti a vasche, un calidarium, resti di un ipocausto con relativo praefurnium. Detta struttura costruita nel I d.C. rimase in uso almeno fino al IV d.C.

La basilica

Il limite meridionale della platea forense è occupato, in epoca flavia, da una basilica di notevole monumentalità, ben nota per quanto riguarda il prospetto delle facciate ma assolutamente priva di dati per quanto riguarda l’organizzazione interna.

La basilica occupava completamente il lato lungo meridionale del foro, in posizione speculare rispetto al complesso templare, secondo uno schema ben attestato in Cisalpina .

            Le facciate si sviluppavano con una alternanza di porte e finestroni, con una porta al centro e procedendo verso le ali una scansione ritmica di tre finestre, una porta, tre finestre, diaframmate da alte lesene corinzie sorreggenti la trabeazione. Tale ricchezza di aperture risulta abbastanza insolita per una basilica, spazio chiuso complementate a quello aperto del foro, e di conseguenza portato ad una minor accessibilità ed a una più rigorosa chiusura, per garantire il necessario isolamento dell’edificio . Questa ricchezza trova un possibile confronto con la basilica di Doclea , con quattro porte inquadrate da colonne libere architravate e intervallate da pareti con profonde aperture superiori ed una finestra al livello di ciascun portale.

Non vi è nessuna certezza per quanto riguarda l’organizzazione interna del complesso. La ricostruzione fatta da Mirabella Roberti , convince per quanto concerne le dimensione della lunghezza del vano e dell’edificio nella sua totalità, molto meno per la sua organizzazione. La sua ricostruzione prevedeva una peristasi interna di 14 colonne per 5. Anche se basiliche a peristasi interna sono ben attestate, ad esempio Pompei, nessun dato archeologico sembra render possibile una tale impostazione nel caso bresciano, se non, forse, la dimensione della campata di 19.10 m.

Più convincente la ricostruzione proposta da Saletti , accettata anche da F. Rossi , rimasta la più probabile anche dopo gli ultimi scavi. Viene quindi ipotizzata un’aula unica, forse organizzata in tre ambiante da due file di due colonne ciascuna, corrispondenti alle paraste esterne delle due porte laterali. Detta soluzione trova confronto con quella analoga della basilica di Doclea, che presenta altri ternimi di confronto con quella bresciana; inoltre è più facile vada persa la documentazione di quattro colonne anziché di trentaquattro. In oltre in questo caso il rapporto nella lunghezza dei singoli ambienti di testata rispetto al vano centrale risulterebbe 1:3, lo stesso rapporto che ritorna come equilibratore della facciata . L’ipotesi dell’aula unica ben si lega, inoltre, a spiegare la trabeazione molto alta e quindi lo sviluppo in altezza di un’unica cortina muraria di facciata, con copertura a due spioventi e linea di displuvio parallela al lato lungo .

Il complesso presenterebbe una assoluta intercomunicabilità fra l’interno e l’esterno, cosa che a fatto supporre a Mansuelli  che servisse come ingresso monumentale al foro. Tale ipotesi trova un possibile precedente nella basilica Iulia di Corinto , che svolge anche la funzione di monumentalizzare l’accesso all’agorà romana.

Il possibile confronto con Corinto è stato ulteriormente confermato dagli ultimi scavi, come a Corinto esisteva una basilica di tipo tradizionale, così a Brescia, sotto la basilica flavia, si sono ritrovati due possenti muri paralleli, con andamento O-E, realizzati con un doppio paramento in pietre di varia pezzatura, disposte in corsi regolari, e con riempimento interno in opera cementizia. I resti interpretabili come pertinenti ad una struttura monumentale, probabilmente una precedente basilica, di tipo tradizionale, e vengono datati ad età augustea .

La decorazione architettonica

La ricca decorazione architettonica del complesso bresciano, rappresenta un insieme omogeneo, particolarmente significativo per la storia della scultura architettonica non solo in Cisalpina. Essa infatti rappresenta il primo esemplare sicuramente datato in Occidente di un nuovo modo di concepire l’ornato vegetale in funzione architettonica, come riconosciuto dal Blanckenhagen .

La precocità del complesso è ulteriormente confermata dalle discordanze in esso riscontrabili. Infatti, al fianco di differenze qualitative nella realizzazione tecnica, per altro assolutamente prevedibili in un complesso di così ampie proporzioni, e in parte legate al gusto locale, provinciale; se ne ritrovano altre di natura prettamente stilistica, con la convivenza, al fianco dei motivi innovatori tipicamente flavi, di altri di tradizione augustea e giulio-claudia . La coesistenza dei due stili è stata riconosciuta dal Gabelmann , il quale si limita però ha constatare che i presupposti dello stile flavio si trovano già in età tardoclaudia, e che nel complesso bresciano i due stili convivono.

La ricerca successiva  si è posta maggiori problemi, tra cui quello della ripartizione del lavoro, problema per altro molto spinoso. Infatti è possibile ipotizzare la presenza di maestranze urbane che eseguono i cieli delle architravi e i fregi, ed altre locali impegnate nella realizzazione di capitelli e cornici, legate ad un gusto più tradizionale e meno disposte ad aggiornarsi ai modelli esterni, ma non vi sono prove in tal senso, è la stesso gusto delle botteghe urbane non doveva essere completamente cambiato nel 73, agli inizio del nuovo stile.

Per altro le sculture del complesso forense, eseguite tutte in botticino, mostrano numerosi elementi di continuità con la produzione locale. L’uso del botticino, al fianco della pietra tenera di Vicenza, fin da datazione molto alta è attestato da un capitello ionico-italico di tarda età repubblicano , oltre che dal già citato rivestimento della terrazza capitolina, databile ad età augustea.

Fra l’altro i tre capitelli in situ (pronao del Capitolium, portico del foro  e lesena della basilica), presentano notevoli differenze stilistiche, tanto da far pensare a un lungo periodo di lavorazione, forse già cominciato prima dell’età flavia. Retrodatazione che urta con la data della vittoria di Bedriacum (69 d.C.), che si suppone determinante per l’inizio del progetto. Rimane dunque aperto il problema della presenza di un cantiere aperto prima del 69 d.C. (ma si potrebbe pensare anche solo ad un cantiere di restauro, i cui materiali possono essere stati riutilizzati nel nuovo complesso), anche se è inequivocabile che il progetto nel suo complesso possa cominciare solo nel 69 d.C., e attuarsi, anche con più fasi distinte, tra il 69 e il 73 d.C .

            Tra i numerosi frammenti di scultura architettonica si possono riconoscere alcuni gruppi più significati, pur essendo ancora necessaria una precisa ricognizione, rilevazione e schedatura di tutti i frammenti ritrovati

La basilica conserva buona parte della facciata muraria, scompartita da lesene a 7 scanalature, rudentate nella parte inferiore, con capitelli corinzi (molto mal conservati), nonché le cornici delle aperture e parte della trabeazione, che testimoniano le presenza di un ricco ordine applicato, la cui funzione decorativa era esplicata principalmente in termini geometrici .

            Nella decorazione del complesso grande importanza dovevano avere gli elementi bronzei, cornici ornate che dovevano contribuire in modo significativo alla resa coloristica dell’insieme. Un notevole gruppo di esemplari è stato ritrovato, si tratta di cornici di varie dimensioni, lisce o modanate, frequente la presenza di elementi decorativi a rilievo o ad agemina . La decorazione bronzea era completata da una ricca dotazione di grande statuaria, in gran parte conservata, tanto da fare dell’insieme dei bronzi ritrovati nell’area del Capitolium uno dei più ricchi del mondo romano, esso comprende la celeberrima Vittoria alata, cinque ritratti di cui uno femminile (Giulia di Tito o Domizia Longina) e quattro maschili (Settimio Severo, due ritratti di Marco Aurelio Propo, Claudio II il Gotico), da frammenti di una biga, nonché da elementi decorativi minori.

Le parti relative agli edifici di culto sono già state oggetto di specifiche trattazioni cui si rimanda.

 

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L’Arsinoe III di Mantova

Uno dei migliori ritratti ellenistici in bronzo è quello conservato a Mantova dal 1840, proveniente dall’Egitto e già nella collezione di Giuseppe Acerbi, regio-imperial console in Egitto dal 1826 al 1834.

Parte originariamente di una statua a figura intera si conserva oggi solo la testa, spezzata all’altezza del collo. A essere raffigurata è una donna matura dai tratti fortemente individuali nonostante l’inevitabile idealizzazione di un ritratto ufficiale. La fronte alta e bombata su cui risaltano le sopracciglia, l’arcata oculare ribassata sotto cui si aprono gli incassi per gli occhi in origine aggiunti in altro materiale, la bocca piccola, con le labbra carnose rivolte verso il basso, le guance piene e carnose e soprattutto il naso, lungo e affilato con una piccola ingobbatura a circa metà del dorso e radice con accentuata insellatura permettono di riconoscervi con sicurezza un ritratto di Arsinoe III Philopator moglie di Tolomeo IV Philopator e madre di Tolomeo V Epiphanes, regina fra il 217 e il 204 a.C.

L’acconciatura presenta due bande ondulate separate da una scriminatura centrale che scendono sulle tempie per poi essere spinte sul dietro della nuca dove sono raccolte in uno chignon attorto verso l’alto. Tanto l’acconciatura quanto i tratti del volto sono alquanto prossimi a una serie di ottadracme auree emesse da Tolomeo V nei primi anni di regno momento cui si può datare con verosimiglianze anche il ritratto mantovano quando il giovane sovrano celebrò con regolarità il ricordo della madre recentemente defunta; rispetto alle serie monetarie la maggior differenza è data dall’assenza della stephané.

Il ritratto rientra in una tipologia creata dal primo ellenismo e che proprio nell’Egitto Lagide aveva trovato le prime significative attestazione quella del ritratto femminile – sconosciuto all’età classica – di taglio sostanzialmente realista nonostante l’adattamento dei tratti individuali a  un gusto formale ed espressivo di derivazione classica. Un precedente di circa un secolo anteriore si può vedere nella bella testa menfita del museo di Boston identificabile forse con un ritratto di Arsinoe figlia di Tolomeo I e sposa di Lisimaco di Tracia sempre che non si tratti di un ritratto privato che fa propri moduli dell’iconografia ufficiale.

Rispetto a quest’immagine giovanile – e quindi più naturalmente propensa a un processo di rilettura in forme ideali – l’Arsinoe III di Mantova segna significativi passi avanti. Il volto solenne e maestoso della defunta regina acquisisce nel processo di idealizzazione classica un senso di pacata grandiosità che conferisce alla figura un’aura quasi divina pur senza modificarne i tratti individuali che restano perfettamente realistici; un primo passo di quell’integrazione fra realtà storica e ideale divino che ritroveremo nei successivi ritratti analizzati.

La provenienza della scultura è ignota anche se sicuramente si tratta dell’Egitto, qualche difetto di fusione tende a escludere una realizzazione nell’ambito delle officine auliche di Alessandria e potrebbe indicare una committenza privata o regionale riproducente un modello ufficiale.

La principessa dei Musei Capitolini

Alta circa 40 cm la testa in stile greco-egizio dei Musei Capitolini è fra le immagini più celebri del sincretismo culturale tolemaico. A essere raffigurata è una giovane donna dai tratti morbidi e aggraziati, il viso è ovale, le superfici nitidamente sfumate, gli occhi dal profilo leggermente allungato scavati per essere inseriti in altro materiale; la bocca piccola, carnosa, con le labbra dai margini rivolti verso l’alto quasi intente a un sorriso, piccolo e carnoso il mento.

L’acconciatura è forse l’elemento più caratteristico della figura. La giovane donna presenta infatti una parrucca di tipo “libico” dal trattamento palesemente non naturalistico in cui non vanno visti i capelli della giovane ma una parrucca d’apparato che la policromia originaria doveva ulteriormente evidenziare. Al di sopra della parrucca è un copricapo ad ali di avvoltoio al centro del quale un incavo circolare doveva servire come alloggiamento della testa dell’uccello verosimilmente in metallo.

L’opera datata su basi stilistiche al II a.C. – sono stati avanzati confronti con le sculture di Lykosoura per le caratteristiche del volto e lo sfumato delle superfici – risulta ampiamente rilavorata. Il collo è stato tagliato e si è creato un perno per inserirla in un corpo diverso; quest’operazione ha comportato anche un drastico taglio alle frange laterali della parrucca che dovevano scendere fino a seno come si può vedere in un’immagine di Arsinoe II in pietra scura e di fattura più esplicitamente egittizzante al Museo di Torino; evidenti trace di rilavorazione sono presenti anche sul retro della testa per adattarla a un’immagine a tutto tondo chiamata a sostituire una concezione originale di scultura-pilastro tipica del mondo tolemaico. Le rielaborazioni sono condotte con ottima capacità tecnica e mostrano una piena comprensione del soggetto, adattato ma non stravolto, il che indica con buona approssimazione un lavoro datazione all’età imperiale romana. L’inserimento di teste egittizzanti in corpi non pertinenti è attestato a Villa Adriana. L’uso del marmo pentelico e il forte classicismo che investe la figura fanno pensare a una scultura votiva realizzata in Grecia o nel Mediterraneo orientale e verosimilmente dedicata in qualche importante santuario isiaco. In specie l’uso del materiale tenderebbe a escludere una provenienza egiziana – dove l’uso del marmo pentelico è alquanto sporadico – pur di fronte a uno schema iconografico inequivocabilmente tolemaico.

Portata a Roma dall’originaria luogo di esposizione deve essere stata consacrata in un importante tempio cittadino, si è proposto al riguardo l’Iseium Metellinum edificato tra il 72 e il 64 a.C. I restauri potrebbero essere conseguenti ai danneggiamenti subiti dal complesso durante le repressioni contro i culti isiaci della primissima età imperiale mentre i restauri andrebbero datati al rinato interesse verso i culti orientali che si afferma a partire dall’età flavia e che raggiunge il suo apice nel II d.C.

Ancora incerta l’identificazione del personaggio raffigurato. L’acconciatura indica un sincretismo fra Iside e Nekhbet cui probabilmente va aggiunta in chiave greca Afrodite che come vedremo anche negli esempi successivi è strettamente connessa a Iside nel mondo tolemaico di contro è stato giustamente notato come nonostante la forte idealizzazione il volto presenti una propria individualità che trascende la semplice immagine ideale per avvicinarsi a un ritratto per quanto trasposto in forme divine. Ormai scartata l’identificazione con Berenice II per la differenza dei tratti fisiognomici e indimostrabile quella con Cleopatra I di cui troppo mal documenta è l’immagine appare comunque verosimile vedervi il ritratto ideale di una regina o di una principessa tolemaica assimilata a Iside.

La Cleopatra III – Afrodite di Rodi

Una statuetta da Rodi sicuramente derivata da un modello ufficiale alessandrino segno un passo significativo nello sviluppo dell’iconografia reale tolemaica in rapporto alle immagini divine.

La piccola scultura – ma qualitativamente di altissimo livello con punte di autentico virtuosismo nello sfumato del nudo e nella resa dei capelli – si presenta come una variante dell’Afrodite accovacciata di Doidalsas (anch’essa verosimilmente evocante un’assimilazione divina per una regina di Bitinia) riletta secondo un gusto greco-egizio ben riconoscibile nella struttura formale al di sotto del raffinato classicismo delle superfici. Il raffinato ritmo spiraliforme dell’originale micro-asiatico lascia qui spazio a una visione totalmente frontale in cui i piani costruttivi sono ribaltati per permettere una visione frontale del torso nonostante la presentazione di profilo degli arti inferiori, un antico stilema faraonico ancora pienamente vitale nonostante le forme greche.

Anche il pudico gesto dell’originale lascia qui spazio a un’esaltazione del luminoso nudo della Dea che si offre allo sguardo dello spettatore nell’assoluta imperturbabilità data dall’infinita distanza che la separa dagli astanti. Il gesto delle mani è insolito, se infatti si riprende il movimento dell’Anadiomene di stringersi i capelli con le mani – come nell’Afrodite di Cirene vedasi esemplare della Galleria Colonna – qui il gesto non è però quello di strizzarsi i capelli appena usciti dall’acqua ma quello di scioglierli dal diadema che ancora li ferma.

Praticamente invisibile frontalmente ma ben evidenziato da lato il diadema regale che le stringe i capelli è il primo, significativo indizio della natura regale del personaggio.

In questo l’identificazione non da problemi: la bocca piccola, le guance piene, il naso dal dorso largo che continua la curvatura delle arcate sopraccigliari, tutti elementi che ritroviamo nelle serie monetarie e sulla “Tazza Farnese” e che permetto di identificare sicuramente l’Afrodite di Rodi come un ritratto ideale di Cleopatra III Thea. L’identificazione della regina con la Dea è qui totale e rimanda a un più complesso sincretismo in quanto Afrodite deve essere intesa come Iside-Afrodite. Cleopatra III appare identificata come Iside sulla “Tazza Farnese” e lo schema della statuetta trova confronti con numerose immagini isiache come nel fregio del muro di cinta del tempio di Horus a Edfu (databile anch’esso agli anni di Cleopatra III e Tolomeo VIII)  in cui le suggestioni greche sono rilette in stile prettamente egizio e in un’edicoletta votiva del Museo di Torino che attesta la fortuna dello schema anche nell’ambito di un’arte prettamente popolare.

Mito e realtà si fondono in questa raffinatissima statuetta in cui si incarnano i valori più puri dell’arte tolemaica; il suo gusto elegantemente aneddotico, il gioco erudito dei sincretismi, la capacità di fondere in una nuova estetica perfettamente coerente le diverse tradizioni culturali del regno lagide.

Iside a Roma. Cleopatra VII e la Venere dell’Esquilino

La Venere dell’Esquilino ci porta agli ultimi bagliori dell’ellenismo ormai giunto al termine della sua parentesi storico – non culturale perché Roma è già e ancor più diverrà nella prima età imperiale un’autentica metropoli ellenistica – e alla più nota regina tolemaica, quella Cleopatra VII le cui vicende si sono impresse con un segno indelebile nell’immaginario collettivo.

Ritrovata nel 1874 durante gli scavi di Villa Palombara sull’Esquilino la Venere che dal colle prende identificativo rappresenta uno dei più luminosi esempi della cultura non solo artistica del tardo-ellenismo. I sicuri richiami alla sfera egiziana hanno da subito indicato a vedere in essa un’immagine di Afrodite – Iside o per alcuni forti tratti individuali l’immagine di una sacerdotessa isiaca assimilata alla Dea.

L’ipotesi avanzata da Paolo Moreno di vedere invece in essa un ritratto ideale di Cleopatra VII assimilata alla Dea come l’omonima antenata nonostante l’originalità della proposta appare allo stato attuale la più convincente.

L’immagine è quella di una giovane donna pronta a scendere nel bagno. Il corpo è nudo, luminosissimo nella politura delle superfici, un nudo nervoso lontano dalla morbidezza di tante Afroditi ellenistiche in cui è facile ipotizzare un elemento naturalistico, i seni piccoli, distanziati fra loro, i capelli raccolti con apparente disordine mentre l’assenza delle braccia impedisce di valutare il gesto compiuto. Al suo fianco un piedistallo fiorito sorregge un’anfora intorno alla quale è arrotondato il sacro serpente di Iside e sulla quale la Dea appoggia con noncuranza il mantello.

Per quanto idealizzati i lineamenti del volto sono quanto mai vicini al ritratto di Cleopatra a Berlino o a quello di Cherchell raffigurante la grande regina o la figlia Cleopatra Selene divenuta regina di Mauritania: mento leggermente prominente, labro inferiore carnoso contrastante con quello superiore più sottile e nervoso, ovale delle guance sfinato a triangolo, naso dal dorso largo le cui linee continua nell’arcata sopraccigliare, occhi allungati, fronte bassa coronata dalla caratteristica frangia di riccioli.

L’impostazione generale della figura è perfettamente coerente sul piano cronologico e fornisce indizi preziosi sul luogo di realizzazione. L’impostazione generale, la distanza fra i seni, le angolazioni nette a segnare le partizioni del corpo si ritrovano nell’Atleta di Villa Albani attribuito a Stephanos, scultore greco attivo a Roma e legato all’orbita cesariana.

Molti dettagli rimando all’Egitto e a una sfera più regale che divina. L’anfora è posta su un basamento rivestito di rose, sacre ad Afrodite ma non ignote al simbolismo isiaco, mentre egiziano e regale è il serpente che si avvolge all’anfora che fin dall’epoca di Tolomeo VI era stato recuperato come simbolo di regalità e di preciso collegamento con le tradizioni faraoniche. Sfuggente ma fondamentale il dettaglio dei sandali calzati dalla donna che contrasta con la perfetta nudità delle figure divine e riporta alla sfera prettamente umana cui apparteneva anche la regina.

Appare verosimile ipotizzare nell’opera un ritratto ideale di Cleopatra VII eseguito nella cerchia cesariana, probabilmente in occasione del soggiorno urbano della regina fra il 46 e il 44 a.C.; la presenza di frammenti derivati da copie del modello indica che l’opera doveva godere di una certa fortuna, elemento non frequente per una scultura contemporanea e che attesta il prestigio della commissione.

Ritratto in bronzo di Arsinoe III (Mantova)

Ritratto di principessa tolemaica come Iside-Nekhbet. (Roma, Musei Capitolini)

Cleopatra III come Afrodite-Iside (Rodi, Museo)

Cleopatra VII come Afrodite-Iside “Venere dell’Esquilino” (Roma, Centrale Montemartini)

L’integrazione fra arte e natura, fra naturale e costruito, la volontà di intervenire sulla natura trasformandola ma al contempo lasciando che l’intervento umano si integrasse in essa quasi fosse un’unica essenza è una delle caratteristiche più originali dell’arte ellenistica. Si presentano qui alcuni esempi – realizzati o rimasti a livello progettuale – di questa tendenza lasciando aperta la riflessione dei lettori su alcuni casi ancora incerti presenti sia in Oriente che in Occidente. Si tratta di pochi esempi di un’insieme molto più vasto e articolato di testimonianze alcune delle quali purtroppo irrimediabilmente perdute (pensiamo al rapporto con l’acqua che doveva caratterizzare la Tyché di Antiochia) altre così complesse e particolari da meritare una più approfondita trattazione di dettaglio (Sperlonga, Arsameia sul Nymphaios).

 L’Alessandro di Deinokrates

Un possibile precedente a questa tendenza si può forse ritrovare nell’incontenibile fantasia di Deinokrates contemporaneo di Alessandro e autore del piano regolatore di Alessandria. Al fianco della più tradizionali attività di architetto e urbanista conviveva in lui la personalità di un visionario. Vitruvio ricorda come avesse concepito il progetto di scolpire integralmente il Monte Athos trasformandolo in una statua colossale di Alessandro che reggesse con una mano su una città e con l’altra una coppa dalla quale le acque del monte si riversassero in mare. L’opera non fu ovviamente mai realizzata in quanto andavo oltre qualunque possibilità tecnica del tempo ma appare verosimile pensare non a una scultura a tutto tondo ma a un alto-rilievo che sfruttasse rielaborandolo il naturale andamento del pendio. Calcolate le dimensioni la città doveva essere una vera cittadina posta sotto la mano protettrice del Re mentre una serie di canalizzazione avrebbe deviato le acque naturali del monte verso la coppa per poi farle precipitare a mare.

Oltre a rappresentare un ideale riferimento per ben note realizzazione moderne – di fatto solo i progressi tecnologici avvenuti nella seconda metà del XIX secolo hanno reso possibili interventi simili e comunque più limitati – l’idea appare estremamente interessante proprio per la sua capacità di intervenire sull’ambiente naturale facendolo diventare l’elemento generatore dell’opera d’arte che ritroveremo nella nave di Lindos e che sarà così caratteristico di tutta la mentalità ellenistica trovando nell’urbanistica e nell’architettura gli esempi più compiuti dalle terrazze di Pergamo ai santuari dell’Italia romana.

Alceta a Thermessos

Alceta, fratello minore di Perdicca, restava dopo la congiura di Menfi l’ostacolo maggiore ai progetti di spartizione del Regno di Alessandro portati avanti dai Diadochi. Abile comandante, distintosi al fianco del macedone come stratego dei pezeteri era stato incaricato di governare la Pisidia dal fratello dove stato capace di conquistarsi l’affetto sincero di questi rudi montanari. Sconfitto da Antioco nel 318 a.C. si rifugio fra i monti di Thermessos dove si tolse la vita per non cadere nella mani del vincitore. I pisidi gli attribuirono esequie degne di una figura mitica associandolo all’eroe civico Bellorofonte il cui tragico destino sembrava riflesso dall’esperienza umana del giovane principe.

Per Alceta un’intera montagna fu trasformata in sepolcro, la sua sepoltura è l’ultimo è più monumentale esempio delle tombe rupestri della Licia – e licie dovevano essere le maestranza chiamate a realizzarlo – e il sego di un’epoca nuova che si stava aprendo che è che stava già profondamente trasformando le concezioni del potere e dello spazio.

Purtroppo il crollo della facciata rende difficile farsi un’idea precisa del monumento ma quello che resta è di primario interesse. Sono ancora pienamente riconoscibili il letto funebre che serviva da sarcofago, le nicchie per le offerte, il fregio con armi dei pezeteri che ricordava i trionfi di Alceta al seguito di Alessandro.

Ma è all’esterno che rimangono pur danneggiate le immagini più interessanti. Qui la superficie della roccia è stata lavorata in modo superficiale, lasciando in evidenza lo strato naturale e le sue irregolarità, la roccia stessa evoca il paesaggio montuoso di cui fa parte e in cui si svolgono le vicende narrate e qui rimane l’eroica figura di Alceta che impenna il destriero con il gesto di Bellerofonte che sprona Pegaso a prendere il volo mentre il mantello si gonfia alla spalle del principe come a definire il profilo di un’ala mentre la corazza che richiama quella di Alessandro sul mosaico della casa pompeiana del Fauno ricala l’immagine nella realtà storica contingente.

Arte e natura, storia e mito si fondono nell’immagine dell’infelice principe fra le montagne della Pisidia in un’opera che pur nella sua provincialità rappresenta una delle prima significative attestazione dei tempi nuovi che il fulmine di Alessandro aveva fatto nascere al suo passaggio.

 La nave di Lindos

Rodi ha rappresentato per tutto il periodo ellenistico uno dei più fecondi terreni di sperimentazione artistica. La ricostruzione del santuario di Atena a Lindos successivo al sisma che aveva duramente colpito l’isola nel 228 a.C. offri un’occasione straordinaria per gli artisti di sperimentare progetti fino a quel tempo impensabili.

Un primo intervento fu lo scavo di un’ampia esedra lungo la strada che saliva al tempio e utilizzata come un monumentale sedile di pietra. Questa struttura già presente al momento della ripresa dei restauri viene ora rilavorata e trasformata nel profilo di una nave da guerra.

L’incarico dell’opera fu affidato a Pitokritos, figlio di Timocrate, originario di Eleutherna di Creta ma già stabilità a Rodi prima del terremoto e in possesso della cittadinanza rodia affiancato da Asclepiodoro figlio di Zenone. Pitokritos doveva essere artista di forte capacità inventiva, perfettamente in possesso di quel gusto barocco dello stupore e della meraviglia che dominava l’estetica rodia.

Il risultato fu uno dei più monumentali rilievi del mondo antico. Sulla parte rocciosa prese vita una triemolía da guerra perfettamente dettagliata lunga 5 m ed alta 3 m. Il tipo rappresentato corrisponde perfettamente alla variante rodia di questo tipo di imbarcazione con scafo basso, poppa ricurva fortemente marcata e terminante con ricco aplustro ovvero quegli elementi che rendevano celebri per velocità, maneggevolezza le triremi rodie e che negli stessi anni erano celebrati dai rilievi con rostro che decoravano i nuovi arsenali cittadini costruiti negli anni subito precedenti. L’opera era completata dalla statua bronzea di un ammiraglio purtroppo ignoto posta in piedi nella parte più larga dell’imbarcazione, subito all’interno dello scafo.

L’impianto complessivo era completato sul versante opposto dell’acropoli dalla costruzione di un monumento a prora di nave che trasformava l’intera arce in una ideale nave di pietra.

L’importanza del monumento navale per i rodi è attestata dalla rapida e duratura fortuna del tema. Lo stesso tipo di prora serviva di basamento alla Nike di Samotracia eretta nel santuario cabirico dai Rodi per ricordare la vittoria riportata nel  190 a.C. dal navarca Eudamo a Side su Antioco di Siria e lo stesso tipo di nave si ritrova nel gruppo di Scilla ritrovato a Sperlonga ma di accertata fattura rodia. Ma proprio da Sperlonga proviene la più tarda ma assonanza con l’opera di Pitokritos, la trasformazione in foggia di prora del contrafforte roccioso su cui si innesta l’apertura della grotta naturale. Intervento databile ormai ad età romana che non potrebbe più ellenistico per lo spirito che le anima, perfetta fusione di naturale e costruito. Non va inoltre dimenticata la suggestione microasiatica – e forse specificamente rodia – che si può ritrovare nella trasformazione in forma di nave dell’Isola Tiberina sicuramente connessa ai miti relati all’introduzione del culto di Asklepios a Roma ma altrettanto innegabilmente permeata di quel linguaggio ellenistico asiano così presente nel Latium vetus della media e tarda repubblica.

I “Santoni” di Acre

Anche l’Occidente non manca di significative testimonianze al riguardo. Uno degli esempi più noti è quello dei rilievi votivi di Akrai nell’attuale comune di Palazzolo Acreide opera di primaria importanza per comprendere il temo del rilievo monumentale in ambiente naturale nell’Occidente ellenistico ma di difficile interpretazione a causa del cattivo stato di conservazione dovuto alla lunga esposizione alle intemperie e alla scarsa qualità della roccia di base.

L’intera superficie del colle Orbo è stata rilavorata con lo scavo di dodici nicchie principali con immagini di divinità più altre secondarie prive di rilievi e probabilmente destinate all’ostensione di oggetti di culti.

In ben dieci nicchie compare la figura di una grande Dea in trono – stante nelle due nicchie rimaste – vestita con lungo chitone e coronata con polos. Questa figura centrale è affiancata da altri personaggi in scala ridotta che contribuivano a specificare il carattere del culto.

Per quanto lo stato di conservazione renda difficili valutazioni precise il riconoscimento fra le figure secondarie di Hermes e di Cerbero permette di collocare la scena in un contesto ultramondano. Appare quindi verosimile identificare la divinità rappresentata non tanto in Cibele – come pure si è proposto – quanto piuttosto in Kore-Persefone, ipotesi che troverebbe solido appoggio nella centralità dei culti tesmoforici in Sicilia.

Per quanto rovinati i rilievi sembrano mostrare apparentamenti con alcune produzioni scultoree siceliote del IV a.C. che potrebbero indicare una datazione fra la fine del secolo e l’inizio del successivo mentre i legami fra scultura e contesto naturale potrebbero indicare un abbassamento alla piena età ellenistica. Allo stato attuale mancano dati certi al riguardo.

Lindos. La nave di Pitokritos

Thermessos. Rilievo con Alceta a cavallo

I “Santoni” di Palazzo Acreide in un’incisione del XVIII secolo.

 

La magica stagione degli ultimi decenni del Settecento a Vienna, luogo di fioritura geniale e di raggiungimento di una perfetta estetica musicale secondo i dettami del Neoclassicismo più puro prima che i decenni napoleonici e le tempeste romantiche spazzassero via quella stagione inimitabile in cui si era compiuto il miracolo – caso forse unico nella storia d’Europa – in cui un’avanguardia culturale – perché tale era a tutti gli effetti il neoclassicismo – aveva saputo segnare in modo così totalizzante l’immaginario del proprio tempo. A quella stagione felice è dedicato il nuovo CD di Lena Belkina, mezzosoprano ucraino fattosi notare come promettente germoglio in occasione de “La cenerentola” televisiva del 2012 e consacrata con l’Arsace dell’”Aureliano in Palmira” pesarese del 2014.

Ad accompagnare ottimamente la cantante troviamo la ORF Radio Symphony orchestra ottimamente diretta da Andrea Sanguineti con sonorità chiare, nitide, luminose, tempi brillanti e vivaci, grande cura dei dettagli timbrici – si veda con quale precisione è reso il caleidoscopico fondo sonoro della scena elisia dell’”Orfeo ed Euridice”. Il programma si organizza come una sorta di rondò con tre sezioni distinte ciascuna dedicata a un compositore – nell’ordine Mozart, Gluck e Haydn – aperta da un’ouverture sinfonica seguita dai brani cantati.

Posto in apertura il rondò di Sesto “Parto, ma tu ben mio” mostra in pieno le doti della Belkina. Voce di mezzosoprano scuro, dalle giuste sfumature virili, morbida e omogenea in tutta la gamma con gravi di particolare ricchezza e solidità, ottima dizione italiana, linea di canto raffinatissima e naturale aplomb nel canto di coloratura frutto della lunga esperienza belcantista. Impressioni perfettamente confermato dalla successiva prova come Idamante (“Il padre adorato”). Merita una particolare attenzione l’aria da concerto “Ch’io mi scordi di te?” K.505 brano della piena maturità mozartiana in cui già si sentono anticipazioni di “Così fan tutte” e ancor più de “La clemenza di Tito” e retto da un raffinatissimo dialogo fra canto, orchestra e pianoforte solistico – un ottimo Andrea Bacchetti – in cui la Belkina non solo canta molto bene ma segue con efficacie tutte la ricca gamma espressiva del brano.

La parte dedicata a Gluck è forse la più riuscita del programma. Si è già accennato all’ottima prova direttoriale in “Che pur ciel” ma altrettanto riuscita è la priva della Belkina la cui vocalità ha la morbida cavata ideale per l’astrazione classica del brano. Di “Oh, del mio dolce ardor” da “Paride ed Elena” ascoltiamo forse la miglior esecuzione documentata. La Belkina non ha nulla da invidiare per qualità del canto e senso dello stile alla storica esecuzione di Magdalena Kožená ma è superiore a quest’ultima per ricchezza timbrica e identificazione con il personaggio. Più scura, più densa, più maschile la voce della Belkina toglie Paride dalla dimensione fin troppo femminea della Kožená. Il suo è veramente un giovane eroe, un efebo dalla virilità ancora acerba ma già montante perfetta trasposizione vocale del principe troiano.

La parte dedicata ad Haydn è forse la più interessante per la rarità dei brani ma anche quella meno seducente per un’ispirazione più scolastica, per la mancanza di quel colpo d’ala verso il sublime che è di Mozart e Gluck ma che mancava alla produzione operistica di Rohrau sostituita da un mestiere altissimo ma forse un po’ rigido. La Belkina canta comunque al meglio sfruttando l’eleganza della propria linea di canto nella bella melodia di “Se non piange un’infelice” (da “L’isola disabitata”) e giungendo sicura in porta di quell’autentico cimento rappresentato dalla Scena di Berenice Hob XXIVa:10 chiamata a chiudere trionfalmente il programma.+

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HELIOS

Oggetto di culto fin dalla più nota antichità ellenica Helios compare nel mondo figurativo con il pieno arcaismo. Le immagini più antiche si ritrovano su vasi attici a figure nere ove compare alla guida del cocchio trainato da cavalli alati (anfora di Vienna, lèkythos di Atene) che in alcuni casi può comparire in visione frontale (skyphos da Taranto), in alcune rappresentazioni compare in compagnia di Eracle (skyphos del Museo nazionale di Atene). In queste immagini più antiche il Dio è barbuto e indossa un copricapo a calotta.

La successiva produzione a figure rosse arricchisce l’immaginario ma non lo trasforma radicalmente. L’immagine tradizionale continua a vederlo come auriga del carro celeste. Ciò che cambiano sono gli schemi compositivi – con la rigida frontalità arcaica che lascia spazio a soluzioni in scorcio sempre più ardite e dinamiche – il tipo di carro ora spesso a quattro cavalli e il prevalere del tipo imberbe pur ritrovandosi ancora nel V a.C. immagini barbate di tradizione arcaica (cratere di Detroit), scompare di solito il berretto arcaico sostituito dalla corona radiata che sarà da ora in avanti il suo tratto distintivo. Il celebre cratere 1867 di Londra con il cocchio di tre quarti lanciato al galoppo e guidato da un Helios vestito con chitone leggero senza maniche incarna in pieno l’immagine “classica” del Titano (l’opera si data intorno al 430 a.C.).

La rivoluzione fidiaca investe anche questa figura. Se Helios resta escluso dalle assemblee divine può però accompagnare gli Dei come accade sul fregio partenonico dove i carri di Helios e Selene aprono e chiudono il fregio o come doveva essere sul trono di Zeus a Olimpia descritto da Pausania (V, II, 8).

In età tardo-classica ed ellenistica la figura gode di grande fortuna e partecipa a complessi cicli figurativi comparendo al fianco di Selene, Endimione, Eros, Psiche, nel giudizio di Paride e in un gran numero di altre scene epiche o mitologiche cui spesso fornisce solo una componente ambientale (e come tale insieme alla sorella ricomparirà nel coronamento dei sarcofagi romani di età medio-imperiale).

La ceramica figurata italiota riprende spunto da quella attica del secolo precedente ma le composizioni sono più pacate, gli scorsi meno arditi, e non troveremo l’impeto vitalistico degli originali attici. Il carro è speso in un tre quarti quasi frontale con i cavalli stanti o in lento passo da parata piuttosto che lanciati al galoppo (Cratere di Boston 03.804 di fabbricazione apula). Nella ceramica di Gnathia comincia a comparire la sola testa radiata che godrò di ampia fortuna fino alla fine dell’antichità e che ritroveremo con frequenza sui mosaici di età imperiale sia isolata (a Sparta) sia in complesse composizioni cosmologiche come a El Jem dove insieme a Selene e alle stagioni circonda il busto di Saturno-Annus.

Nella scultura monumentale due sono le testimonianze fondamentali. In primis il celeberrimo “colosso” eretto a Rodi da Cares di Lindos per celebrare la vittoria su Demetrio Poliorcete. Per quanto irrimediabilmente perduto se ne può fare un’idea dall’Helios di Santa Marinella al Museo di Civitavecchia. Nudo, in posizione chiastica, la faretra a tracolla e il braccio destro sollevato – a reggere la fiaccola anche se l’arto è andato perso – il volto glabro, il capo che dobbiamo immaginare radiato.

Il secondo è il rilievo del grande altare di Pergamo dove partecipa vestito da apobates alla gigantomachia. La scultura decorativa riprende spesso il tema del carro solare spesso con ardite soluzioni prospettiche che trasportano in scultura schemi originariamente pensati per la pittura (metopa da Ilio a Berlino) così come frequenti erano le immagini stanti spesso assimilate nell’acconciatura al ritratto di Alessandro Magno (erma Azara). Un riflesso di queste produzioni si ritrovano in copie di epoca romana come la testa di Heliopolis ancora imbevuta di spirito ellenistico o il più accademico busto di Palazzo Lazzeroni a Roma. In età romana – ma di pretta suggestione ellenistica – è il Colosso di Nerone assimilato a Helios eretto nei pressi della Domus Aurea di cui si è proposto di vedere un frammento nella mano colossale in bronzo dei Musei Capitolini ipotizzando un riuso in età costantiniana del colosso neroniano mentre la testa si può forse riconoscere nell’Helios radiato del Louvre.

In età ellenistica – e verosimilmente in ambiente pittorico – vengono creati gli schemi relativi alle storie di Fetonte di cui restano echi in età romana nella Domus Aurea, nella Villa della Farnesina e in molti sarcofagi. L’immagine più originale è quella di Helios in trono di fronte al quale il figlio chiede gli venga prestato il carro. In alcuni esemplari la testa del Titano non appare coronata.

L’iconografia ufficiale romana farà proprio il tema del carro solare – spesso insieme a quello lunare – come simbolo di perennitas e di eterno rinnovamento strettamente legate al culto imperiale. In questa funzione compare con frequenza fin dall’Augusto di Prima Porta come elemento decorativo delle loriche imperiali almeno fino a Nerone dopo il quale il tema tende a perdere di favore forse per l’eccessivo uso fattone dalla propaganda neroniana. Nel II secolo torna però in auge come attesta un loricato acefalo alla metà del secolo (Adriano o Antonino Pio)  fino alle sistematiche assimilazioni solari dei Severi (Eliogabalo-Heios da Carnuntum) e degli imperatori del III secolo fino ai tetrarchi e a Costantino anche se qui l’antico Helios greco a lasciato il campo al Sol Invictus mediato dalle religioni solari della Siria.

Oltre che sulle loriche il tema dei carri celeste compare co n analoghe funzioni su molti monumenti onorari fino ai tondi dell’Arco di Costantino ultima rielaborazione nel gusto del tempo di moduli di derivazione classica.

Il tema è ripreso con una certa frequenza anche sui mosaici nel III d.C. sui mosaici pavimentali della villa di Boscéaz e alla fine del secolo nel mosaico parietale di uno degli ipogei della necropoli vaticana e in oggetti di arredo liturgico e di arti suntuarie. Nella patera di Parabiago – ormai alla fine dell’antichità – i carri del Sole e della Luna coronano superiormente il trionfo di Cibele. La stele votiva romana dedicata a Sol Sanctissimus nel II d.C. con busto radiato e aquila si rifà apertamente all’iconografia palmirena di Malakbel ma questo ci porta alle complesse problematiche relative all’iconografia degli Dei solari levantini e mesopotamici che troppo ci allontanerebbe dal tema del presente intervento e che in parte è stata già trattata (https://infernemland.wordpress.com/2011/02/27/divinita-armate-in-siria-considerazioni-di-iconografia-fra-roma-e-loriente/).

SELENE

L’iconografia della Titanessa lunare si afferma ancor dopo quella del fratello. E’ infatti solo al passaggio fra la stagione della ceramografia attica a figure nere  a quella a figure rosse che la sua figura comincia ad assumere una consistenza iconografica. Si è riconosciuta Selene in alcuni grandi volti femminili entro disco datati intorno al 500 a.C. (coppa di Sosias a Berlino, coppa del Pittore di Elpinikos a Bonn).

Di poco posteriori le raffigurazioni sul carro che riprendono adattandoli schemi iconografici concepiti originariamente per Helios come in una kilyx di Brygos a Berlino datata ai primi decenni del V a.C. in cui si riprende il carro in visione frontale di tipo arcaico. La Dea indossa chitone e himation e porta sul capo un sakkos decorato a losanghe colorate.

Intorno alla metà del secolo l’immagine sul carro e affiancata e spesso sostituita da quella della Dea a cavallo (o sul dorso di un asino) come nell’oinochoe del pittore di Egisto a Firenze. Selene cavalca all’amazzone e veste con l’abito tradizionale mentre una semplice tenia ne ferma i capelli; il crescente lunare posto al suo fianco identifica con certezza la figura. E’ uno schema destinato a lunga fortuna che ritroveremo ancora a fine secolo nell’opera del Pittore di Meidias in cui il soggetto è riletto con gusto virtuosistico nella postura e nei ricchi panneggi (cratere a Vienna).

A partire dal complesso partenonico la figura di Selene sul cocchio o a cavallo viene sempre più spesso utilizzata per dare alle scene rappresentate u inquadramento cosmico. Mentre la tarda ceramografia attica recupererà il tipo della semplice testa entro disco come in un cratere frammentario del Pittore di Protogonos a Berlino dove precede Nyx cavalcante.

In età ellenistica la sua iconografia tende a complicarsi a seguito di processi sincretistici sempre più complessi. Tratti di Selene si ritrovano in Artemide, Ecate, Ilizia rendendo a tratti sempre più complesso identificare l’esatta figura rappresentata. In età romana l’identificazione con Artemide sarà quasi esclusiva salvo nei casi in cui la figura – di solito su carro – sia chiamata a dare il semplice inquadramento ambientale a scene più complesse o in monumenti pubblici dove insieme a Helios incarna i valori di Aeternitas del potere imperiale (fino ai clipei dell’arco di Costantino). Forse con Selene si può identificare la divinità raffigurata in una statua del Museo Pio-Clementino con chitone smanicato, mantello gonfiato a formare un nimbo alle sue spalle, crescente lunare e fiaccola.

L’immagine più importante per il periodo ellenistico è quella nella gigantomachia di Pergamo dove vestita con un leggero chitone avanza a cavallo verso la mischia.

In età romana un soggetto che gode di immensa fortuna è quello della visita notturna di Selene all’amato pastore Endimione. Creati probabilmente in età ellenistica e in ambito pittorico gli schemi iconografici del mito conoscono una fioritura rigogliosa in età medio-imperiale per la decorazione di sarcofagi. Riletto in chiave escatologica e salvifica il mito è fra i preferiti nella decorazione funeraria e in molti casi la coppia protagonista porta il ritratto del defunto e della sua sposa che giunge a visitarlo (interessante al riguardo un esemplare al Louvre datato intorno a 230 d.C. completamente finito tranne i volti dei protagonisti solo sbozzati per essere poi completati con i tratti dei committenti). L’iconografia mostra la Dea avvicinarsi all’amato dormiente di solito all’interno di un paesaggio pastorale. Questa può scendere dal cocchio, da cavallo (collezione Astor intorno al 240 d.C.), a piedi recando con se la torcia (già citato esemplare del Louvre). Solitamente Endimione è dormiente ma in alcuni casi è desto in attesa dell’amata (frammento a Berlino degli inizi del III secolo) infine un esemplare romano (musei capitolini) della fine del II d.C. mostra il momento successivo con Selene che risale sul carro pronta a risalire in cielo dopo la visita notturna.

In forma sintetica – solo la coppia protagonista – e con funzione simbolica ovviamente diversa il tema compare sui mosaici pavimentali di alcune domus africane di II-III d.C.

Helios sul carro solare. Cratere 1867 di Londra.

Helius the Sun

 

Metopa da Ilio a Berlino

Metopa da Ilio a Berlino

Kilyx di Brygos con Selene sul carro

Kilyx di Brygos con Selene sul carro

Selene ed Endimione. Dettaglio di un sarcofago romano del II d.C.